LA RICERCA PARLA SEMPRE AL FUTURO

Dicevamo la volta scorsa che per lavorare nella ricerca ci vuole una certa dote di fiducia nel futuro, che serve anche per investirci. Il problema è che negli ultimi tempi manca proprio questa speranza: il che, considerando la già non straordinaria predisposizione all’investimento in innovazione del nostro Paese, aggrava la situazione dal punto di vista psicologico e culturale, prima che finanziario.

I mass media, in questo, svolgono un ruolo delicato e controverso. Da un lato, aiutano a dischiudere gli orizzonti applicativi degli studi in corso: di recente abbiamo letto tra l’altro dell’approvazione da parte dell’Agenzia europea per i medicinali della prima terapia genica per una malattia ereditaria del metabolismo, e della speranza di giungere, sempre grazie alla ricerca sul Dna, a curare o almeno cronicizzare i tumori nell’arco di 5-10 anni. La notizia arriva dall’Institute of Cancer Research britannico.

Dall’altro lato, c’è il rischio di indurre un’idea troppo ottimistica, quasi ‘automatica’, della ricerca scientifica. Con conseguenti disillusioni o derive ‘gadgettistiche’: la tendenza, cioè, a privilegiare quei settori soprattutto tecnologici da cui arrivano continue ‘scoperte’ la cui utilità non è però sempre fondamentale. Per esempio, è opportuno distinguere la tara del marketing dalla pubblicità martellante che ci decanta nuovi dispositivi elettronici più sottili di un millimetro o schermi più corti o più lunghi di un centimetro, applicazioni la cui utilità andrebbe meglio vagliata, oppure funzioni ‘rivoluzionarie’ che comportano un disagio o una limitazione complementare.

In tal senso è vero che le reti e l’Ict rappresentano una sorta di “fine della storia”. Almeno sul piano immaginario dobbiamo rivedere la convinzione, che ci aveva accompagnato per lungo tempo, secondo cui il progresso sarebbe arrivato soprattutto dalla comunicazione materiale: la fantascienza e la fiction ci hanno regalato infinite pagine e scene con macchine volanti e viaggi spaziali che sono arrivati, sì, ma con un impatto sulla nostra vita concreta e quotidiana molto inferiore a quello che stanno avendo web e informatica. Investire sforzi colossali per spostare fisicamente persone e merci ha sempre meno senso, se gran parte dei nostri bisogni possono essere soddisfatti con un click dal pc di casa o dal tablet, ovunque ci troviamo.

Per uscire dalla contrapposizione tra “apocalittici e integrati” coniata da Umberto Eco nel 1964, c’è quindi bisogno di concentrare e coordinare gli sforzi nella conoscenza, dando loro un respiro il più possibile internazionale. Ottima notizia, da questo punto di vista, l’approvazione da parte della Comunità europea di due progetti, ‘Graphene’ e ‘Human Brain’, che riceveranno un finanziamento record di un miliardo di euro: dal primo, che vede una significativa partecipazione del Consiglio nazionale delle ricerche, ci attendiamo davvero sviluppi di grande importanza anche concreta.

Per chiudere, in tema di segnali positivi, evidenziamo il Focus monografico di questo ‘Almanacco della scienza’,  in cui abbiamo raccolto le storie di alcuni dei ricercatori stranieri che lavorano al Cnr. Non si tratta ovviamente di un’inversione di tendenza rispetto al saldo negativo della mobilità intellettuale che affligge l’Italia, poco attrattiva per ragioni più di pesantezza burocratica che di scarsità di risorse, ma queste testimonianze ci fanno comunque piacere e ci piace proporvele.

Marco Ferrazzoli (Almanacco della Scienza CNR)

 

 

 

 

 

 

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