SE “SHE” DIVENTA “IT”

Uno studio mette in evidenza cosa accade nel cervello umano quando una donna viene percepita come oggetto. La ricerca, svolta da un gruppo del Dipartimento di Psicologia e Scienze cognitive e del Centro interdipartimentale Mente/Cervello dell’Università di Trento, è stata pubblicata oggi sulla rivista “Scientific Reports”. I risultati potrebbero fornire nuovi strumenti per indagare fenomeni come la violenza di genere e razziale.

Se “she” diventa “it”. Un rischio che le donne corrono quando vengono ridotte a oggetto, al loro corpo, a parti di esso. Perché ciò determina poi il modo in cui vengono viste e trattate. Il riscontro sperimentale arriva da uno studio svolto all’Università di Trento. I risultati sono stati pubblicati oggi sulla rivista “Scientific Reports” e segnano una svolta nella letteratura sull’oggettivazione sessuale.

La discussione su ciò che porta una donna a essere più esposta di un uomo al rischio di venir considerata un oggetto coinvolge teorie evoluzionistiche e socio-culturali e interpella varie discipline scientifiche. Il team di ricerca del Dipartimento di Psicologia e Scienze cognitive e del Centro interdipartimentale Mente/Cervello (CIMeC) di UniTrento ha analizzato cosa accade nel cervello umano di fronte a un oggetto che viene fatto apparire in due situazioni diverse: in mezzo a un gruppo di donne e in mezzo a un gruppo di uomini. L’attività cerebrale, misurata con l’elettroencefalogramma, dimostra che un oggetto si nota meno quando è in mezzo alle donne rappresentate in intimo o in costume da bagno.

Jeroen Vaes, professore del Dipartimento di Psicologia e Scienze cognitive e primo firmatario dell’articolo, racconta: «Gli studi condotti da decenni sull’impatto dell’oggettivazione sessuale dimostrano che crescere e vivere in una società che giudica prevalentemente le donne per come appaiono innesca insicurezza sul proprio aspetto fisico e, nel tempo, un maggior rischio di sviluppare disturbi alimentari e disfunzioni sessuali. Sappiamo, però, ancora poco di come cambia la percezione della donna quando viene oggettivata. Noi abbiamo dimostrato che una donna in intimo o in costume da bagno viene vista come più simile a un oggetto rispetto all’uomo, senza differenze significative tra quanto accade nel cervello delle donne e nel cervello degli uomini. È la prima volta che siamo stati in grado di dimostrare che la percezione di una donna, della quale è messo in risalto l’aspetto fisico, cambia, oltre la metafora, diventando più simile a un vero oggetto».

Come si è arrivati al risultato? Negli esperimenti, a cui hanno partecipato uomini e donne, sono state utilizzate immagini di modelli maschili e femminili, più o meno vestiti e degli avatar creati sulla base di questi modelli. L’attività cerebrale è stata misurata attraverso l’elettroencefalogramma.

Su una scala del grado di umanità, che spazia dalla persona umana a un oggetto, Vaes precisa che il cervello di donne e uomini tende a riconoscere un grado di umanità minore (e quindi una più marcata somiglianza a un oggetto) in una donna che in un uomo in intimo o in costume da bagno.

Sono diverse le implicazioni del risultato che il cervello tenda ad associare “donna” a “oggetto”. Nell’articolo si citano i comportamenti tipici del rapporto con le cose (come il senso di possesso e il modo di uso) che diventano violenza di genere, la sessualizzazione della donna nei media e nei videogame, la deumanizzazione che caratterizza, ad esempio, il razzismo. Vaes osserva: «Adottare un paradigma che misura se entità umane e non umane vengono percepite in modo differente può fornire un‘evidenza dei processi di deumanizzazione oltre la metafora». I risultati potrebbero, dunque, offrire nuovi strumenti per rilevare gli stereotipi e indagare fenomeni come la violenza di genere e razziale.

L’articolo

Lo studio, dal titolo “Assessing neural responses towards objectified human targets and objects to identify processes of sexual objectification that go beyond the metaphor”, è stato condotto da Jeroen Vaes, Daniela Ruzzante e Carlotta Cogoni (del Dipartimento di Psicologia e Scienze cognitive, UniTrento) e da Giulia Cristoforetti e Veronica Mazza (del CIMeC, UniTrento).

Pubblicato martedi sulla rivista “Scientific Reports”, è disponibile in Open Access qui

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