Conoscere il capitalismo. Il focus di Giuseppe Rocco

Si parla spesso di capitalismo non tanto perché sia una causa del progresso ma un effetto, poiché a esso si associa la moderna meccanizzazione, che ha favorito alcune forme di produzione e di sofisticazioni.

Le grandi concentrazioni economiche richiedono agglomerazioni di mezzi tecnici e sviluppo della tecnologia: così è stato per l’arsenale di Venezia nel XV secolo, per l’Olanda nel XVII secolo, per l’Inghilterra nel XVIII secolo. In ciascun caso la scienza ha sostenuto la fioritura.

Se iniziamo dalla genesi, l’artigiano itinerante va di borgo in borgo a offrire i suoi poveri servizi, l’impagliatore di sedie e lo spazzacamino appartengono al mondo del mercato: il loro pane quotidiano dipende dal mercato. Il contadino che vende regolarmente una parte del raccolto e acquista arnesi fa già parte del mercato. Il venditore ambulante che percorre strade e campagne portando con sé piccole quantità di merci si colloca sul versante dello scambio; anche il bottegaio è un agente dell’economia di mercato: se vende ciò che fabbrica è un bottegaio-artigiano, se vende ciò che altri hanno prodotto rientra nella categoria dei mercanti. Fiere e borse costituiscono i livelli immediatamente superiori alle strutture elementari ed agli agenti di base dello scambio.

La conservazione della libertà rappresenta la ragione difensiva per limitare i poteri di governo, tuttavia vi è anche un profilo costruttivo. I grandi progressi della civiltà, nell’architettura e nella pittura, nella scienza e nella letteratura, nell’industria e nell’agricoltura, non sono mai stati prodotti da un governo centralizzato. Cristoforo Colombo non cerca una nuova rotta per la Cina in ottemperanza alla direttiva della maggioranza parlamentare; Newton ed Edison non hanno aperto nuove frontiere nelle conoscenze umane in risposta a direttive statali. Il loro successo è stato prodotto dal loro genio, da opinioni minoritarie fortemente radicate, da un clima sociale favorevole alla varietà e alla diversità.

Quanto sopra per introdurre il filo conduttore che riguarda il ruolo del capitalismo fondato sulla concorrenza nella sua essenza di sistema di libertà economica e di condizione necessaria per la libertà politica. La concorrenza implica un’attività economica che per il tramite dell’impresa privata opera in un libero mercato. Nella cornice politica i poteri pubblici devono rappresentare una società in cui devono trovare fondamento nella libertà del mercato per organizzare l’attività economica. Il problema fondamentale dell’organizzazione sociale consiste in come coordinare le attività economiche di un gran numero di persone. Libertà politica significa assenza di coercizione sull’uomo da parte dei suoi simili. La minaccia più pericolosa viene posta dal potere di costringere, a prescindere che esso si trovi nelle mani di un monarca, di un dittatore, di un’oligarchia. Il sistema democratico esige una serie di controlli ed equilibri fra poteri. L’equilibrio è un punto fondamentale anche per evitare l’effetto opposto della dittatura del capitalismo sfrenato, che crea disarmonie senza regole pubbliche di salvaguardia per i più deboli.

La forma di governo ideale va ricercata in una struttura in grado di mantenere la legge e l’ordine, definire i diritti di proprietà, garantire il rispetto del gioco economico, fungere da arbitro in merito ai conflitti relativi all’interpretazione delle regole, favorire la concorrenza. In tale sistema deve prevalere la piena occupazione e si devono attivare eventuali manovre pubbliche per controllare soprusi. Un’economia basata esclusivamente sulla libera impresa e sul profitto diviene intrinsecamente instabile e, se lasciata a se stessa, è destinata a causare cicli ricorrenti di espansione e recessione. Sin dall’epoca del New Deal una delle principali giustificazioni per l’ampliamento dell’attività di governo era la necessità di avvalersi di fondi pubblici per contenere la disoccupazione.

Nel libero mercato l’efficienza economica opera in una condizione autonoma: chi acquista del pane non sa se esso sia stato realizzato col grano coltivato da un bianco, da un negro da un ebreo. Il produttore di grano si trova nella condizione di poter utilizzare le proprie risorse nel modo più efficiente, senza preoccuparsi dell’atteggiamento della popolazione nei confronti delle idee religiose, politiche o razziali. Un uomo di affari che esprime preferenze che non hanno relazione con l’efficienza produttiva si pone in posizione di svantaggio rispetto ai concorrenti che sono neutrali. Di fatto questo ipotetico imprenditore si accollerebbe costi più elevati per la ricerca di dipendenti specifici rispetto a quelli che gravano sui concorrenti che non hanno le medesime preferenze. Per esteso si comprende come l’abbattimento del sistema medievale delle corporazioni abbia rappresentato uno dei pilastri nel cammino verso la libertà: poter scegliere il proprio mestiere o occupazione senza il nulla osta delle Autorità ha fatto trionfare le idee liberali. La più grande conquista del capitalismo non è stata l’accumulazione di beni, ma l’opportunità che questo sistema ha conferito a ogni individuo di sviluppare le proprie capacità.

Negli ultimi anni sono cambiate le condizioni che favoriscono il capitalismo. In passato questo si sviluppava in regime di democrazia; ora si registra un disallineamento fra democrazia e capitalismo. Infatti la Cina e Paesi dell’America latina sono riusciti a impostare una ricchezza capitalista in regimi scarsamente democratici. Questo nuovo andazzo merita una riflessione, poiché la rinuncia alla democrazia pregiudica il benessere sociale su vasta scala e abolisce strumenti a beneficio del cittadino, quali il sindacato.

I germi del feticismo del mercato finanziario risalgono al 1875, quando la City londinese Anthony Trollope – raccontata nel romanzo “The way we live now” –   riproduce il prestigio del finanziere Augustus Melmotte, mercante e banchiere di investimento, in grado di creare o affossare qualsiasi impresa comprando o vendendo azioni, cioè far salire o scendere il costo del denaro a suo piacimento. In questo romanzo viene rappresentata una società a consistenti tinte negative incline a soggiacere al fascino della ricchezza mercantile. Per la cronaca, Melmotte vede crollare il suo impero (con suicidio), appena si trova in una crisi di liquidità. Restano operanti comunque gli affaristi, mediatori, trafficanti e speculatori del mercato finanziario. Melmotte, quale genio della negativa speculazione moderna, resta nella memoria come il prototipo del “principe mercante”, che avvia quel processo tristemente conosciuto come il tarlo opaco del mercato finanziario. In quel periodo, la convertibilità aurea della moneta era divenuta, assieme all’espansione del commercio inglese, la chiave di volta per guadagnare una posizione di eccellenza che lo elevava al ruolo di centro regolatore dell’economia.

Il mercato finanziario, ultimo regalo nello scacchiere economico, ha imparato a tramandarsi un nocciolo di regole comportamentali che pone al centro l’uso calibrato delle risorse informative come il bene più prezioso, l’elemento primario delle professioni di Borsa, fondate sulla velocità dei tempi di analisi del mercato e di decisione. La visione moderna di una razionalità economica procedurale, conscia delle limitazioni cognitive indotte da un ambiente in continua turbolenza, si mescola in modo incoerente con le pretese di sinossi dell’utilitarismo del rapido profitto. La volgarizzazione della Borsa, con l’inoculazione dei derivati e dei titoli speculativi, ha plasmato un susseguirsi di stati d’animo, in un’alternanza di euforia e di panico, avviando il corso patologico del mercato.

Con la nascita dei moderni mercati finanziari è maturata la disponibilità a spingere la ricerca del profitto sino a limiti antisociali. Una pulsione divenuta più visibile per la dilatazione della finanza contemporanea, la quale imprime nuove dimensioni a propria orma sull’economia e sul territorio. Questo tipo di capitalismo apporta instabilità ed è votato all’eccesso: l’unica soluzione appare l’istituzione di un controllo regolatore. Lasciare indisturbate le forze di mercato, come pensava Schumpeter, non è più possibile per l’estensione e la nocività del capitalismo. I fatti degli ultimi anni testimoniano che l’instabilità del capitalismo induce a una tensione permanente tra la finanza, la società e le istituzioni. Dietro la metamorfosi degli assetti economici traspare la materialità di un impasto di passioni e interessi, che riaffiorano sotto lo schermo di abiti comportamentali sempre in mutamento e in preda all’intolleranza e al populismo. 

La massimizzazione del profitto e la crescita ad ogni costo, senza prestare attenzione alle conseguenze negative a livello micro economico e macro economico, diventano scelte irresponsabili e distruttive al punto da creare disarmonie non facilmente arginabili.

Nel capitalismo classico, i fautori della produzione di massa pensavano che, privando i dipendenti di ogni discrezionalità sull’organizzazione, la catena di montaggio avrebbe massimizzato la loro produttività. Ben presto gli operai hanno reagito con svogliatezza e passività con la perdita di autonomia e dignità. Così i capitalisti hanno modificato il comportamento e creato buone relazioni coi dipendenti, suscitando le motivazioni umane. Su questa scia grossi vantaggi hanno ottenuto aziende giapponesi e tedesche. Una nuova perturbazione è emersa negli ultimi anni, con la precarietà e l’incertezza del lavoro, sintomi gravi e pregiudizievoli per la dignità e la sicurezza sociale.

Nella globalizzazione incontrollata si erge un nuovo protagonista, l’impresa transnazionale. In tal modo il capitale non assume volto nazionale e l’impresa transnazionale investe nei Paesi che attuano politiche discriminatorie e ostative, ampliando il novero delle condizioni di incertezza nel panorama occupazionale.

Dopo il collasso dell’URSS, la fine drastica e irreversibile del sistema sovietico dell’economia pianificata ha indotto l’opinione pubblica a ragionare in termini manichei, in cui si approda agli estremi dell’economia capitalistica, saltando tutte le varie gradualità. Ciò non tiene conto che il superamento di una ideologia non implica necessariamente il contrario della stessa, comunque integrale ed esasperata. Infatti la svolta economica e soprattutto finanziaria a livello internazionale, mentre da una parte propizia il puro sviluppo produttivo, dall’altra infierisce sugli aspetti di natura sociale. La miopia delle osservazioni dimentica l’esistenza del “modello renano” imperniato sulla libertà imprenditoriale e con un minimo di controllo sociale. Una caratteristica che si è sviluppata in Europa e in Italia. Purtroppo, dopo la caduta del muro di Berlino, l’uomo moderno è rimasto anestetizzato dalla supremazia americana, dimenticando che nei popoli del nord Europa la scelta cade sul liberalismo in via di principio, ma accettando connotati correttivi di socialismo in cui si va a sostenere il debole.

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About Giuseppe Rocco

Esperto di commercio estero. Vice Segretario generale della Camera di commercio di Bologna sino al 31.1.2007; Docente esterno presso l’Università di Bologna, Istituto Economico della Facoltà di Scienze politiche, in qualità di cultore dal 1990 al 2006, di “Istituzioni Economiche Internazionali” e in aggiunta dal 2002 al 2006 di “Diritti umani”; Pubblicista iscritto all’Albo dei Giornalisti dal 1985; 450 articoli per 23 testate nazionali; in particolare consulente del Il Resto del Carlino, in materia di Commercio internazionale, dal 1991 al 1995; Saggista ed autore di 53 libri scientifici ed economici; Membro del Consiglio di Amministrazione del Centergross dal 1993 al 2007;Membro del Collegio dei periti doganali regionali E. Romagna, per dirimere controverse fra Dogana ed operatori economici dal 1996 al 2000, con specificità sull’Origine della merce.