EDWARD HOPPER E IL RELIASMO NELL’ARTE DEL ‘900 A BOLOGNA

Domani alle 17,30 nella Sala dello Stabat Mater dell’Archiginnasio, in Piazza Galvani 1, a Bologna, Renato Barilli, terrà la conferenza dal titolo “Edward Hopper e il problema del realismo nell’arte del Novecento”.
Un’occasione per approfondire il tema del rapporto fra il pittore Edward Hopper – grande protagonista di questi mesi a Bologna, grazie alla mostra a lui dedicata fino al 24 luglio a Palazzo Fava, organizzata e prodotta da Genus Bononiae e Arthemisia Group, in collaborazione con Comune di Bologna e ilWhitney Museum of American Art di New York – e il tema del realismo nell’arte del Novecento.
Tema in apparenza problematico per uno studioso come Barilli che nella sua attività ha sostenuto le tesi e i percorsi delle avanguardie vecchie e nuove del secolo scorso, da cui una certa nozione di realismo è stata messa in discussione, o addirittura negata. Ma proprio l’opera di un pittore come Hopper sta a dimostrare che un filo diretto con la realtà non è mai venuto meno, e che il pubblico ne apprezza le manifestazioni, come sta a dimostrare il successo della mostra in atto a Palazzo Fava organizzata da Genus Bononiae. La matrice di questo rapporto è senza dubbio da ricercare nell’Impressionismo, non tanto quello legato a Monet, che esclude quasi del tutto l’attore umano dalle sue vedute, quanto quello di Edouard Manet, Edgar Degas, Gustave Caillebotte, impressionismo che non è stato solo un fenomeno francese, ma ha riguardato tutti i paesi; anzi, paradossalmente, si può sostenere che il principale interprete di quell’intero fronte è stato lo statunitense Winslow Homer, di cui il nostro Hopper appare come valido discendente. In mezzo ci stanno anche altri super-realisti come lo spagnolo Sorolla e lo svedese Zorn, e i connazionali di Hopper detti precisionisti. Comunque è vero che Hopper si reca a Parigi alla ricerca del postimpressionismo, ed è influenzato dalle vedute fredde di Albert Marquet che sfidano l’obiettivo fotografico. Rientrato in patria, non ha certo avuto impacci nel rappresentare la figura umana, raggiungendo una grande maestria sia nelle vedute urbane, sia in “interni”, ma vuoti, desolati, fatti per una “folla solitaria”, sviluppando un’epica del quotidiano cara anche a fotografi e registi cinematografici. E Hopper si può confrontare anche con le vedute fuori mano, di provincia, di un’America minore quali si incontrano nei capolavori di Hitchcock. Da Hopper, inoltre, si può giungere a certi suoi connazionali che hanno dato consistenza tridimensionale, plastica a quelle povere immagini di everyman , basti pensare a George Segal e a Dwane Hanson.
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