Il mito socio-economico del Novecento. Il focus di Giuseppe Rocco

La speranza ha sempre scaldato il cuore dell’uomo illuminandolo di un ideale senza tramonto. In questa felice prospettiva, la popolazione europea ha festeggiato con entusiasmo la nascita del secolo ventesimo, di certo non immaginava che sarebbe iniziata l’epoca degli estremi: guerre mondiali, totalitarismi, violenze inumane, disillusioni. Negli anni della Belle époque il modernismo e il positivismo avevano inculcato nella cultura occidentale la fiducia in un progresso incondizionato, garante di felicità e di benessere, fondato esclusivamente sulla ragione umana.

Tale fiducia era stata alimentata dai grandi mutamenti economici, sociali e politici verificatisi in Europa dalla metà dell’Ottocento sotto la spinta della seconda rivoluzione industriale: un’impotente crescita economica nei principali paesi europei, cui era associato il fenomeno dell’inurbamento di grandi masse contadine; lo sviluppo del settore terziario, formato da chi era impiegato in lavori non manuali (i cosiddetti “colletti bianchi” contrapposti alle tute blu degli operai); la nascita del ceto medio urbano (socialmente collocato tra la classe operaia e la borghesia); l’espansione dei mezzi di comunicazione (reti ferroviarie, navi a vapore, automobili, aeroplani a motore, radio, telegrafo e telefono); l’impiego dell’elettricità; l’incremento delle risorse alimentari; l’allargamento dei mercati e del commercio mondiale; i progressi nel campo della medicina e delle pratiche igieniche che avevano ridotto epidemie e mortalità infantile; la diffusione dell’istruzione anche tra le classi subalterne, con un sensibile calo dell’analfabetismo; lo sviluppo dei regimi parlamentari; le riforme sociali, come il diritto allo sciopero, la riduzione dell’orario di lavoro, il sussidio per i disoccupati, l’assicurazione contro gli infortuni, la previdenza per la vecchiaia.

La spinta all’industrializzazione e l’avvio della produzione in serie avevano abbassato il costo dei beni di produzione, aumentando il numero dei consumatori nella classe operaia. Era quindi scattava un’uniformità di idee, gusti, abitudini e modelli di comportamento, avviando la società di massa. Con l’emancipazione sociale si accompagnava di pari passo la richiesta di una maggiore partecipazione politica, la quale ha fatto nascere nuovi partiti politici e sindacati, con l’estensione del diritto di voto. L’espansione economica  europea avviata in modo autarchico favorisce lo scoppio della prima guerra mondiale.

Povertà, fame, dolore e traumi segnano la vita di milioni di persone anche negli anni successivi alla fine del conflitto. Tutto ciò viene aggravato dallo sviluppo tecnologico-scientifico, il quale consente la creazione di nuove armi micidiali (cannoni, mitragliatrici automatiche, granate, bombe a mano, gas asfissianti, aerei da combattimento) che, unite a nuove tecniche di combattimento, causano un numero di vittime mai registrato nella storia umana: dieci milioni di morti in guerra o per le ferite riportate, sette milioni di invalidi permanenti, quindici milioni di feriti più o meno gravi, cinque milioni di dispersi.

Dal punto di vista politico, nell’Ottocento aveva trovato pieno consenso il liberalismo, teoria incentrata sull’affermazione della libertà individuale e la limitazione dei poteri dello Stato. La sua prima formulazione è riconducibile al filosofo inglese J. Locke, secondo il quale esiste una legge naturale, anteriore a qualsiasi associazione umana, che attribuisce ad ogni individuo una serie di diritti (alla vita, alla libertà, all’espressione del pensiero) inalienabili. Neppure lo Stato, creato dal consenso dei cittadini allo scopo di tutelare l’ordine sociale, può violare tali diritti. E la diversità di opinione, lungi dall’essere repressa, deve essere tutelata in quanto possibilità di progresso culturale e sociale. Tutto ciò si è rivelato ottimistico ed erroneo.

Si prende atto della nascita della modernità e delle ideologie novecentesche. Il termine modernità indica un’epoca completamente diversa dalle precedenti e la cui norma è il progresso. Di conseguenza non ci sarebbe stato più alcun motivo per postulare un ordine soprannaturale: esercitando le proprie abilità, l’uomo basta a sé stesso, unico responsabile del nuovo ordine perfetto da dare al mondo. Ma il nuovo ordine, apportatore di felicità e benessere totale, richiede un ordine totale e a sua volta, necessita di un potere globale in grado di disciplinare e di guidare le folle.

Alla fine dell’Ottocento diventano protagoniste della società industriale le masse operaie e i ceti medi o piccolo-borghesi, rispetto alle quali l’ideologia liberale, incentrata sull’esaltazione della libertà individuale e dell’iniziativa privata, sembra ormai superata. Per soddisfare gli interessi e i bisogni della massa si tende al nazionalismo e al socialismo. La personalità cosciente svanisce, mentre i sentimenti e le idee vengono incanalati nella medesima direzione, al punto che la folla impersonale e anonima agisce in modo irrazionale, mossa da impulsi originati dall’inconscio e sfuggenti a qualsiasi controllo da parte della coscienza.

Questa nuova morale viene giudicata utilitarista e materialista e accusata di tenere a freno il libero dispiegarsi della personalità perché promuove una visione della vita governata dalla razionalità scientifica. Alla ricerca di nuovi ideali, nascono le cosiddette Avanguardie intellettuali, chiamate anche filosofie dello spirito, le quali ritengono che la vita non possa divenire oggetto di riflessione razionale, ma debba essere sperimentata nella sua immediatezza come atto creativo, intuitivo, prerazionale e istintivo.

In tale prospettiva si forma una diversa possibilità di dominio, riservata a colui che sa sfruttare l’anima collettiva delle masse: si afferma così il mito del capo, del leader, del superuomo. Si arriva a considerare la libertà giudicata deleteria, l’uguaglianza un falso valore, astratto e apparente; si combattono la libertà e l’uguaglianza in nome della fraternità della nazione. Nasce così l’ideologia nazionalista. È la rivolta dello spirito contro la materia, in opposizione al moralismo e alla democrazia. Agli ideali religiosi e a quelli della rivoluzione francese, vengono contrapposti la ricerca del piacere e della bellezza; l’estetica diventa un’arte, un dovere morale. A tutto ciò si aggiunge l’esaltazione della guerra, sacralizzata in quanto igiene del mondo in grado di purificare la razza e creare italiani virili, scevri da debolezze e sentimentalismi.

Gli italiani devono diventare eroi per la patria, il sacrificio è celebrato come virtù suprema. I veri italiani – dicono i Futuristi – sono interventisti, accettano la sfida perché la guerra rende il popolo migliore e sottomette la razza inferiore. I neutralisti invece sono codardi, nemici della patria. Ispiratore del movimento futurista, nonché profeta della crisi razionalista di fine Ottocento, è F. Nietzsche, portavoce di una nuova visione della vita fondata sull’irrazionalismo e sull’esaltazione dell’energia vitale. Nel primo dei suoi Manifesti T. Marinetti, portavoce del movimento, scrive: “Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sfarzo e munificenza, per aumentare l’entusiastico fervore degli elementi primordiali”. Non v’è più bellezza se non nella lotta. Siamo nella mania collettiva, senza freni, ma l’andazzo culturale impedisce di ragionare.

Ne “La nascita della tragedia” del 1871 il pensatore tedesco rintraccia l’origine dell’energia vitale nell’antica civiltà greca animata da due principi contrapposti: lo spirito di Dioniso, dio della natura selvaggia, espressione di forze istintive, primordiali e irrazionali, e lo spirito di Apollo, dio che presiede alla musica, alla poesia e alle arti, espressione di ordine, razionalità e armonia. Mentre all’inizio i due spiriti convivono in equilibrio, in un secondo momento l’apollineo è prevalso sul dionisiaco perché la filosofia, a partire da Socrate e Platone, intuita la tragicità della condizione umana, ha cercato di nasconderla tramite una visione razionale e ottimistica della vita. Proprio alla perdita di equilibrio tra il dionisiaco e l’apollineo – riconducibile al tentativo di fondare la vita sulle certezze della morale, della religione e della scienza – Nietzsche riconduce la crisi della civiltà occidentale. Conseguenza della demitizzazione della morale e del cristianesimo, ossia dalla presa di coscienza della loro origine esclusivamente umana, è il vagare dell’umanità disorientata in un infinito basato sul nulla: nasce il nichilismo. D’Annunzio in particolare, disprezzando la società borghese che ha emarginato gli artisti per fondare un sistema politico basato sulla democrazia, ritiene che la società debba essere guidata da pochi eletti in nome dell’arte e dei valori alternativi. Egli nei suoi romanzi propugna l’ideale del superuomo, che trasgredisce le regole morali e sociali per recuperare una dimensione esistenziale fondata sulla spontaneità del vivere, sulla sensualità dell’eros e sulla superiore sensibilità artistica.

Il filosofo francese P. Ricouer definisce Marx, Nietzsche e Freud “maestri del sospetto” perché hanno mandato in crisi la concezione classica di uomo e di coscienza. Marx per la sua spietata analisi del sistema capitalistico di produzione, con la quale, oltre a dimostrare lo sfruttamento della classe operaia, ha denunciato sia l’ideologia capitalistica sia la falsa coscienza proletaria creata dalla morale borghese; Nietzsche per aver ribaltato il rapporto tra soggetto e verità e demolito il nesso tra bene e vero, mostrando così il carattere illusorio della coscienza; Freud per aver fatto emergere all’interno della vita psichica l’esistenza dell’inconscio, formato da un insieme di pulsioni che ricercano a tal punto la loro soddisfazione da smantellare la pretesa della coscienza di essere l’unico principio regolatore dell’io. Ne consegue che la cultura occidentale, dopo aver messo in dubbio l’esistenza di una realtà esterna indipendente dal soggetto, ha perso l’unica certezza che ancora le rimaneva: la coscienza.

Oltre all’antisemitismo, due cause portano alla nascita del nazismo e dello stalinismo: l’imperialismo e l’avvento della società di massa. Con il termine imperialismo si intende il processo per cui il sistema capitalistico, da mero fenomeno economico finalizzato all’accumulo di ricchezza, si trasforma in un processo politico caratterizzato da “competizione totale ed espansione senza limiti”. In tal modo lo Stato nazionale da istituzione creata per garantire legalità e diritti universali, si è trasforma in impero, ossia in una comunità dalla quale vengono escluse le minoranze e le persone prive di diritti civili e politici.

L’origine della società di massa invece viene ricondotta al venir meno della società classista: al posto dell’organizzazione in classi sociali si afferma una massa di individui isolati e alienati, guidati da una élite o da un leader che impone un’ideologia totalitaria. Le masse umane sono trattate come spiriti esistenti senza interesse. Scatta l’irrealtà abilmente creata degli individui da esso circondati, che provoca crudeltà così enormi e alla fine fa apparire lo sterminio come una misura perfettamente normale. La cosa difficile da capire che tali fantasie, ossia crimini mostruosi avvengano in modo spettrale, peraltro materializzandosi, di modo che alla fine né il torturatore né il torturato, possano rendersi conto che quanto sta accadendo, sia qualcosa di più che un gioco crudele o un sogno assurdo.

Il totalitarismo mira a creare un tipo umano simile agli animali, con un conformismo, al quale si giunge mediante l’indottrinamento e rappresenta la più grave minaccia alla libertà individuale e politica. Si tratta di un male radicale, dettato dalla volontà di creare un uomo nuovo, privato della propria dignità; un male impunibile e imperdonabile, che non poteva più essere compreso e spiegato con i malvagi motivi dell’interesse egoistico, dell’invidia, dell’avidità, del risentimento, della smania di potere, della vigliaccheria; e che quindi la collera non poteva vendicare. Pure un male banale, perché ha reso persone comuni, capaci di compiere crimini efferati con la consapevolezza di avere “la coscienza a posto. La Arendt ritiene che anche i carnefici siano state in qualche modo vittime, perché educate a vedere nel nemico un essere che non risponde ai criteri di umanità comunemente accettati e che perciò deve essere annientato. Questo spiega il motivo per cui molti capi nazisti non si sono sentiti responsabili dei crimini commessi. Del resto lo stesso Eichmann durante il processo svoltosi a Gerusalemme nel 1961, si difende dicendo: «Ho obbedito a degli ordini». L’autrice – che aveva assistito personalmente alle diverse fasi del processo in quanto inviata del New Yorker – commenta: “La coscienza di Eichmann era come un contenitore vuoto; essa non aveva un proprio linguaggio, ma articolava la lingua della società rispettabile”. A suo parere ciò che più sorprendeva del criminale nazista era la mancanza di pensiero, ossia l’incapacità di giudicare le proprie azioni e pensieri, di distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato: Il male, come ci è stato insegnato, è qualcosa di demoniaco. Hitler e Stalin, ma anche Mussolini, ritenevano di aver ricevuto dal destino una missione che imponeva loro di creare una nuova umanità e di conferire un nuovo ordine alla storia. Questo spiega anche la rapidità con la quale hanno preso decisioni importanti: non bisognava perdere tempo per non contrastare la storia. Colpevolezza e innocenza diventano concetti mescolati e senza senso.

Si avvia una coscienza mistificata e davanti ad essa tutte le parti in causa sono soggettivamente innocenti: gli uccisi perché non hanno fatto nulla contro il sistema, e gli uccisori perché non assassinano realmente, ma si limitano ad eseguire ordini superiori. Gli stessi governanti non pretendono di essere giusti o saggi, ma soltanto di eseguire le leggi naturali o storiche; non applicano leggi, ma eseguono un movimento in conformità alla sua legge intrinseca. Anche il filosofo ebreo di origine lituana E. Lévinas si interroga sulla questione del male e su come possa conciliarsi con la tradizione filosofica occidentale. Ci si deve domandare se il liberalismo è adeguato alla dignità autentica del soggetto umano. Lévinas riconduce l’essenza dell’ideologia totalitaria alla volontà di annientare la libertà umana, sulla quale il giudaismo prima e il cristianesimo poi avevano fondato la dignità dell’uomo. A suo giudizio solo il rimorso insegnato dalla dottrina ebraica – consapevolezza dolorosa dell’impossibilità umana di riparare l’irreparabile e in quanto tale preludio del pentimento generatore del perdono – e la croce di Cristo, unitamente all’Eucarestia, liberano l’uomo dal senso della limitazione. Solo il cristianesimo proclama la libertà e la rende possibile in tutta la sua pienezza. Anche gli scrittori francesi del XVIII secolo, precursori dell’ideologia democratica e della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, hanno avuto coscienza, nonostante il loro materialismo, di una ragione irriducibile alla materia fisica, psicologica e sociale. Con l’avvento dell’ideologia marxista lo spirito umano, per la prima volta nella storia occidentale, non può più esprimersi come pura libertà perché ridotto a corporeità, vincolato al soddisfacimento dei bisogni materiali. Questo sentimento di identità, oltre a non riconoscere più l’essenza dell’uomo nell’esercizio della libertà, comporta una nuova visione antropologica: l’uomo è incatenato al proprio corpo e l’essenza dello spirito subordinata alla dimensione biologica. Si affermano cosi un nuovo ideale di umanità, fondato sulla consanguineità piuttosto che sui valori etici, e un nuovo criterio di verità. Si costituisce il presupposto della mentalità eugenetica: le forme della società moderna che si erigono sull’accordo di volontà libere e annunciano l’affrancamento dello spirito dal corpo, appaiono false e menzognere; ogni comunione di individui che non si basi sull’identità di sangue, risulta sospetta. Ad essere demoliti dal razzismo, e quindi dall’hitlerismo – conclude amaramente Lévinas – non sono solo alcuni dogmi della cultura cristiana e liberale o della democrazia e del parlamentarismo, ma l’umanità stessa dell’uomo. Nella sua opera fondamentale, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità (1961), Lévinas riconduce il totalitarismo al predominio dell’ontologia sull’etica all’interno della tradizione filosofica occidentale. La responsabilità maggiore di tale impostazione ontologica è attribuita al pensiero heideggeriano, alla sua ontologia della potenza. La relazione con l’essere  consiste nel neutralizzare l’ente per comprenderlo o per impossessarsene. Non è quindi una relazione con l’altro in quanto tale, ma la riduzione dell’Altro al Medesimo. Questa è la definizione della libertà: mantenersi contro l’altro malgrado ogni relazione con l’altro, garantirne l’autarchia di un io. L’unico modo di contrastare il predominio dell’io sull’Altro sta nel riconoscere che la vera identità del soggetto è l’essere per l’Altro. Con tale espressione il filosofo lituano intende sia il riconoscimento dell’unicità di ogni individuo che si manifesta nello sguardo e nel volto, sia il dovere di riconoscere i suoi bisogni e farsene carico. Nello scritto Dall’esistenza all’esistente (1947) Lévinas afferma che per realizzare il passaggio dall’esistenza all’esistente, ossia perché l’uomo sia in grado di conferire significato al vivere, non è necessario passare attraverso l’esperienza dell’angoscia – come aveva dichiarato Heidegger in Essere e tempo – ma occorre l’apertura alla relazione d’alterità. Per questo più che l’ontologia, che è rapporto con l’essere impersonale, la vera filosofia deve essere considerata l’etica, intesa non come insieme di norme da osservare, ma come modo di relazionarmi all’Altro. Ritenendoci responsabili dell’Altro, Lévinas fa appello alle istituzioni statali perché agiscano in nome di quella giustizia sociale alla quale siamo interpellati da Dio stesso. Solo attraverso un movimento di empatia verso gli altri, soprattutto verso i più deboli (vedove, orfani, poveri e stranieri), il soggetto ha la possibilità di aprirsi alla Trascendenza e di elevarsi al Bene. Il Bene non è inteso, come in Platone, alla stregua di in modello o di un’idea intellegibile a cui il filosofo si eleva uscendo dalla caverna, ma si identifica con i gesti mediante i quali ci prendiamo cura degli altri, rispettandone l’irriducibile singolarità. Il volto dell’altro, o relazione sociale, si configura quindi come la concretizzazione dell’idea stessa d’Infinito. Al primato della questione ontologica Lévinas oppone così l’etica, a vantaggio della verità e della libertà.  

Queste ultime interpretazioni, frutto di una cultura europea della seconda metà del secolo ventesimo, cancellano completamente i bassi profili delle dittature e delle guerre blasfeme della prima parte del secolo. L’unione europea costituisce il naturale sviluppo di una cultura nuova, Speriamo che tenga alla luce dei populismi senza radici che stanno maturando nel vecchio Continente e pure in Italia.

Come si pone il terzo millennio? Esso riporta le crepe della fine del secolo: televisione scurrile e pornografica, uso indiscriminato di parolacce fra giovani, corruzione diffusa, malasanità, lenta giustizia, malavita organizzata, evasione fiscale. Tutto in sintesi, come mancanza di etica. Nel tentativo di ripristinare i flussi benefici di una cultura equilibrata, all’insegna del viver sano, si elevano poche voci inascoltate, come Papa Francesco, ma per ora con risultati deludenti.

©Riproduzione riservata

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About Giuseppe Rocco

Esperto di commercio estero. Vice Segretario generale della Camera di commercio di Bologna sino al 31.1.2007; Docente esterno presso l’Università di Bologna, Istituto Economico della Facoltà di Scienze politiche, in qualità di cultore dal 1990 al 2006, di “Istituzioni Economiche Internazionali” e in aggiunta dal 2002 al 2006 di “Diritti umani”; Pubblicista iscritto all’Albo dei Giornalisti dal 1985; 450 articoli per 23 testate nazionali; in particolare consulente del Il Resto del Carlino, in materia di Commercio internazionale, dal 1991 al 1995; Saggista ed autore di 53 libri scientifici ed economici; Membro del Consiglio di Amministrazione del Centergross dal 1993 al 2007;Membro del Collegio dei periti doganali regionali E. Romagna, per dirimere controverse fra Dogana ed operatori economici dal 1996 al 2000, con specificità sull’Origine della merce.