Essenza

Immagini, voci e pensieri si intrecciano freneticamente nella nostra quotidianità, e, in questa danza caotica, c’è una lotta silenziosa che si cela, quella tra la forma e il contenuto, una tensione costante verso l’uno o l’altro, un equilibrio precario. Cerchiamo allora, come il primo fondamentale passo di un funambulo, di rispondere alla domanda più importante: cos’è l’essenza?
Dal latino essentia, ‘essere’, secondo la concezione aristotelica, “ciò per cui una certa cosa è quello che è, e non un’altra cosa” ed è forse opportuno chiamare in causa il suo sinonimo, “sostanza”, dal latino substàntia ‘essenza’, ‘stare sotto, stare fermo’.
È, cioè, il nostro io più profondo, quella parte di noi che non sempre mostriamo agli altri, come la parte sommersa dell’iceberg: la più grande, la più celata, eppure profondamente radicata al nostro essere. Si distica, l’essenza, dalla parte più piccola, la punta, ovvero, la forma, quella che si impone agli occhi con immediatezza, il nostro guscio manifesto, che qualcuno definirebbe il mondo dell’apparenza. La tensione tra essenza e forma è antica quanto il pensiero stesso: da Platone ad Aristotele, da Kant a Heidegger, è una lotta incessante tra il significato e la rappresentazione, tra ciò che siamo e ciò che sembriamo.
Non si può parlare di essenza senza menzionare una delle opere più emblematiche che ha affrontato il tema: Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry. La celebre frase, pronunciata dalla volpe, “L’essenziale è invisibile agli occhi”, racchiude in sé il cuore del contrasto tra essenza e forma. È il piccolo principe a imparare la lezione, ovvero che ciò che conta davvero si percepisce con il cuore: il legame profondo con la sua rosa, unico e irripetibile, non è definito dalla sua apparenza, ma dal tempo e dall’amore che le ha dedicato.
Oggi, questa dicotomia sembra essersi accentuata con l’universo digitale che abitiamo, lo specchio deformante in cui proiettiamo la nostra forma o, per i più coraggiosi, la porta sulla propria anima. Ci si sente intrappolati in un labirinto, spinti dal bisogno di essere accettati e costretti a conformarsi ai canoni della società, fino a perdere di vista la propria autenticità. Allo stesso tempo, anche la smania opposta, la fuga dal conformismo, può farci smarrire, in una corsa affannosa che sembra non mettere mai davvero al centro noi stessi. Una cosa è certa, per Paloma (L’eleganza del riccio, Muriel Barbery) raggiungere l’essenza delle cose è un desiderio ardente, che si scontra con la superficialità della sua famiglia, e sarà proprio lei ad accorgersi per prima dell’autentico essere di Renée, una donna dalla profonda cultura e passione per la filosofia, che si cela dietro la maschera della goffa portinaia.
Un dibattito ancora aperto, quello, tra essenza e forma, “Less is more” direbbe l’architetto Ludwig Mies van der Rohe per incitare a ridurre la forma per far emergere l’essenza. Tuttavia, l’essenza e la forma sono inestricabili e il confine, spesso, è molto più complesso da definire.

Sembrano poli opposti, nel romanzo Il nome del male di Sarita Massai, la forma e il contenuto. Un racconto sicuramente non classico, fuori dagli schemi, pochi dettagli, spazi vuoti, silenzi, e poi immagini che si rincorrono, emozioni contrastanti che restituiscono al lettore la realtà deformata di una bambina violentata nel corpo e nell’anima, il racconto dei soffocanti effetti del trauma. Un tema duro, difficile da trattare senza incorrere il rischio di cadere in altra violenza, ma Sarita Massai riesce con la sua penna a dare forma a una narrazione che è pure poesia e che, nell’asprezza della sua essenza, svela, attraverso la sua forma, la scrittura come arte preziosa che cerca di portar via il marcio dal mondo.
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