I Normanni, popolo d’Europa nel romanzo di Eleonora Davide. La recensione di Giuseppe Muollo

In occasione della presentazione de Il Normanno, il romanzo storico ambientato nell’Irpinia medievale, che si è svolta lo sorso 3 gennaio a Chiusano San Domenico (AV) nella splendida sala del Palazzo De Francesco, il dott. Giuseppe Muollo, direttore del Museo di Storia Normanna di Ariano Irpino, già funzionario dirigente della Soprintendenza di Avellino e Salerno, è intervenuto al fianco degli altri dotti relatori con una prolusione che ha affrontato i temi trattati dall’autrice nel contesto storico in cui si svolgono le vicende narrate e della quale ci ha gentilmente consegnato il testo.

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Il Normanno, romanzo storico di Eleonora Davide, Amazon KDP, pp.251, 2019 di Giuseppe Muollo

Quando ho avuto tra le mani il libro che Eleonora Davide, mi ha fatto gentilmente avere per il tramite della dott.ssa Meriano, che ringrazio con affetto, sono stato attratto dalla copertina realizzata con l’immagine, in primo piano, di un elmo normanno di forma conica, con nasale a forma di croce, sovrapposto al casco, in latino cassis, non fuso in un’unica lastra di ferro, ma costituito da fasce, le cosiddette bandelle, rivettate alle lastre, su cui si riflette il castello di Monteforte costruito sulla roccia affiorante e sullo sfondo un bosco immerso nel buio e illuminato da fiammelle. Sono andato con la mente ai miei anni giovanili e ai sopralluoghi sul castello di Monteforte e nella chiesa di San Martino, prima come studioso di fortificazioni e poi come funzionario del Ministero dei Beni Culturali, durante gli anni in cui si effettuavano i lavori di scavo archeologico della fortezza propedeutici ai futuri interventi di restauro.

Il valico, a circa 700 metri sul livello del mare tra il monte detto Vergine a destra ed i monti di Lauro a sinistra, ha sempre costituito un passaggio obbligato per chi dalla pianura di Nola si porta nella conca di Avellino e verso le terre d’Oriente; per la sua natura strategica i Longobardi costruirono un fortilizio e i Normanni, nel corso dell’XI secolo un munitissimo castello per controllare le due valli e sbarrare la strada ad ogni eventuale incursione. La località è conosciuta come locus Pronella abellinense finibus da un documento del 774 di Arechi, duca e primo principe longobardo di Benevento che nel dotare di Beni la chiesa di Santa Sofia, tra l’altro concede una condoma in pronella, vale a dire un nucleo di persone soggette al duca, stanziatesi sulla collina detta di San Martino (CDC, II, n°254). La sua storia è oscura sino al 1102 quando compare, dai documenti superstiti, Riccardo di Monteforte dominus de castello qui dicitur Monteforte. Della costruzione di età  normanna restano i ruderi del mastio circolare disposto a NO e alti muri perimetrali. Fu restaurato e riadattato in modo da funzionare  sia da fortezza che da residenza estiva sotto Carlo I D’Angiò nell’ambito della sua opera di rafforzamento dei castelli. I lavori furono affidati agli architetti francesi Pierre d’Angicourt e Jean de Toul e vi lavorarono come muratori alcuni abitanti di Monteforte quali Pietro de Fagelio, Giovanni Pipino e Giovanni de Abioso. Siamo negli anni 1268-1270, quando era conte di Monteforte, Guido de Monfort.

L’autrice scrive un romanzo ambientato nel castello di Monteforte, in età bassomedievale, cronologicamente circoscritto al primo periodo della presenza normanna, utilizzando nel suo racconto alcuni personaggi esistiti nella realtà. Il raggio di azione della sua narrazione, oltre Monteforte, tocca i centri di Avellino, la grancia benedettina di San Leonardo, dipendenza della grande abbazia di Cava dei Tirreni, sulla strada salernitana, Forino, Montoro, Sant’Angelo a Scala, Montecassino e naturalmente Montevergine con il suo monastero.

I primi normanni si stabilirono nel Mezzogiorno intorno all’anno Mille. Sulla via del ritorno da un pellegrinaggio a Gerusalemme, essi prestarono aiuto al principe di Salerno Guaimario III (989- 1027), difendendo la città contro i saraceni. Il principe li ricompensò ampiamente e insistette perché restassero. Altri normanni intrapresero intorno al 1016 un pellegrinaggio al santuario di San Michele sul Gargano, nel nord della Puglia. E qui furono chiamati da Melo di Bari, detto anche Ismaele, il capo della rivolta antibizantina a Bari, nel tentativo di liberare la sua città dal dominio dell’imperatore d’Oriente. Anche in questo caso i normanni non esitarono a mettere a disposizione la forza delle loro armi. Qui, sul campo di battaglia di Canne, che già aveva visto la vittoria di Annibale sui romani, furono battuti dalle truppe bizantine.

 Il Mezzogiorno d’Italia, terra privilegiata per la sua posizione strategica, dopo l’anno Mille fu al centro delle mire non solo dei due imperi, quello d’Oriente e d’Occidente, sorti dalla caduta dell’Impero romano, ma anche del papato romano che, dopo lo scisma del 1053 che provocò la fine della unità della cristianità, fece valere sempre di più la sua volontà di dominio universale, in nome del primato dello spirituale sul temporale.  Sin dall’età carolingia il Mezzogiorno è stata un’area chiave per i due principali Imperi mediterranei, quello bizantino e quello carolingio, entrambi eredi della tradizione di Roma antica.

È in tale area che si sarebbe affermato un gruppo di guerrieri provenienti dal Ducato di Normandia i quali si resero presto conto delle grandi opportunità che il Mezzogiorno offriva loro. Indomabili guerrieri, essi vennero assoldati nei primi decenni dell’XI secolo come mercenari dai principi longobardi e gli alti funzionari bizantini, alla costante ricerca di guerrieri. Inizialmente si trattava di piccoli gruppi di cavalieri provenienti dalle file della aristocrazia minore del ducato di Normandia. Molti di questi ambiziosi guerrieri, privi di prospettiva di carriera nelle terre del ducato o che avevano avuto problemi con la dura giustizia dei loro signori, scelsero di trasferirsi nel Mezzogiorno d’Italia.

Tra di loro particolare fortuna arrise alla prole di Tancredi d’Altavilla, cavaliere appartenente alla piccola nobiltà normanna: dei dodici figli avuti da due mogli, Tancredi vede partirne ben nove alla volta dell’Italia meridionale. Due in particolare avrebbero lasciato una traccia duratura: il primo, Roberto, poi conosciuto con il soprannome di Guiscardo (= «astuto»), o “il terrore del mondo” (morto sull’isola di Corfù il 17 luglio 1085) – come lo definirono, Guglielmo di Puglia e Anna Comnena nell’Alexiade.  Questi, nel giro di un decennio, da povero cavaliere, giunse ad essere investito della carica ducale; all’età di sessantaquattro anni, nel 1081, decide di conquistare l’impero bizantino appoggiato, in questa impresa, da Gregorio VII che dopo la rottura con Enrico IV, a seguito della cosiddetta lotta per le investiture, nel timore che questi scendesse in Italia contro di lui, pensò bene di allearsi con il Guiscardo. Questa impresa è stata vista come una “precrociata” così come lasciano intendere le fonti a partire da Orderico Vitale (Historiae Ecclesiasticae libri XIII, Ed. A. Le Prévost, Paris 1935-1855, III, p.184)) del XII secolo e i versi del Paradiso dantesco (Paradiso, 18, vv. 40-48).  Dante, infatti, lo inserisce nel quinto cielo, quello di Marte, tra le anime combattenti per la fede. L’altro figlio di Tancredi di nome Ruggero, che dopo lunghe lotte avrebbe assunto il governo della Sicilia, strappata definitivamente ai musulmani nel 1091 dopo un trentennio di combattimenti. Il figlio di quest’ultimo, Ruggero II, sarebbe riuscito a trasformare il Mezzogiorno in un regno unitario sul quale si sarebbero concentrate le attenzioni, le critiche, ma anche le brame dei principali poteri – temporali e spirituali – dell’intero Occidente medievale.

I cronachisti Normanni: Amato di Montecassino, Goffredo Malaterra e Guglielmo Apulo sottolineano i tratti salienti dell’animo normanno:

Il valore militare (la strenuitas come la definiscono gli scrittori coevi) accompagnato dall’audacia entusiasta che li spinge a non arrendersi mai sul campo di battaglia e ad affrontare anche le situazioni più estreme; e Goffredo Malaterra aggiunge l’esaltazione della forte capacità di adattamento e sopportazione: “Quando la sorte lo impone, i normanni sanno sopportare il duro lavoro, la fame e la sofferenza”.

Alle qualità del valore guerresco e della sagacia dello spirito, i tre cronisti propongono anche un’origine e uno scopo comune nella storia; che cosa di meglio se non trovare una origine mitica e uno scopo unificatore delle diverse esperienze normanne nella storia? A tale proposito il primo scrittore normanno: Dudone di San Quintin (965-1043), nella sua Historia Normannorum (scritta fra il 1015 e il 1030),  da alcuni critici considerata inaffidabile perché scritta su informazioni assunte dalla tradizione orale e pertanto assimilabile al genere romanzesco, individua le caratteristiche comuni e una discendenza troiana. Lo scopo: dopo la conquista dell’Italia Meridionale e la battaglia di Hastings, condotta da Guglielmo il conquistatore, essi vedono nella cavalcata normanna che tutto vince, almeno secondo la loro opinione, un segno del favore divino. Essi sarebbero stati il nuovo: “popolo eletto”, vero e proprio braccio armato di Dio nella storia, insignito del compito di ristabilire l’ordine e i diritti della chiesa e combattere gli infedeli.

Questo è anche il ruolo che l’autrice fa assumere al suo Guglielmo, che presta anche atto di sottomissione al Papa Pasquale II, (eletto il 13 agosto 1099, morto nel 1118)  della famiglia dei Pierleoni e zio dell’antipapa Anacleto II, riconoscendone la sovranità sull’Italia Meridionale.

I Personaggi del Romanzo

Storicamente, Guglielmo, detto Carbone, compare, infatti, in qualità di dominus de castello  Montem fortem, ac filius quondam Riccardi, qui fuit ortus ex genere Normannorum per la prima volta, in una cartula venditionis, rogata a Sant’Angelo a Scala nel 1112, con la quale vende ad un certo Riso abitante a Summonte un castagneto, in località Confinio, in parte ceduo ed in parte innestato per il prezzo di 140 tari d’oroA questa data il padre risulta già morto. (CDV., II, doc. 121, pp. 89-92).

Guglielmo Carbone, dominus de castello Monteforte et de castro Forino et de aliis locis (CDV, II, perg. 196, doc. 197, pp. 404-406), paladino della religione cristiana, è il personaggio principale intorno al quale ruota tutto l’impianto della narrazione. Di lui, la scrittrice immagina che abbia trascorso l’infanzia nei paesi nordici e sia stato educato dalla nonna Brunilde, nome di derivazione germanica che significa donna guerriera. Ma Brunilde è anche una eroina della canzone dei Nibelunghi e nella tradizione norrena è una valchiria, mentre nella tradizione germanica è regina dell’Islanda.

Guglielmo presta il ligium homagium, l’atto di sottomissione e di fedeltà a Roberto Sanseverino, signore del feudo di Montoro e discendente di Torgisius, uno dei tanti normanni scesi in Italia dopo l’anno 1000, con la formula : per unum anulum aureum omne et totum illud quod supradictus dominus senior Rogerius genitor meus antecessoribus tuis et tibi donaverat (Regi Neapolitani Archivi Monumenta, V, a. 1109,  p. 326). L’immixtio manum di Guglielmo costituisce il primo documento italiano in cui è nominato l’omaggio.

Con Guglielmo siamo già alla terza generazione dei Normanni scesi in Italia sul finire del 900, dopo Cristo, a cercare fortuna, quaerentes lucrum, come afferma il monaco normanno Goffredo Malaterra che racconta dell’insediamento e della conquista del Mezzogiorno d’Italia da parte dei Normanni, nel suo De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et Roberti ducis fratris eius, mettendosi al servizio dei signori locali, dal momento che in patria le risorse di famiglia non bastavano: inter plures divisam singulis minus sufficere. (Anno 1098)

Il padre di Guglielmo, Riccardus, compare per la prima volta nelle pergamene di Montevergine, quando nel febbraio del 1102, in qualità di dominus de castello qui dicitur Monteforte, ac filius cuiusdam Raoni, qui fuit ortus ex genere Lortmannorum, cede in perpetuo per il prezzo di due tarì d’oro una terra con casa nei pressi del castello di Summonte. (Perg. n° 97, CDV, I, doc. 99); nel marzo dello stesso anno invece, fitta a Mari, Pietro ed al chierico Giovanni, fratelli e figli di Sparano, una terra in località Preturo, nei pressi della chiesa di San Giovanni, con l’impegno a trasformarla nel lasso di sei anni in castagneto. (Perg. n°98, CDV, I, doc. 100). Ed ancora nel settembre dello stesso anno, dà in fitto ad un certo Riso, figlio di Romualdo, un altro appezzamento di terreno nella località Confinio, tra Summonte e Mercogliano. (Perg. 100, CDV, I, doc. 103).

E’ bene precisare, che  i Carbone tennero il feudo di Monteforte sino al 1165 quando, con la morte di Goffredo, il feudo passò alla figlia Mabilia che andata in sposa a Giovanni del castello di Cicala (Dei gratia domino de castello Montisfortis et de castello Forino et de pluribus aliis locis, CDV, V, p. 68),  figlio di Giovanni Francisio, questi  ne ereditò il titolo e la signoria e insieme alla moglie, avendo effettuato delle donazioni a Montevergine, furono inseriti come benefattori nel Necrologium Virginianum. Ebbero tre figli: Giacomo, Teobaldo e Guglielmo. Guglielmo Francisio di Monteforte, fu Magister regis Friderici, vale a dire educatore di Federico II di Svevia. Guglielmo Francisio fu testimone oculare dei drammatici avvenimenti palermitani dell’ottobre 1201, durante l’occupazione del Castello a Mare di Palermo, quando Federico aveva 7 anni, essendo nato il 26 dicembre 1194 ad Jesi. Fu lui ad informare l’arcivescovo eletto di Capua Rinaldo, che a sua volta scrisse della particolare situazione palermitana a papa Innocenzo III. (Wolfang Stǘrner, Federico II e l’apogeo dell’Impero, p. 171). Federico e Costanza, affidarono il piccolo Federico alle cure della moglie di Corrado di Urslingen, signore di Spoleto. Suoi amici d’infanzia furono i figli di questi, Bertoldo e Rinaldo.

Papa Pasquale II.

Roberto Sanseverino, figlio di Ruggero, discendente da Torgisius .

Guglielmo da Vercelli, fondatore di Montevergine, che non fu né chierico né sacerdote. Da laico visse prima come penitente volontario, poi come predicatore itinerante ed infine come eremita. Nella Legenda de vita et obitu sancti Guilielmi confessoris et eremite, Guglielmo è raffigurato per tre volte: scalzo, con tonaca rossa, scapolare e cappuccio appoggiato al bordone con la sinistra.

Adenolfo, conte longobardo di Avellino, è nell’immaginazione dell’autrice il conte che vuole riconquistare il castello di Monteforte. C’è da sottolineare un disaccordo tra gli storici, sul problema della fine della Contea longobarda di Avellino. La tradizione erudita dal Bella Bona in poi, indica quale ultimo conte longobardo un Madelfrit (1070) mentre lo Scandone pone, circa gli stessi anni, un conte Adenolfo, figlio di uno dei due Giovanni di un ramo collaterale a quello di Madelfrit. Certo è, che questa presunta sopravvivenza negli ultimi decenni dell’XI secolo di una Avellino Longobarda o più tardi nel primo decennio del secolo successivo, di una Contea ancora indipendente dopo la conquista normanna, appare del tutto fittizia poiché da un esame dei documenti superstiti non si conosce il nome di alcun titolare di tale comitatus, sostiene lo storico del medioevo Errico Cuozzo.

Adelaide degli Aleramici, terza moglie di Ruggero I, il gran Conte, signore di Calabria e di Sicilia.

Ruggiero I, fratello minore di Roberto il Guiscardo, ebbe tre mogli: Giuditta di Evreux, Eremburga di Mortain entrambe normanne, dalle quali ebbe 10 figli.  A cinquant’anni anni sposò Adelaide del Vasto della famiglia degli Aleramici, potente stirpe nobiliare del nord Italia, radicata in Liguria e Piemonte. Da Adelaide che alla morte di Ruggero I, avvenuta nel 1101, aveva circa 26 anni, nacquero Simone e Ruggero II. Durante la minore età di Simone, erede designato,  morto il 28 settembre del 1105 all’età di 12 anni, Adelaide aveva assunto la reggenza che continuò anche durante la minorità di Ruggero II, il quale  trascorse la sua infanzia in un ambiente greco sotto la protezione di una madre settentrionale.

Adelaide, con il compimento del sedicesimo anno di età del figlio Ruggero II, che era cresciuto in una metropoli di impronta araba, sposa re Baldovino I di Gerusalemme, all’età di circa 37 anni. Il matrimonio senza prole costrinse Baldovino a ripudiarla perché il patriarca di Gerusalemme non fu disposto ad accettare come successore di Baldovino, il conte di Sicilia. Adelaide rimpatriò nella primavera del 1117 in Sicilia dove mori l’anno dopo, esattamente il 16 aprile 1118, e fu sepolta nel monastero di San Salvatore di Patti.

Tutti gli altri sono nomi di fantasia, frutto della fervida immaginazione dell’autrice.

Genoveffa, è nella narrazione della scrittrice intuitiva e con poteri particolari quasi da chiaroveggente,

Berto il fido scudiero, da identificare quale servientes del feudatario Guglielmo e così via.

L’autrice nella sua narrazione racconta e descrive:

Le fiere, le stoffe, i giocattoli per i bambini, il modo di lavorare la carne del maiale, il procedimento per la produzione del vino e il modo di produrre quello che gli uomini del medioevo chiamavano il piczolum, vale a dire il vino prodotto dalla premitura delle vinacce con l’aggiunta di acqua, ed ancora, le saghe nordiche, le divinità dei boschi… i riti magici e i caratteri runici, la giostra, le streghe, la ianara e i suoi filtri magici, i versi dell’Havamar… le rune di cui Odino aveva il dominio, l’aquila stilizzata, sacra agli uomini nordici, i poteri magici, il girifalco, l’uccello che Federico II predilige per le sue battute di caccia, un falco rapacissimo. Ricordo che l’opera più famosa scritta da Federico II, sulla falconeria è il De arte venandi cum avibus.

L’impianto di questa narrazione avvincente, si arricchisce di focus molto documentati che non disturbano il racconto anzi lo impreziosiscono. Ecco allora:

L’equipaggiamento del cavaliere normanno, costituito innanzitutto dall’usbergo, (termine che deriva dal franco normanno hauberk) una cotta in maglia di ferro, costituita da anelli metallici intrecciati, lunga fino al ginocchio e aperta da profondi spacchi sul davanti e sul retro, mentre la testa e il collo  sono coperti da un cappuccio sempre in maglia di ferro, al disotto del quale si indossava il camaglio o in latino camaleum; sopra il cappuccio, l’elmo conico con il nasale, il pugio (il pugnale), la spada, in latito ensis o gladius, la lancia, l’ascia, detta (danese), lo scudo a forma di mandorla, o a goccia, arrotondato il margine superiore e quello inferiore terminante a punta con sul lato esterno una caratteristica borchia centrale umbonata che ha la funzione anche di reggere l’ossatura dello scudo. (Arazzo di Bayeux).

La lancia in resta. La lancia è la principale arma di offesa normanna. Si tratta di una lunga asta in legno con una punta in ferro sull’estremità superiore, dotata di barbe o di sbarretta trasversale per incastrarsi nell’armatura del nemico. Lancia in resta sta a significare che il cavaliere stringe al fianco con un gomito, quando si getta alla carica contro l’avversario a cavallo e mira al torso o alla cavalcatura, in modo da rovesciarlo a terra. C’è da dire che l’espressione usata è in anacronismo rispetto al periodo di cui stiamo parlando. La resta, infatti, è un congegno che serviva ad appoggiare la lancia al fiano del cavaliere ma che fu introdotto in epoca successiva; tuttavia per economia linguistica viene usata per rendere il concetto di “lancia stretta sotto al braccio”.

La fervida fantasia dell’autrice mescolata sapientemente con avvenimenti e informazioni molto dettagliate costituisce viatico e fonte di stimoli per i giovani, a cui è affidato il nostro futuro, ad indagare, conoscere e comprendere un periodo molto importante della nostra storia che ha contribuito a formare la nostra Civiltà perché i Normanni sono stati Popolo dell’Europa. Un invito a tutti, a leggere questo libro per aprirsi a esperienze nuove ricche di pathos.

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