Recensione di Ma l’amore no di Mirella Napodano. Intervista all’autrice

Romanzo epistolare per la memoria delle emozioni è il sottotitolo che racconta le intenzioni che Mirella Napodano ha messo nel suo Ma l’amore no, cimentandosi nel genere del romanzo, dopo una serie di pubblicazioni dedicate alla formazione. La prosa pulita e raffinata, che contraddistingue l’autrice, nel libro accompagna le lettere tra i suoi genitori, piccoli capolavori di lingua italiana ma anche di lirismo. Battibecchi, gelosia e passione condiscono la relazione che oggi avrebbe come mezzo di comunicazione una chat. Quasi le stesse sono anche le tempistiche, dettate dalla quotidianità di una corrispondenza che si avvaleva di un servizio postale celerissimo, anche in tempo di guerra. Lì, dal fronte africano, l’innamorato scrive puntualizzando l’ordine dei suoi riscontri alle missive di Emilia, con tanto di numero progressivo e data, nel caso si fossero accavallate le lettere o anche ne fosse saltata qualcuna.

Nessuna traccia di queste lettere di Emilia al fidanzato al fronte, che il soldato si curava di distruggere. Ogni risposta riporta in calce un rassicurante VINCEREMO! certo obbligatorio, visto che tutta la corrispondenza era soggetta a censura, ma che lontanamente ricorda il nostro attuale e consolatorio “Andrà tutto bene””.

L’autrice si insinua in punta di piedi nel racconto che si rivela, appunto, per via epistolare, fatta eccezione per le ampie descrizioni del contesto cittadino del capoluogo irpino, di cui la Napodano traccia i profili delle persone che in quel periodo si distinsero, spiegandone parentele e intrecci. Così per chi, avellinese, si appresti alla lettura, troverà certamente luoghi e nomi conosciuti e parteciperà emotivamente al recupero tanto minuzioso di una memoria che va perdendosi con il tempo. Il lettore esterno invece ci vedrà l’ambientazione storica, subendo il fascino di un amore d’antan, probabilmente con la curiosità di sbirciare nelle pieghe di una relazione amorosa che ha tutto di vero.

L’intervista

Creature variopinte, Per un’educazione al dialogo, Socrate in classe, Logos e Melos – Filosofia e Musica come linguaggi della menteUn mondo di creature variopinte sono saggi a sfondo filosofico. Con Ma l’amore no è al suo primo romanzo. Che emozione ha provato nello sperimentarsi in questo genere? Crede che ci si dedicherà di nuovo?

In effetti, per molti anni mi sono dedicata quasi esclusivamente alla saggistica, inseguendo il sogno della Filosofia dialogica come nuova Paideia, che ancor oggi costituisce il filone principale delle mie ricerche. Ho iniziato circa venticinque anni fa, quando a crederci eravamo veramente in pochi. Venivo dall’esperienza statunitense della Philosophy for Children, ma quel metodo non mi convinceva. Una volta sperimentato per due anni, mi appariva troppo schematico, centrato solo sulla logica e inadatto alla cultura europea. Così mi misi a studiare altri approcci e il risultato fu Creature variopinte (che ho brevettato qualche anno fa presso il Ministero dello Sviluppo): un percorso curriculare di filosofia dialogica per tutti, dai bambini ai ragazzi, dalla comunità civile ai detenuti. Oggi il panorama è cambiato: l’approccio dialogico è raccomandato finanche nei documenti del MIUR. Il mondo accademico (che prima ci snobbava) ora plaude alle pratiche filosofiche e l’apprendimento della filosofia nelle scuole si avvia finalmente ad adottare una linea metodologica più problematica che storico-cronologica. Così ho trovato tempo e spazio per dedicarmi alla passione narrativa, che avevo sempre tenuto a freno per l’urgenza delle sperimentazioni nelle scuole, della documentazione pedagogica, dei convegni nazionali nelle varie associazioni e nelle sedi universitarie, in cui mi confrontavo con studiosi di diversa provenienza geo-culturale. Ma c’è voluto il duro confinamento della primavera scorsa dovuto alla crisi pandemica per darmi la giusta concentrazione e farmi decidere di completare finalmente un progetto che covavo nella mente da almeno cinque anni: metter mano ad un vasto archivio di documenti familiari per ricostruire le mie origini, dare corpo ai ricordi, rendere giustizia a certe emozioni che languivano da tempo nei cassetti della memoria. Questa mi è parsa anche una buona occasione per riannodare i fili di una pericolosa frattura intergenerazionale, raccontando ai giovani quello che è successo prima che loro nascessero: come era la vita ad Avellino, come mai poteva succedere che un ragazzo poco più che ventenne partisse per l’Africa inseguendo una pericolosa illusione che gli avrebbe regalato mirabolanti avventure insieme ad una profonda solitudine. E, mentre pescavo a piene mani nei ricordi di famiglia, ho scoperto quanto fosse terapeutico per me realizzare questo romanzo, dando senso ad un tempo sospeso in passato mai sperimentato. Così mi sono trovata ad inventare scene e dialoghi avvenuti molti anni prima della mia nascita, ma che senza saperlo portavo misteriosamente impressi in me. Sì, è stato molto emozionante. In alcuni momenti ho riascoltato le voci dei miei cari, li ho visti e descritti mentre agivano, mi sono sentita quasi dettare da loro le parole da scrivere. Qualcuno mi ha detto finanche che più che un romanzo epistolare ho scritto la sceneggiatura di un film. Sulle ultime lettere di papà, quando era ormai deluso e scoraggiato perché le cose si mettevano male per le truppe italo-germaniche e temeva per la sua vita, ho addirittura pianto. Non so se ripeterò l’esperienza, può darsi che ci trovi gusto. Una cosa è certa, ed è questa: tutta produzione saggistica scientifica cui mi ero dedicata con tanta foga nei decenni scorsi è rimasta circoscritta nei circuiti accademici: apprezzata certo, molto commentata, studiata e spesso scopiazzata, ma non mi ha rivelato a me stessa e agli altri come questo romanzo epistolare intriso di vecchie canzoni e versi di poeti, in cui si esprime la mia identità personale e familiare.


Il recupero dei ricordi e delle immagini della propria famiglia è un percorso da compiere prima di tutto dentro se stessi, è vero. Cercando qualcosa che ci appartiene nel profondo si mette un po’ d’ordine in sé o ci si prova. Lei crede di esserci riuscita? 

Sarebbe un po’ pretenzioso da parte mia credere di essere riuscita appieno in una simile operazione. La memoria si intreccia con i nostri percorsi identitari per formare un tutto abbastanza inestricabile. Molti ricordi si colorano impercettibilmente di sfumature fantastiche che forse non appartengono tanto alla realtà dei fatti descritti quanto alle nostre proiezioni e aspirazioni inconsce su di essi. Anche in questo vale l’assioma dell’Ermeneutica che ammonisce: “Non esistono fatti ma interpretazioni.” Quello che credo abbia funzionato nel romanzo è la descrizione che ho cercato di fare degli ambienti affettivi dove vivevano i miei cari, tentando anche di delineare un certo profilo psicologico dei protagonisti, inevitabilmente influenzato dal mio punto peculiare di vista. Molti studi di psicologia del profondo dimostrano che nella mente di ciascuno di noi esiste un romanzo familiare che si costruisce nell’infanzia e si sviluppa nel tempo. Un romanzo in cui siamo noi ad attribuire – in forma più o meno larvata – ruoli e giudizi morali sulle persone che formano la nostra più stretta cerchia familiare, quella che in linguaggio tecnico si definisce ambiente primario. Devo confessare che, consapevole di ciò, ho cercato di esercitare un certo autocontrollo per non farmi influenzare da visioni preconcette, sedimentate nel tempo dentro di me. In questo senso posso dire di aver tentato di rimettere in ordine qualche cassetto della mia memoria, spolverando un po’ gli oggetti in giro e togliendo quella patina del tempo che inevitabilmente si forma anche sui pensieri.

C’è un consiglio che si sente di dare ai giovani scrittori o a coloro che si affacciano per la prima volta a questo fantastico mondo della scrittura? 

Non è semplice elargire consigli in questo campo, specie in un momento come questo, ma ci provo ugualmente. Non bisognerebbe mai mettersi a scrivere senza prima aver a lungo dialogato con se stessi e con gli altri, altrimenti si rischia di scrivere per uno sfogo di penna o al massimo per rielaborare reminiscenze letterarie scolastiche. Occorre assolutamente evitare la banalità, la ripetitività, la sciatteria della forma che è un’offesa alla bellezza e all’eleganza dovuta alla prosa. Il che non vuol dire necessariamente adottare un registro aulico, quanto piuttosto riuscire ad essere incisivi, sintetici, efficaci nella comunicazione. E spenderei qualche parola anche per invitare i ragazzi ad un uso preciso e pertinente della punteggiatura, che non è scontato ma spesso richiede una certa riflessione. È importante anche rileggere spesso, riflettere su ogni parola, utilizzare caso mai un vocabolario dei sinonimi per cercare l’espressione più adeguata, quella che rende meglio l’idea, un po’ come si fa quando si traduce un brano da un’altra lingua. Anche scrivere qualcosa in lingua materna è in un certo senso una traduzione del nostro linguaggio in forma comprensibile agli altri. Per farlo bisogna essere empatici, sforzandosi di mettersi dal punto di vista di chi leggerà.

Concordo pienamente con le osservazioni che ha fatto. Un’ultima domanda: cosa si aspetta dalla Fiera del libro della Biblioteca suore di Montevergine? 

Ho apprezzato moltissimo l’iniziativa delle Suore Benedettine per la cura che hanno messo nel rendere disponibile una piattaforma digitale ben strutturata e accogliente per le esigenze degli scrittori, affinché le opere ricevessero tutto il risalto dovuto. Del resto, è la stessa sensazione di accoglienza ed inclusione che si prova nel varcare la soglia del loro Convento e godere di persona della loro affettuosa ospitalità. Credo che la Fiera del Libro, giunta quest’anno alla sua seconda edizione, sia un evento culturale di ampio respiro, in grado di ospitare le più svariate opere letterarie del panorama nazionale ed internazionale, grazie ai linguaggi digitali che vengono utilizzati in maniera agile e proficua. Ho deciso di partecipare come autrice di tre testi (due dei quali di saggistica) sperando di dare maggiore visibilità al mio lavoro, intessere rapporti con gli altri autori, dialogare con i lettori.

MIRELLA NAPODANO

Laureatasi in Pedagogia nel 1969, ha conseguito nel 1971 l’Abilitazione all’insegnamento di Filosofia, Storia, Psicologia e Studi sociali. Dirigente Scolastica dal 1986 al 2011, attualmente è vice presidente della Società Filosofica Italiana sez. di Avellino, nonché socio fondatore e past President di AMICA SOFIA (Associazione per la promozione e la ricerca delle pratiche di Filosofia dialogica nella scuola e nella società) con sede presso il Dipartimento di Scienze umane e della Formazione dell’Università di Perugia. Esperta di didattica laboratoriale, ha ideato il metodo ‘CREATURE VARIOPINTE’© per la promozione delle pratiche filosofiche nelle scuole di ogni ordine e grado, nelle carceri e nella società civile. Ha diretto numerose Scuole di alta formazione ad Avellino per conto dell’Istituto Italiano per gli studi Filosofici di Napoli, nonché sperimentazioni didattiche e iniziative di ricerca-azione per la formazione in servizio dei docenti. Ha tenuto corsi di Pedagogia generale, Sociologia dell’educazione e Lingua francese nel biennio di Specialistica dell’Istituto superiore di Scienze Religiose ‘S. Giuseppe Moscati’ di Avellino. Presso la facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Salerno ha svolto il progetto ITCOLE (Innovative Technology for collaborative learning and Knowledge Building) partecipando al teachers meeting di Atene (settembre 2002) per presentare un poster sulle ricerche compiute nell’ambito dell’apprendimento cooperativo a distanza. 

E’ autrice di numerosi articoli e saggi, tra cui: Creature variopinte (Roma 2004); Per un’educazione al dialogo (Avellino 2004); Socrate in classe (Perugia 2008); Logos e Melos – Filosofia e Musica come linguaggi della mente (Avellino 2010); Un mondo di creature variopinte (Bologna 2016). Con il romanzo Ma l’amore no (Grottaminarda 2000) è alla sua prima esperienza di scrittura narrativa.

LA SUA SCHEDA NELLA FIERA DEL LIBRO DELLA BIBLIOTECA SUORE MONTEVERGINE

©Riproduzione riservata

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About Eleonora Davide

IL DIRETTORE RESPONSABILE Giornalista pubblicista, è geologa (è stata assistente universitaria presso la cattedra di Urbanistica alla Federico II di Napoli), abilitata all’insegnamento delle scienze (insegna in istituti statali) e ha molteplici interessi sia in campo culturale (organizza, promuove e presenta eventi e manifestazioni e scrive libri di storia locale), che artistico (è corista in un coro polifonico, suona la chitarra e si è laureata in Discipline storiche della musica presso il Conservatorio Domenico Cimarosa di Avellino). Crede nelle diverse possibilità che offrono i mezzi di comunicazione di massa e che un buon lavoro dia sempre buoni risultati, soprattutto quando si lavora in gruppo. “Trovo entusiasmante il fatto di poter lavorare con persone motivate e capaci, che ora hanno la possibilità di dare colore e sapore alle notizie e di mettere il loro cuore in un’impresa corale come la gestione di un giornale online. Se questa finestra sarà ben utilizzata, il mondo ci apparirà più vicino e scopriremo che, oltre che dalle scelte che faremo ogni giorno, il risultato dipenderà proprio dall’interazione con quel mondo”.