Coach Antonio Petillo e la sua Africa
Incontro con grande curiosità Antonio Petillo, coach della Kouros Basket Napoli, rientrato da poco da un viaggio in Africa, il quale accetta di raccontarmi la sua opera di volontario con l’associazione Amani for Africa.
Di che cosa si occupa nella vita?
Sono stato responsabile di un’azienda grafica per 44 anni. In parallelo ho sempre svolto l’attività di allenatore e, attualmente, sono in pensione. Come allenatore di pallacanestro ho iniziato con i livelli dilettantistici, ho continuato da professionista per undici anni a Scafati, con due intermezzi a Caserta e a Melfi. Sono formatore degli allenatori della Federazione Italiana Pallacanestro.
Attualmente mi sto dedicando interamente a un progetto che riguarda lo sport nel quartiere di Scampia a Napoli. Il progetto è stato ideato insieme a Francesco Mancini nel 2007 perché, ricordando ciò che aveva fatto il mio insegnante di educazione fisica per me, decisi di fare anche io qualcosa per il quartiere, iniziando ad allenare i ragazzi che vi abitavano.
Il mio insegnante, infatti, Professore Cerza, scomparso prematuramente, mi aveva avviato alla formazione di educatore.
Come è avvenuto l’incontro con l’associazione Amani for Africa?
In realtà è venuto fuori da due mie grandi passioni: una per i viaggi, l’altra per il sociale. Ho viaggiato molto, sia in Europa che in Asia, ma non ero mai stato in Africa per cui decisi di andarci come volontario, per contribuire ad aiutare le persone in difficoltà. Inviai, così, il mio modulo di collaborazione all’associazione che mi era stata indicata da un amico proprio come un’associazione che si interessava dei bambini di strada.
L’obiettivo di Amani for Africa è molto simile al nostro che lavoriamo alla periferia di Napoli e abbiamo, innanzitutto, uno scopo sociale. In Zambia Renato Sesana, oggi Padre Kizito, ha creato la Koinonia Community che ha lo scopo recuperare i ragazzi di strada.
In Africa, infatti, accade che i ragazzi che vivono di stenti, convinti o plagiati dai loro coetanei (parliamo di bambini a partire dai sei, sette anni in poi), decidono di abbandonare le loro famiglie per andare a vivere ai margini delle città. Non hanno il sogno dei sudamericani di diventare ricchi quanto, piuttosto, l’esigenza di mangiare. È per questo motivo che vengono detti dai poliziotti “ragazzi spazzatura” perché la fame li costringe a mangiare l’immondizia.
La loro decisione è dovuta oltreché dalla fame anche dalle violenze che vedono o subiscono in famiglia. Lì le famiglie sono ancora allargate e i figli è come se fossero di tutti. Questo genera un doppio effetto: da una parte i figli si sentono più protetti da tanti parenti ma, dall’altra, l’affetto nei confronti dei genitori è meno morboso così più facilmente i bambini vanno via. Dopo aver camminato anche per tre giorni a piedi, arrivano nelle periferie delle città, conducono una vita da mendicanti e si radunano in clan per auto proteggersi. Il clan, in genere, è condotto e protetto da un ragazzo più grande che ha una ventina di anni e ogni zona della città ha un suo clan. Di giorno, come dicevo, vanno a mendicare, risolvendo anche con qualche espediente truffaldino, per cercare di mangiare e sopravvivere e, ben presto, si ritrovano persi nella città, inglobati in un meccanismo da cui non riescono più ad uscire. Per proteggersi dalla fame sniffano la colla o il cherosene che acquistano dal capoclan con i pochi soldi che sono riusciti a racimolare in giro, diventando così dei drogati. Attraverso l’assunzione di queste sostanze, che non sono proprio droga pura ma che riescono ad offuscare la loro mente, possono acquietare i morsi della fame. Questo fenomeno si è sviluppato moltissimo negli ultimi anni in Kenya, in particolar modo, più che in Zambia.
Padre Kizito opera da una ventina di anni con la sua Koinonia Community impiegando esclusivamente africani che sono, per lo più, tutti gli ex ragazzi di strada che lo hanno frequentato e sono diventati educatori. Alcuni di loro hanno studiato all’Università, a volte anche in Italia. Sono, infatti, gli africani che possono avvicinare i ragazzini perché conoscono il loro mondo e il codice del colore li identifica come amici consentendo loro di entrare nel clan. Anche io quando ho visitato Kibera, che è il quartiere periferico di Nairobi, dove vivono tre milioni di abitanti e c’è una baraccopoli sterminata, sono potuto entrare perché accompagnato da loro. Gli educatori fidelizzano i ragazzi dei clan, li portano a mangiare o a passeggiare nei parchi, pregano insieme a loro e, nonostante la sporcizia, li abbracciano perché ci vuole amore per fare determinate cose. È capitato anche a me.
Contrattando con il capoclan, gli educatori cercano di capire quali sono i ragazzi probabilmente recuperabili, attraverso varie tecniche. Una volta, ad esempio, siamo stati in un parco dove abbiamo organizzato una partita di calcio e questi espedienti servono agli educatori per comprendere l’indole dei ragazzi, chi sono i leader e chi sono coloro che subiscono. Identificati quelli che non sono molto drogati, gli educatori cercano di portarli presso il Mthunzi Centre, che è una struttura della Community, nella quale i bambini possono essere accuditi in ogni cosa. Hanno vitto, alloggio, studio e svago insieme agli educatori e ai volontari come me. Contemporaneamente l’associazione crea un collegamento tra i bambini e le loro famiglie originarie. Questo è molto importante perché evita che i bambini possano essere venduti ai trafficanti di organi o sparire tramite adozioni fasulle. Prima di entrare nel Rescue, i ragazzi fidelizzati si spogliano e i loro abiti vengono bruciati per motivi di igiene. Una volta entrati nel centro si lavano e indossano abiti puliti. Una percentuale di ragazzi, pari al 20-30%, non riuscendo a rispettare le regole, decide di tornare in strada.
Tutto questo è sostenuto dall’Associazione Onlus Amani for Africa con sede a Milano. Durante i periodi di vacanza scolastica si organizzano dei camp, in cui vi sono anche dei responsabili italiani che controllano sia le attività che come vengono spesi i soldi italiani. Noi volontari, infatti, portiamo anche soldi che sono utilizzati per le attività dei ragazzi. Attraverso dei test, l’Associazione seleziona un gruppo di animatori che si occupa, appunto, delle attività che vanno dalle gite con i pullman, che per i bambini costituiscono una grande novità, alle giornate in piscina o, anche, come nel mio caso, all’insegnamento di uno sport.
Sin dalla prima volta ho avuto con i ragazzi molto successo, mi piace stare con loro e, soprattutto, insegnare. Inoltre, grazie alla mia esperienza di allenatore, ho con loro un rapporto empatico molto facile.
Quando è andato in Africa per la prima volta?
Sono andato nel 2016. Quest’anno sono andato sia in Kenya che in Zambia. Ogni volta che parto, svuoto quasi tutto il magazzino della nostra società di Napoli e vado a rifornirmi di palloni nuovi, completini e ogni attrezzatura che può servire a giocare. Mi piace portare roba nuova. In Zambia la realtà è più rurale rispetto al Kenya ma anche lì i ragazzi si allontanano per andare verso la periferia della capitale Lusaka.
A differenza del Kenya, dove eravamo riusciti a trovare due pali per sistemare i canestri, in Zambia abbiamo dovuto fare noi anche i tabelloni.
In particolare li ha fatti un fabbro che è un ex allievo del centro e con degli strumenti semplicissimi, come faccio vedere nel video, ha foggiato gli anelli dei canestri con le misure regolamentari. In Kenya la pallacanestro era un po’ conosciuta mentre in Zambia non ne avevano mai sentito parlare, quindi ho spiegato loro le regole iniziali poi ho fatto vedere ai ragazzini dei video dei ragazzi del Kenya, e così si sono già cominciati ad appassionare, infine ho fatto vedere anche dei video nostri.
La cosa che li ha più sorpresi, e che mi ha commosso, sono state le scarpette colorate indossate dai nostri ragazzi, dato che in Zambia per lo più vivono con i piedi scalzi nella terra. Vedere le scarpette ha costituito un’attrazione. Quindi ho fatto prima delle lezioni spiegando le regole e poi abbiamo giocato dei tornei con 40 – 50 ragazzini e si sono molto divertiti.
Quando il camp finisce anche tutte queste attività terminano o si dà loro un seguito?
Terminano. Ho chiesto, infatti, ad Amani di creare una certa continuità perché altrimenti rimane soltanto un momento ludico. Non so ancora come, ma la mia idea sarebbe quella di formare gli educatori che ora sono diventati un po’ più grandi e non sono ritornati in famiglia.
Che cosa fanno i ragazzi che tornano in famiglia?
Attraverso la scuola, grazie alle associazioni, hanno qualche competenza per poter fare qualcosa riuscendo ad aprire dei negozietti o qualche attività. Il ragazzo che ha fatto i canestri era un ex ragazzo della comunità che ora fa il fabbro. Chiaramente è un semplice manovale che ripara gli attrezzi, gli utensili e ciò che serve nel villaggio.
I ragazzi africani sono coscienti delle loro condizioni di vita?
Noi parliamo continuamente e chiaramente con loro. La prima volta, quando sono arrivato, mi hanno messo al centro di un cerchio e lì mi sono presentato chiedendo loro di venire al centro a giocare basket. Avevo pudore di parlare del loro passato anche con i ragazzi del centro mentre gli educatori mi hanno suggerito proprio il contrario, cioè di dialogare, di chiedere e di suggerire loro di non stare per strada.
In quell’occasione dissi loro che nella strada nessuno li rispetta e nessuno li protegge, anzi, qualcuno li perseguita e mangiano nella spazzatura mentre nel centro ci sono le loro famiglie e nessuno può volere bene più della propria famiglia.
I ragazzi sono invitati a studiare, in modo tale da poter avere in futuro un lavoro e inserirsi meglio nella società. C’è chi accetta i nostri consigli, ritornando sulle sue decisioni, entrando nel centro e chi, invece, ritorna in strada perché irrecuperabile. Tornando a noi della pallacanestro è un momento di divertimento per loro, per stare insieme e giocare rispettando delle regole.
Io vorrei che il basket diventasse uno strumento di reclutamento perché non tanto in Kenya quanto in Zambia è stata una grande novità. Io mi sono molto affezionato a questi ragazzi e vengo ricambiato. La mattina, ad esempio, venivano a chiamarmi nel mio alloggio e mi invitavano a giocare.
Lei è una persona caritatevole e poiché lo sport ha un grande valore educativo, perché non insegna solo a giocare, vuole mandare un messaggio ai nostri ragazzi che sono attori e vittime della società dei consumi?
Ai ragazzi dico sempre di non guardare al modello consumistico americano ma a seguire il pensiero della mente. La nostra crescita non deve avere l’obiettivo economico ma quello culturale; cultura intesa come capacità di fondere e mettere insieme tutte le conoscenze che abbiamo e di produrre qualcosa di nostro.
Anche nel basket io dò ai ragazzi gli strumenti che loro devono imparare a utilizzare con le loro capacità. Così intendo anche la cultura: come l’elaborazione dei dati acquisiti, sia positivi che negativi, messi insieme per creare un prodotto personale. Se la mente è capace di acquisire e di confrontare tanti dati e poi di elaborare viene fuori una nuova idea e, quindi, la crescita della persona e di tutta la comunità, si trovano nuove strade di vita che non sono solo quelle dell’usa e getta.
Inoltre vorrei trasmettere loro l’importanza del senso della comunità. Noi abbiamo avuto ragazzi qui a Napoli che, a un certo punto, hanno deciso di lasciare il basket perché non volevano frequentare i ragazzi di Scampia. Coloro che mi hanno seguito sono diventati molto bravi.
Tutti noi guardiamo ai modelli più evoluti e sarebbe bello unire gli emarginati per integrarli e crescere insieme.
Non so se sarà possibile ma mi piacerebbe fondere i ragazzi della periferia di Napoli con quelli di Nairobi e di Lusaka, cioè di portare i nostri ragazzi lì e viceversa perché, alla fine, la cosa più importante su cui riflettere è che i bambini sono uguali dovunque, hanno le stesse esigenze. Mentre gli africani hanno il problema della fame, della sopravvivenza, i nostri ragazzi di periferia hanno dei seri problemi di integrazione e di aggregarsi a delle comunità che siano più sane.
L’incontro con coach Petillo mi lascia perplessa perché provo due sensazioni abbastanza contrapposte: la prima è quella della commozione perché sapere che dei bambini lasciano la propria casa in cerca di cibo e dormono ammucchiati in buche per non farsi scoprire, è un fatto terribile, che umilia noi, che nonostante tanti problemi, mangiamo ogni giorno e ci preoccupiamo per idiozie; dall’altra mi fa ben sperare che i ragazzi del Rescue e tanti come loro possano, grazie a benefattori, avere una scuola da frequentare e qualcuno che davvero li protegge dai trafficanti di organi e dalla delinquenza.
Accanto a veri e propri episodi di razzismo, si sta sviluppando nel mondo occidentale la cultura dell’integrazione, dove per integrazione non è necessario guardare all’Africa ma, come ha sottolineato coach Petillo, basta fermarsi alle periferie delle grandi città non solo meridionali perché, come diceva il compianto e grande Luciano De Crescenzo, si è sempre meridionali di qualcuno e ognuno di noi è portato a guardare solo chi sta meglio.
Grazie a Coach Petillo e a tutti coloro che si adoperano per aiutare i più deboli.
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Maria Paola Battista
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