Matteo, con Kamlalaf in Senegal, dove la musica è la madre di tutti
Prosegue il viaggio di Kamlalaf in Senegal, con l’associazione Diaspora Yoff. A raccontare le sue impressioni, in un collage di suoni che arrivano all’anima, è Matteo Stefano Tiboni, che insieme a Daniela Razzini e Anna Dainelli rientrerà in Italia lunedì 22 agosto.
Musica e rumori. Ogni tanto un aereo interrompe i nostri discorsi (siamo a 4 km dall’aeroporto) e il nostro naso si rivolge verso l’alto. Il primo giorno, il secondo e poi via via sempre meno volte, fino a che la cosa non ci distrae quasi più e quel rumore diventa quasi amico in mezzo a un’orgia di suoni assordanti, un’ambulanza a sirene spiegate, qualche clacson di taxi per farsi strada in mezzo alla gente, i bambini che giocano nelle vie.
Al mattino presto l’imam chiama a raccolta i fedeli urlando dal megafono la preghiera, quasi fosse una gara con le altre moschee del quartiere a chi sveglia più persone, ed è così che tutte le mattine partono le giornate qui a Yoff, Dakar. Il sole si alza come gli aerei che partono per le mete più disparate e anche gli animali vengono svegliati: un gallo, qualche capra e via via tutto si mette in moto.
Caos. Auto, moto, clacson, qualcuno fischia, sali su un autobus e la musica accompagna il tuo viaggio, la maggior parte delle volte schiacciato in mezzo alla gente, spalla contro spalla. Ancora un clacson; “ehi italiano” dice uno mentre cerca di venderti le cose più disparate, “spostati” urla un altro indicando un taxi. Al pomeriggio un po’ di quiete fino alle cinque, c’è molto caldo e tra un pranzo ed una preghiera la città si siede per poi rialzarsi e riprendere tutte le attività fino all’imbrunire. È tutto così frenetico per certi versi, ma vissuto con estrema calma e serenità da tutti, non trovi nessuno che si arrabbia per la confusione o che litiga in mezzo alla strada come noi italiani (salvo casi isolati).
La notte, poi, quando tutto sembra addormentarsi i locali si animano. È una festa unica, non c’è limite d’età, tutti ma proprio tutti i ceti sociali si ritrovano insieme e ballano. Ma ballano sul serio. Non usano la scusa come noi di andare a ballare per fare altro. Qui vanno tutti esclusivamente per ballare. È fantastico, hanno il ritmo nel sangue, con questi jambè che vengono frustati all’esaurimento coinvolgono tutti non riesci a stare fermo a guardare, è impossibile. I loro corpi sono ipnotici, si mischiano tra loro in una danza che a volte sembra quasi primitiva ma che è l’essenza vera del ritmo. È un rapporto viscerale, il loro, con la musica come una mamma con il proprio figlio, sono collegati da un cordone ombelicale che li terrà insieme per il resto della vita.
Matteo Stefano Tiboni