I vissuti di Adelaide di Antonietta Urciuoli

Questo racconto di Antonietta Urciuoli affronta il tema della vecchiaia come risorsa da cui le nuove generazioni dovrebbero attingere con maggiore sollecitudine, perché non vengano perse le memorie familiari che si innestano su quelle legate a una società che sembra così lontana da ciò che vediamo intorno a noi. 

Ma non è sempre stato così?

La saggezza e i valori custoditi da Adelaide, mamma di famiglia ormai diventata figlia delle proprie figlie, fioriscono nei cuori di chi sa ascoltare, seminando i germi di un nuovo futuro.

Quando Adelaide, dopo alcuni mesi, fece ritorno a casa tutto le sembrò diverso. Le pareti del suo appartamentino le apparvero molto più grandi e, soprattutto, più luminose. Tutti i mobili di casa, gli oggetti ricchi dei ricordi di una vita sembravano farle festa e dirle: – Ben tornata!  Ci sei mancata tanto!

Tutto era come l’aveva lasciato. C’era nell’aria il solito profumo diverso da quello delle corsie dell’ospedale, ma ogni oggetto, anche se caro, cominciava a distaccarsi da lei. In quei momenti si sentì lievemente serena anche se sapeva benissimo che molte cose dovevano necessariamente mutare. All’improvviso la felicità sparì completamente quando i suoi occhi incrociarono quelli di Tania che impaziente la invitò a farsi mettere a letto. Adelaide lo fece con tanto amaro in bocca e con i suoi silenzi.

La badante, una ragazza venuta dalla Romania, non conosceva la sua storia ed era entrata quasi con prepotenza nella sua vita, dicendole quello che doveva fare e quello che non doveva fare. Il suo tono di voce era altisonante, severo, proprio lo stesso che si adopera con i bambini per farsi ubbidire. -Sei stato più fortunato di me, marito mio – diceva tra sé Adelaide quando vedeva quella foto sulla parete, sopra al termosifone, che li aveva ripresi l’uno accanto all’altro felici e spensierati. Sì, sì… sei stato fortunato perché sono stata io la tua badante. Fino all’ultimo giorno ti sono stata vicina e ti ho accudito come se fossi stato un altro figlio. Sento ancora il ripetersi delle tue parole quando mi dicevi: -Perché fai tutto questo per me! Ti rispondevo: – Perché ti amo! – Sì, sì… ti ho tanto amato. Sei stato l’uomo della mia vita-.

Se ne stava per ore e ore con i suoi ricordi che le tenevano compagnia. Erano dolci e cari, li accarezzava, li tratteneva nella sua mente custodendoli gelosamente. Intanto la sua voce si nascondeva dentro di lei sparendo per ore e ore. Si limitava solo a un cenno con il capo per un “sì” o un “no” e poi il silenzio. Tanto silenzio! Quest’ultimo l’avvolgeva e la portava via su una nuvola e la faceva volteggiare come una foglia accarezzata dal vento.

Era difficile per lei instaurare un rapporto con Tania. In ospedale quando le era stata accanto l’aveva studiata bene: era fredda, distaccata, mai un sorriso. Passava di volta in volta da una persona all’altra solo ed esclusivamente per denaro. Se all’improvviso riceveva un’offerta maggiore ti lasciava senza battere ciglio, proprio come i mercenari. Mezzo giovedì e tutta la domenica le spettavano di diritto, insieme a tutte le festività. Se qualche vecchietto le si affezionava spesso restava deluso perché, quando partiva a Natale, non faceva più ritorno inventando scuse su scuse.

Adelaide aveva già avuto esperienza delle badanti quando si era ammalata sua madre e ricordava molto bene la delusione e i problemi che avevano creato queste ragazze. Avrebbe tanto desiderato concludere la sua vita senza la presenza di estranei. Era davvero triste, per l’anziana donna, condividere giornate con chi non aveva nessun legame affettivo.

Mentre lei giaceva a letto, ignara del futuro che l’attendeva, per le sue figlie, Francesca, Carla e Giovanna, cominciavano le dolenti note. Francesca lo disse apertamente alle sorelle: – Toglietevelo dalla testa! Non posso portare, a casa mia, nostra madre. Mi creerebbe seri problemi. Ho tre figli piccoli da accudire e ho il mio lavoro che, di giorno in giorno, diventa sempre più stressante. Poi sapete bene quali sono i problemi con Marco. Siamo agli sgoccioli.

Carla che era la seconda delle tre aggiunse: – Ho deciso di non sposarmi per essere libera. Capiteeee? Liberaaaa! Non contate su di me e non scaricatemi il peso di nostra madre solo perché sono single. La vita è una sola e voglio godermela. Non voglio rinunciare ai viaggi e ai miei hobby. Non voglio fare la fine che fece mamma con sua madre, sacrificandosi a tal punto da annientarsi. –

Giovanna che era la prima figlia intervenne dicendo: – Troviamo insieme una soluzione. Per cortesia, vi prego, cerchiamo soprattutto di non litigare tra di noi. Potrei portarmela a casa mia, ma nostra madre ha espresso il desiderio di morire tra le sue quattro mura. Mamma ci ha messo al mondo e si è sacrificata, per tutta la vita, per non farci mancare nulla. Dobbiamo a lei se siamo tutte laureate. Adesso ha bisogno di noi e, poi, c’è il problema della sua pensione che non coprirebbe più le spese per una badante. I medici sono stati chiari, non ne ha per molto. Il tempo che le resta rendiamoglielo meno amaro.

Francesca, nell’ascoltare le ultime parole, fu presa dalla sua solita agitazione che non riuscì a controllare. Poi, alzando la voce, senza nemmeno rendersene conto, gridò: – Dio mio! Dio mio! Perché ci hai abbandonato! Come faremo a gestire questa difficile situazione. Il denaro che abbiamo non è sufficiente per pagare tre badanti. I risparmi di mamma e papà li abbiamo avuti noi. I mesi in ospedale ci hanno distrutto sia fisicamente che psicologicamente. Cominciò a tremare come una foglia e più si agitava, più il tremore al labbro superiore aumentava. Le sorelle la fecero distendere sul divano. Mentre Carla preparava la solita camomilla, Francesca le fece fare un respiro profondo. Le fece chiudere gli occhi per alcuni attimi e le massaggiò, lentamente, le tempie con i suoi polpastrelli. Dopo alcuni minuti le somministrò un ansiolitico. Ci volle un po’ di tempo per farla calmare, evitando così un attacco di panico.

Carla, perplessa, incrociò gli occhi lucidi di Giovanna che aggiunse: -Iddio non ci abbandonerà! Ci indicherà la strada.

Mentre le figlie si dibattevano tanto in casa di Carla, la mamma viveva il suo dramma, senza mai perdere la fede. Non faceva altro che pregare e tra una nenia e l’altra, si addormentava. Poi, dopo un po’, si svegliava, continuava a pregare e di nuovo cadeva in uno strano dormiveglia. La fede era stata la sua vera compagna di vita. Essa le aveva permesso sempre di rialzarsi ogni volta che era caduta o precipitata in quei tunnel scuri, quando assapori l’amarezza dell’esistenza, quando tocchi con mano la sofferenza, per la perdita dei propri cari. Adelaide, di persone care ne aveva perse tante. Molti fili si erano distaccati dalla vita terrena per radicarsi, come edera, nel suo cuore. Il “dolore” le aveva graffiato l’anima più di una volta. La perdita del suo primo bambino, poi i suoi nonni, i suoi genitori, il marito con cui aveva condiviso quarantadue anni di vita, tra lacrime e sorrisi e tanti parenti. Tutti insieme avevano scavato una ferita che non aveva mai smesso di sanguinare. Nonostante l’età avanzata, riusciva a ricordare attimo per attimo quei giorni terribili, quando la “morte” aveva bussato alla sua porta cambiandole la vita. La gravità della malattia, i medicinali fecero tutto il resto. Lei, sola, con Tania di cui sapeva poco o niente della sua vita, a causa del carattere introverso, precipitò sempre di più nell’apatia, che scompariva solo con la presenza delle figlie, a cui aveva dato tutto il suo amore. Le tre donne, dopo giorni e giorni di battibecchi tra loro, vennero a una conclusione. Decisero di comune accordo che la badante avrebbe coperto la notte e la mattina. Nel pomeriggio si sarebbero alternate. Una vicina si sarebbe presa cura di lei la domenica, che Tania aspettava con grande gioia. Adelaide era molto dispiaciuta. Non avrebbe mai voluto sacrificare le sue figlie a cui aveva donato tantissimo, non beni materiali ma molto, molto di più. Nonostante il suo rammarico, non poteva farci niente. Era costretta a subire, a dipendere dalle loro decisioni e accettare passivamente.

Giovanna

Fu preparato un orario settimanale e furono coperte tutte le ore pomeridiane. Stabilirono che avrebbero fatto una settimana ciascuno. Il primo turno toccò a Giovanna, la più grande, la più comprensiva e la più dolce delle tre. Durante quelle ore, la mamma si sentì rinata, come se un velo scuro fosse stato tolto, all’improvviso, dal suo cuore.

Spronata da sua figlia cominciò a parlare, sostituendo le parole al grande silenzio, che stava in parte avvolgendo l’umanità, che preferiva chattare piuttosto che parlare. La cosa strana era che non aveva neanche più il piacere di ascoltare, soprattutto, le persone anziane. La presenza di Giovanna era diventata un farmaco efficace. Adelaide cominciò a mangiare di più, anche perché sua figlia le preparava i suoi piatti preferiti, coccolandola proprio come si fa con i piccini. Entrambe, come per magia, furono prese da un grande desiderio di raccontare.

Senza rendersene conto, si tuffarono nel passato che resta sempre vivo nella mente. La mamma le raccontò la sua vita, fatta di lacrime e sorrisi, di luci e ombre, di cadute e rialzate. Le parlò della sua infanzia e mentre raccontava la sua storia, il tono della voce di tanto in tanto cambiava. Diventava basso quando affioravano alla mente i tristi ricordi e qualche volta intrappolavano le parole, che trovavano difficoltà nella pronuncia.

Giovanna si rese subito conto della sofferenza provata da sua madre, negli anni più belli della vita. Adelaide era nata in un paesino di montagna della provincia di Avellino, nel lontano 1925 e quel luogo, quando l’aveva lasciato sposandosi, l’aveva stretto forte, forte nel suo cuore, dove aveva albergato per tutta la sua esistenza. La descrizione dei particolari meravigliava sua figlia. Infatti, la mamma, a distanza di tanti anni, ricordava fatti e luoghi di un passato lontano, che faceva rivivere con i suoi racconti.

Giovanna, figlia mia, devi sapere che la mia famiglia era patriarcale e io vivevo in una casa con i nonni, gli zii e le zie. All’età di otto anni, mia nonna mi chiamava alle cinque del mattino. Era costretta a richiamarmi più di una volta, perché non riuscivo proprio a svegliarmi. Com’era bello dormire! La sua voce la sentivo da lontano, mentre vagavo in qualche piacevole sogno. Lei mi scuoteva ed io aprivo a fatica le palpebre lasciando il mio letto.

– Perché mamma venivi svegliata così presto? –

– Dovevo recarmi al bar di mio zio e, poiché non c’erano le macchine espresse di oggi, ero costretta ad aprire prima, perché ci volevano due ore di accensione prima del funzionamento. Nel mese dei morti, dovevo alzarmi alle quattro. Ricordo il freddo intenso di quelle mattine gelide e gli uomini avvolti nei loro mantelli neri che, prima di recarsi al lavoro, si rifocillavano con un caldo caffè. Poi c’erano i forestieri, che arrivavano, di buon’ora, con i loro carretti carichi di merce.

La mia giornata lavorativa era molto intensa. Nonostante fossimo bambine, dovevamo aiutare la famiglia, prima e dopo la scuola. “Dovevamo guadagnarci il pane” ripeteva sempre mia nonna. Quando uscivo dalla scuola, dovevo correre subito a casa. Non potevo, neanche, fermarmi a scambiare qualche parola con le amiche. –

Perché? Cosa dovevi fare? –

Dovevo portare il pranzo a tutte quelle vecchiette povere del paese, che mi aspettavano avanti alle loro case. Come ben sai, i tuoi nonni erano albergatori. In casa lavoravamo dal più piccolo al più grande perché c’era tanto da fare.

L’acqua in casa non l’avevamo. Arrivò nelle abitazioni a metà degli anni Cinquanta. Si era costretti a riempirla e trasportarla con le brocche sulla testa. La fontana pubblica era distante da casa una cinquantina di metri.

Molte volte bisognava andare in strada perché di acqua ne occorreva tanta e bisognava conservarla nei secchi per l’igiene personale.

Per lavare la biancheria bisognava andare al fiume. Per fortuna che potevamo rivolgerci alle lavandaie. Queste ultime venivano nelle nostre case, contavano la biancheria sporca e, dopo aver preparato una “nota”, avvolgevano il tutto in uno dei lenzuoli che dovevano lavare; lo annodavano ben stretto per i quattro capi e con energia lo mettevano in testa e se lo portavano. Questa biancheria veniva portata al fiume dove veniva insaponata su grosse pietre, poi sbattuta e sciacquata e risciacquata, strizzata e messa ad asciugare. Dopo alcuni giorni la riportavano. Il lavoro delle lavandaie era davvero faticoso e le loro mani erano sempre rosse. Per fortuna che inventarono la lavatrice e tanti elettrodomestici che vi hanno agevolato tanto.

Nella mia casa c’era da servire a tavola i clienti fissi che avevamo tra cui c’era il medico condotto, il farmacista e alcune maestre di Avellino.  C’era da tenere in ordine il piano notte per i forestieri, che dovevano pernottare. Un tempo, per spostarsi da un paese all’altro, non era facile. Non c’erano i mezzi di comunicazione che avete voi oggi. Chi doveva proseguire un viaggio era costretto a fermarsi, presso qualche locanda, perché le strade non erano sicure e molti viaggiatori venivano derubati, picchiati e anche uccisi. La gente aveva paura di viaggiare di notte.

Mi piaceva tanto studiare ma riuscii solo a completare la scuola elementare che oggi chiamate primaria. Vostro nonno non volle mandarmi ad Avellino a frequentare le scuole medie. Poi, a quei tempi, a noi donne non era permesso proseguire gli studi. Mio padre avrebbe mandato, con piacere, i figli maschi ma i miei fratelli non ne vollero sapere e ci restò tanto male. Ripeteva sempre: “le mie cinque figlie mi hanno dato, sempre, grandi soddisfazioni. Dio, al posto di quei due scansafatiche, avrebbe potuto mandarmi altre cinque femmine e sarei stato l’uomo più fortunato del mondo”. Noi donne eravamo davvero in gamba. Con i miei cinque anni della scuola elementare appresi tanto e, poi, l’intelligenza e la buona volontà fecero tutto il resto.

-Mamma, te la ricordi “La Cavallina Storna?” –

-O Cavallina, cavallina storna, che portavi colui, che non ritorna – Adelaide recitava quei versi del Pascoli con le lacrime agli occhi, che le appannavano la vista. Ricordava ancora la “Spigolatrice di Sapri” e la straordinaria poesia del De Amicis: “A mia madre”.

La figlia le ricordò di quando spiegava le divisioni ai ragazzi, che venivano a ripetizione da lei. La vecchia signora rivedeva gli alunni intorno al tavolo della cucina, che studiavano per ore, e che lei aiutava con grande piacere. Faceva leggere e ripetere più volte un brano, spiegando, poi, il significato di quei termini difficili.

Ciò che aveva appreso alle scuole elementari era stato fondamentale. La scuola di una volta aveva eccellenti maestri di cui Adelaide era sempre andata fiera. I miei maestri – ripeteva – mi hanno insegnato a studiare con serietà, perché la scuola è importante come la famiglia e la chiesa. Quando vostro nonno veniva a scuola per parlare con il maestro, la prima cosa che gli chiedeva era: – Mia figlia come si comporta a scuola! E’ educata? Quando sbaglia, punitela pure, perché il ferro si batte quando è caldo per raddrizzarlo. I maestri di una volta davano punizioni severe e, all’occorrenza,  anche qualche schiaffetto. Oggi li ringrazio per quello che mi hanno dato con i loro insegnamenti. I miei genitori non avevano la laurea ma erano molto educati e rispettavano tanto il maestro. Quando vostro nonno lo incontrava per strada, si toglieva il cappello per salutarlo. Oggi siete stati capaci di non far rispettare i docenti. Vi sono genitori che li picchiano, difendendo i figli, senza rendersi conto dei danni che gli provocano. Figlie mie, di questo passo, non so proprio dove arriverete e che ne sarà di questo mondo, privo di valori.

I pomeriggi che trascorreva con la figlia Giovanna erano intensi e ricchi di calore umano. Lei era solita racchiudere la mano di sua madre, quella libera dalla flebo, tra le sue. Di tanto in tanto intrecciare le sue dita per poterla avvolgere tutta, come se volesse proteggerla, trasmettere tutto il suo grande amore che sin da piccola aveva nutrito per chi l’aveva messa al mondo. Ogni tanto, le sollevava o girava i guanciali. Le accarezzava i capelli ormai bianchi come la neve. Dolcemente e, piano piano, le passava il dorso della sua mano sul viso scarno, sofferente e guardava fissa i suoi piccoli occhi verdi, diventati ancora più belli.

 Adelaide la lasciava fare, perché non aveva ricevuto mai, in vita sua, da sua madre tante coccole; non perché non le volesse bene ma perché aveva tantissimo da fare. La sua mamma lavorava tanto e, poi, ai suoi tempi i figli venivano trattati con severità, non c’era spazio per carezze, comprensioni, dialoghi genitoriali. Per poter parlare a tavola bisognava alzare la mano e poi, le donne non avevano voce in capitolo.

Giovanna si legò ancora di più a sua madre nel corso di quei giorni. Non vedeva l’ora di correre da lei e cercare di alleviare le sue sofferenze. Dopo pranzo, veniva trasportata da una forza invisibile che la costringeva a lasciare tutto e a recarsi dalla mamma. Giunta lì, le sollevava le gambe e cominciava a massaggiarle. Ogni dito dei piedi veniva carezzato e di tanto in tanto, qualcuno baciato. Lei aveva sempre adorato sua madre permettendole spesso di rubarle i suoi ruoli. Quella volta mentre stava rinfrescandole il viso, gli occhi di sua madre incrociarono i suoi e la mamma, a distanza di decenni, le disse: -Figlia mia, grazie! Perché mi ringrazi, mamma? – chiese Giovanna meravigliata e, poi, aggiunse: – Sono io che devo ringraziarti per tutto ciò che hai fatto per me e non tu! – Una lacrima scappò via dagli occhi di Adelaide, come se volesse fuggire per scivolare sulla gota destra. Con un filo di voce l’anziana donna rispose: – Perdonami, Giovanna! Quella volta ti vidi piangere quando volli tenere tuo figlio al mare con me. Pur soffrendo, mi accontentasti e devo a te se rubandoti i tuoi figli mi sentii viva, piena di energie e grazie ai miei nipoti trascorsi anni meravigliosi. Devi sapere che quando i figli crescono e vanno via, la mamma appassisce come un fiore, come quando sopraggiunge l’inverno, perché perde il suo ruolo attivo nella famiglia e si sente inutile. Tu mi hai fatto rivivere con il tuo sacrificio. Non mi hai mai detto di “No!” e ora comprendo gli errori che ho commesso per il mio egoismo. Tu sei nata per prima e io e tuo padre abbiamo sempre preteso tanto da te, perché dovevi dare l’esempio alle tue sorelle. Giovanna piangeva mentre ascoltava la confessione di sua madre e le sorrideva perché l’aveva sempre perdonata. Lei aveva sempre ubbidito ai suoi comandi come un soldato al suo superiore. Accanto al lettone si alternavano le figlie e in quei mesi Adelaide poté finalmente essere libera di parlare con quelle che un tempo erano state bambine e giocavano sui gradini di casa a fare le mammine. Le rivedeva con le scatole di cartone, recuperate dal negoziante di scarpe, trasformate in piccole culle, con dentro le bamboline regalate a Natale. Le tenevano strette tra le braccia, le dondolavano, le cantavano la ninna nanna.

Carla 

Com’erano felici e spensierate le sue piccine, mentre preparavano le collane con la pasta. Come cantava a squarciagola Carla che sognava a occhi aperti un principe azzurro mai arrivato.

Adelaide, un pomeriggio, le chiese: – Carla, dimmi la verità, perché non hai voluto sposarti? – La figlia la guardò e riguardò, poi aprendo il suo cuore si sciolse, come neve al sole, e rispose: – Lo so che mi avresti voluto vedere con l’abito bianco e piangere all’Ave Maria. Avresti desiderato che diventassi mamma con figli da accudire ma ho deciso di vivere la vita in modo indipendente. La tua vita e quella di Giovanna mi hanno fatto riflettere a lungo. Perché dici così? Eppure sia io che tua sorella siamo state felici –

Si, mamma! Ma quanto vi è costato un briciolo di felicità? Quante lacrime avete dovuto versare, di nascosto, per raggiungere le vostre mete? Ma io ho avuto voi tre. Siete state la mia più grande gioia. Ho superato le tante difficoltà, solo perché c’eravate voi. La mia vita è stata intensa e ricca di significato perché voi mi avete dato attimi di gioia che mi hanno sempre fatto dimenticare le amarezze.  La vita è agro-dolce e se fai un bilancio è il più grande dono che abbiamo ricevuto da DIO e dobbiamo cercare di fronteggiare le avversità. Tu hai tutto ma la tua indipendenza ti ha privato di altre gioie e in cambio ti ha regalato la “solitudine”.

No, mamma, la solitudine non mi ha mai fatto paura, anzi è diventata la mia migliore amica. Ho tanto pregato per te, Carla ma non voglio aggiungere altro. Sei, ormai, una donna e accetto, con amarezza, le tue scelte. Possa Iddio esserti sempre accanto.

Francesca

L’ultimo tratto di strada da percorrere permise ad Adelaide di comportarsi da vera madre. Sapeva bene che doveva lasciarle al più presto ed ebbe la possibilità di dire tutto ciò che non era riuscita a comunicare in una vita intera. Quanti silenzi, quante parole non dette, per paura di ferire le sue figlie che aveva sempre voluto proteggere. Quanto coraggio le era mancato per poter gridare: – Non si fa così! State sbagliando!-

Adesso, le era permesso tutto, non temeva più le parole che potevano trasformarsi in pietre. Per troppo tempo, per troppo amore, aveva errato.

Quel pomeriggio d’autunno, mentre le foglie si staccavano dagli alberi rallegrando gli uomini con la bellezza dei loro colori, giallo-rossi, che tappezzavano il verde dei prati, Adelaide affrontò Francesca, una volta e per sempre. La guardò dritta negli occhi e le disse: – Smettila di comportarti come un’adolescente, correndo senza guardare in faccia alla realtà. Ora sei una donna! Devi assumerti le tue responsabilità! La colpa è stata anche mia, perché ti ho sempre viziato, coccolato e cercato di toglierti i sassi lungo la strada. Non ti ho dato la possibilità di crescere. Per tuo padre sei stata la sua “cocca”. Sei nata per ultima e ti abbiamo considerato la piccola di casa. A differenza delle tue sorelle hai avuto molto di più, perché i tempi erano cambiati e noi ti abbiamo dato tanta libertà. I risultati? Sei l’eterna scontenta. Ti si legge in faccia che non ti sei mai resa conto di quello che ti abbiamo donato. Non hai mai apprezzato ciò che hai avuto. Hai un bravo marito che ti sopporta perché sei insofferente. Hai due figli bravi che non ti danno nessuna preoccupazione. Cammini, vedi, senti, sei una donna in carriera. Hai viaggiato tanto, sei elegantissima eppure, figlia mia, non ho mai sentito dalle tue labbra dire “Dio ti ringrazio! Mamma, papà, grazie per tutto quello che avete fatto per me!” Per darti tanto, io e tuo padre abbiamo sacrificato le nostre vite, privandoci di tanto, perché i figli sono sacrifici. Quando li metti al mondo devi essere responsabile delle loro vite. Devi cercare di aiutarli a costruirsi un futuro. L’errore è stato quello che non hai capito il vero valore delle cose. Per poter apprezzare davvero, dovevi farle con il sudore della tua fronte. I genitori sbagliano sempre e i figli vengono al mondo per poterli criticare. Tu sei incontentabile. Vuoi sempre di più e trascuri ciò che hai veramente.

Francesca sentendo quelle parole cominciò a piangere. La mamma, questa volta, nonostante i suoi problemi, non si spaventò. Dieci anni di malattia non erano serviti a niente, anzi, dopo quel lungo percorso, era diventata ancora più egoista. Pensava solo a se stessa e la colpa della sua infelicità la scaricava sugli altri, su tutti. La sua famiglia stava precipitando nel buio. Il rapporto con il marito era agli sgoccioli e una rottura era alle porte. – Bada bene a quello che fai! La famiglia è sacra! Pensa ai tuoi figli. Un rapporto coniugale non è facile farlo durare a lungo se nella coppia non c’è chi si sacrifica per amore dei figli. Per secoli, sono state le donne a sacrificarsi, oggi, attraverso il dialogo, la comprensione, il rispetto l’uno dell’altro potete portare a termine il giuramento, fatto dinanzi al Signore, con un briciolo di buon senso. Lo so, che sei insofferente e che non sai, nemmeno tu, quello che vuoi dalla vita ma devi sforzarti, devi cominciare ad amare gli altri. Cerca di non chiuderti a riccio. Parla con le tue sorelle, confrontati e cerca, a poco a poco, di cambiare. Fallo per me, figlia mia! Le ultime parole furono quasi un’implorazione, una tenera e dolce preghiera. Francesca ascoltò piangendo. Le parole della mamma erano pietre che la colpirono duramente. All’improvviso, si gettò sul letto e strinse forte, forte sua madre, sentendosi ancora una volta “tenero cucciolo”. Intanto Adelaide sapeva solo una parte del dramma che stava vivendo sua figlia. Tutto il resto le era stato risparmiato, a causa dei suoi problemi di salute.

Marco, grande imprenditore, dopo il fallimento della sua azienda, aveva trovato un nuovo compagno che gli permetteva di fronteggiare i suoi insuccessi: l’alcool. Non potendo contare sull’appoggio della moglie, si era lasciato andare e quando alzava il gomito diventava un altro.

Francesca era stanca e provata da una situazione diventata insostenibile e aveva deciso che dopo la morte di sua madre, l’avrebbe denunciato, avvalendosi del Codice rosso” istituito dal Ministro Giulia Bongiorno.

La notte non dormiva e aveva paura di Roberto che da un momento all’altro avrebbe potuto anche ucciderla, visto che le cronache erano piene di uxoricidi. Avrebbe tanto desiderato avere suo padre accanto. Quest’ultimo l’avrebbe aiutata certamente. Avrebbe trovato una via d’uscita, l’avrebbe stretta forte a sé e l’avrebbe riportata a casa: suo padre, l’unico uomo che aveva amato veramente.

Le tre sorelle

Improvvisamente, come per magia, accadde un fatto strano. Puntualmente, le tre sorelle si incontravano ogni pomeriggio dalla mamma e, proprio, alla stessa ora. Arrivavano contemporaneamente sotto il portone. Parcheggiavano e insieme salivano le scale, proprio come quando erano piccole e tornavano dalla scuola. Non saltellavano, cantando, perché quelle bambine erano, ormai, donne.

Saltarono del tutto i turni che avevano stabilito, all’inizio, dopo varie trattative e trascorsero insieme ore ricche di significato, tra quelle dolci mura, diventate protettive per tutte.

I racconti della mamma cominciarono ad affascinare sempre di più le tre donne, che attratte dal periodo storico del novecento, vollero saperne di più. Invitarono Adelaide a raccontare e, quest’ultima fu felice di tuffarsi con la mente nel passato che era ricco di tante storie.

Tra loro nacque un legame sempre più forte. Più stavano insieme e più desideravano stare con la loro mamma. Era come se fossero tornate pulcini sotto la chioccia. Senza rendersene conto, per anni avevano lasciato Adelaide troppo sola. Da decenni, dopo la scomparsa del padre, si erano limitate a telefonare una volta al giorno, con il solito ritornello. Brevi comunicazioni che non erano di alcun sollievo alla loro mamma. Quando Adelaide vedeva benino, cominciarono a inviare i messaggi scritti e quelli vocali che, a causa dello scarso udito, non riusciva a comprendere del tutto. Col tempo, l’anziana signora faceva fatica a parlare perché poche erano le occasioni in cui poteva scambiare qualche parola con qualcuno. Lei, per troppo amore, non faceva trapelare nulla alle figlie che erano sempre nelle faccende affaccendate.

Una volta, approfittando che la mamma stava un po’ meglio, Carla la invitò a raccontare la storia di Rosa.

Con grande entusiasmo, alla fine della terapia disse: – Mamma, mamma, la conosco solo io, raccontala anche a loro – Adelaide, soddisfatta, fece un breve sorriso e nell’attesa che, la flebo che cadeva molto lentamente, finisse cominciò: – Dovete sapere che dopo l’8 settembre 1943 i paesi e le città venivano continuamente bombardati dagli Alleati e la nostra vita diventò quasi impossibile.

Si era appiccicata addosso la paura che era riuscita a radicarsi dentro di noi. La sera, a partire da una certa ora, era obbligatorio il coprifuoco.

Tutti dovevamo restare nelle nostre case e, soprattutto, chiudere bene le imposte. Queste ultime dovevano quasi

essere sigillate affinché gli aerei non vedessero la città dall’alto. Credetemi, figlie mie, quell’assoluta oscurità e il terrore di perdere la vita ci zittiva mentre un’angoscia saliva dentro di noi come una marea.

Spesso in strada si sentiva gridare: -LUCE! LUCE! – Tutti dovevamo affrettarci a controllare. Tutto, proprio tutto doveva essere oscurato. Bastava un filo di luce per mettere a repentaglio centinaia di vite umane.

Quello che maggiormente ti faceva accrescere la paura era il suono delle sirene. La prima segnalava alla popolazione l’arrivo dei bombardamenti e tutti, alla svelta, dovevamo abbandonare le nostre case. Correndo, senza indugiare, dovevamo raggiungere i rifugi antiaerei, adattati sotto ai palazzi o nelle cantine.

Lì ci si ritrovava tutti: i bambini, spaventati, come sempre stringevano un lembo del vestito della mamma, a cui si erano aggrappati durante la fuga e non lo lasciavano, per paura di perderla. Qualche piccino era tra le braccia di sua madre che lo stringeva, sempre più forte, come se avesse voluto aprire il suo cuore e mettercelo dentro.

I giovani si tenevano per mano, con le loro dita intrecciate, per darsi l’un l’altro coraggio.

Quando il rumore roboante delle squadriglie di aerei piombavano su di noi per sganciare il loro carico micidiale, i nostri cuori battevano, a cento all’ora, sempre più forte, come se improvvisamente volessero uscire dal petto.

Ci si abbracciava stretti, stretti: la morte era a due passi da noi. La mia amica Rosa, quella sera, si ritrovò da sola nel rifugio, tra donne anziane che sgranavano i rosari e biascicavano litanie. Piangeva e si disperava perché si sentiva, per la prima volta, troppo sola. Suo padre, per farla scappare era stato costretto, per disperazione, a sgridarla e con tutto il fiato che aveva in gola le aveva gridato: – Devi correre!  Devi mettiti in salvo, almeno tu! –

L’aveva spinta con forza verso la porta. Quella frase maledetta faceva troppo rumore nella testa di Rosa. Lei era frastornata, arrabbiata con se stessa e il mondo intero. Se ne stava lì, tra tanta gente più impaurita di lei e singhiozzava apertamente. Rosa non aveva paura per lei ma temeva per i suoi genitori che erano rimasti in casa. Come figlia, dovette a malincuore ubbidire. Non fu cosa facile lasciare la mamma a letto, malata di cuore, e suo padre che, in un attimo, aveva visto ancora più vecchio.

Quando nell’aria sibilò la seconda sirena, tutti tirarono un sospiro di sollievo. Rosa non salutò nessuno. Scappò da quel luogo, come una forsennata, senza nemmeno dare la precedenza a chi le stava avanti. Pensava solo ed esclusivamente a correre. Raggiunto il suo palazzo, fece le scale a due a due. Raggiunto il terzo piano si precipitò nell’ interno della casa, con il cuore in gola, avendo trovato la porta spalancata. Rivide il volto di sua madre ancora più bianco di come l’aveva lasciata. Accanto a lei c’era suo padre, con il calcinaccio nei capelli e senza occhiali. Egli stringeva con tutte e due le mani quelle della donna della sua vita tra vetri rotti e finestre squarciate. Si avvicinò, lo baciò e fu allora che vide i suoi occhi pieni di lacrime. Era la prima volta che lo vedeva piangere.

Li accarezzò entrambi i genitori e giurò che non li avrebbe lasciati mai più.

Questo racconto commovente e ricco di significato fece comprendere alle figlie di Adelaide i giorni crudi della guerra. Alla protagonista ricordare quei momenti arrecò un velo di tristezza. Guardando le figlie aggiunse: – La guerra è solo distruzione e tanta fame. Un giorno piansi per ore perché volevo un po’ di pane che vostro nonno non riuscì a trovarlo nemmeno al mercato nero. –

Intervenne Francesca dicendo. – Adesso comprendo perché hai sempre raccolto le briciole sulla tovaglia e le mangiavi mentre noi ridevamo, prendendoti in giro.

-Non potevate capire che cos’è la fame, voi che siete cresciute nel benessere, sprecando continuamente ciò che avete.-

-Perciò, mamma ci hai sempre detto che non bisogna mai buttare il pane- disse Carla.

Le tre donne, attraverso quelle storie, cominciarono a comprendere l’importanza della memoria, perché un uomo senza di essa è un uomo sospeso, senza identità. Si resero conto che dovevano leggere libri di storia e approfondire le loro conoscenze per poter far tesoro dei racconti materni.

Una sera Adelaide desiderò raccontare che finita la seconda guerra mondiale, dopo alcuni anni, fu ricoverata in ospedale per una polmonite. Nel grande camerone dove giaceva insieme a una decina di malati, una donna raccontò che ogni notte sognava il figlio soldato che piangeva e le chiedeva il pane. Questa donna, un bel mattino, andò dai suoi paesani a chiedere di aiutarla. Tutti prepararono del pane, a secondo la loro possibilità. Una volta sfornato, fu fatto raffreddare e tutto insieme venne distribuito nelle ceste e portato sull’altare della Chiesa. Questa mamma insieme a tutte le altre cominciarono a pregare la Vergine affinché quel giovane avesse il pane. Nella sua preghiera disse: -Madre di Gesù, tu che sei stata tra le Madri più care e più di tutte hai conosciuto il dolore per Tuo figlio, fa’ che mio figlio possa avere questo pane. Aiutalo, O VERGINE MARIA! Non abbandonarlo!

La mamma non lo sognò più ma quando tornò dalla guerra raccontò che era salvo perché in una chiesa aveva trovato tanto pane. Adelaide a distanza di anni piangeva ancora, proprio come quella sera in ospedale.

Intanto i giorni trascorrevano per Adelaide sempre allo stesso modo. Al mattino con Tania, che non vedeva l’ora di uscire e lasciarla da sola. Quando tornava dalla spesa, non faceva altro che stare a telefono e parlare con la sua lingua rumena. Adelaide cercava di darle meno fastidio possibile. La chiamava soltanto quando era necessario. Mentre Tania contava le ore per scappare da quella casa, Adelaide aspettava il pomeriggio come un’anima in pena. Alle 16 in punto suonavano il citofono, la badante lasciando, la porta socchiusa, andava via mentre la sua signora aspettava le sue creature. Erano stati intensi e significativi quei pomeriggi trascorsi con le figlie ma felicità scomparve nel giro di pochi giorni. Alla fine del mese della Madonna, Adelaide volle le figlie accanto a sé. Per la prima volta le fece salire sul suo lettone. Proprio lei, che per una vita era stata gelosa del suo letto, diede loro il permesso.

Il letto per Adelaide era considerato molto importante e una volta fatto non bisognava poggiarsi sopra e disfarlo. Ma con la malattia, la nostra protagonista aveva cominciato a comprendere che tutto era fugace. Ben presto avrebbe dovuto lasciare tutto ciò che aveva…

L’ultimo suo vestito sarebbe stato senza tasche e il cappotto sarebbe stato di legno. Cominciò a sentirsi leggera, leggera come una piuma- Cominciò ad assaporare il distacco da tutto quello che aveva ottenuto con il lavoro e le privazioni. Senza dire niente alle figlie, da tempo aveva pensato all’ultimo tratto di strada, il più difficile, il più breve.

Aveva sempre pregato la Vergine di avvolgerla nel suo manto blu. Adelaide non aveva paura di andare via, perché era consapevole che c’è per tutti la fine. Ripeteva a sé stessa: “Esiste l’inizio e la fine per ogni creatura di Dio”. Andrò da mamma e papà e dal mio sposo e da tutti i miei cari che mi hanno preceduto-

Rivolgendosi alle figlie disse: – Questa notte dovete rimanere con me. Non voglio restare con Tania. Voglio soltanto voi. Dovete cercare di fare quest’ultimo sforzo, restare stanotte con me.

Le figlie si guardarono senza parlare. Un triste pensiero attraversò le loro menti ma nessuno ebbe il coraggio di rivelarlo alle altre. Lo custodirono gelosamente nel loro cuore, con la speranza che fosse solo un capriccio materno. Si organizzarono per trascorrere la notte tra quelle mura dove avevano trascorso la loro infanzia e adolescenza e sicuramente gli anni più belli.

A turno raccontarono alla loro mamma le loro indimenticabili ore trascorse in quella casa. Parlarono del loro padre, severo ma nello stesso tempo amorevole verso di loro. Adelaide le ascoltava felice ma non era felice, era molto, ma molto di più. Dopo la mezzanotte chiese alle figlie di addormentarsi accanto a lei.

Volle che Francesca poggiasse la sua testa su un braccio e Carla e Giovanna sull’altro.

  • Mamma, mamma, non ce la farai! Le tue membra sono stanche. Le tue braccia sono piene di lividi e noi non siamo più piccine – disse Giovanna
  • Adelaide, con un mezzo sorriso rispose: – Non insistete ce la farò-.

A malincuore le figlie ubbidirono. Intanto Adelaide era convinta di stringerle ma in realtà non faceva altro che muovere lentamente le dita gonfie e prive di sensibilità. Le sembrava di stringerle proprio come quando erano bambine piccole e indifese.

Provava un senso di felicità mai provata prima e così si addormentò per non svegliarsi mai più.

Quando alle prime luci di un nuovo giorno, le tre ragazze la chiamarono, lei non rispose. Era andata via senza fare troppo rumore, circondata solo ed esclusivamente dall’amore delle sue figlie che videro il suo viso, disteso, rilassato e ancora più bello e, soprattutto, videro quel suo dolce sorriso che aveva tenuto loro compagnia per tutta la vita.

Adelaide prima di lasciare la terra aveva visto la Vergine Maria che era venuta a prenderla Le aveva teso le mani e l’aveva portato là dove c’è tanta Pace.

Adelaide aveva scritto su un foglio, che poi fu trovato, che era stata felice quando i raggi del sole attraversavano i vetri della sua camera da pranzo, si riflettevano nella cristalliera e si irradiavano sul suo volto quando nei pomeriggi si riposava. Il cielo, le nuvole, il sole, la luna, la pioggia, la neve, gli uccelli, i fiori e tante creature animate e inanimate erano stati i suoi veri gioielli.

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