Nisida è un’isola e nessuno lo sa… Incontro con il direttore del Carcere minorile di Nisida, Gianluca Guida

L’Istituto Penitenziale per Minori (I.P.M.) è collocato a Napoli su un’isola: “Nisida è un’isola e nessuno lo sa…” cantava Bennato che ben conosce la zona geografica, che di per sé racchiude tutte le contraddizioni di questa controversa città. A cominciare dall’Italsider, l’ecomostro, che sta a significare la brutalizzazione compiuta a Bagnoli nell’area dove prorompe la bellezza del golfo, nonostante tutto.  E lì l’isoletta di Nisida ospita il penitenziario per giovani dai 14 ai 25 anni con una sezione femminile (unica per tutto il Sud Italia) e una maschile; ragazzi e ragazze resisi colpevoli di reati che vanno dalla rapina fino all’omicidio; minori con una pena da scontare che preclude loro la libertà e li costringe ad osservare il mare da lontano. Un’isola legata alla terraferma da una piccola striscia di cemento che l’incatena ad una città come Napoli che, in un certo modo, ha tradito, non accogliendo in un’infanzia protetta, questi figli senza appigli.

A parlarne il direttore Gianluca Guida con i piccoli redattori di un giornale scolastico, Ristoriamoci, dell’I.C. Ristori; ragazzi di Forcella, un’area a rischio della città, quel rischio educativo che ha portato minori anche di quest’area ad essere ‘ospiti’ di Nisida.

Dalle prime parole del direttore Guida si comprende subito la sua capacità comunicativa che arriva al cuore dei ragazzi, come direbbe De Crescenzo, Gianluca Guida è un uomo d’amore, perché esistono dei lavori che non possono prescindere dal metterci se stessi e il proprio cuore. Lui e i suoi collaboratori hanno una “mission” che è proprio quella di cercare di ricucire una lacerazione tra il mondo culturale di questi ragazzi e il mondo del vivere civile. Il tutto deve necessariamente passare attraverso un’alfabetizzazione emotiva, una consapevolezza ed attenzione del male arrecato a terzi, una sensibilità nel riconoscere se stessi e trovare le parole per esprimere il proprio malessere che li ha portati sulla via che sembrava più consona all’ambiente cui appartenevano.

Quando la giustizia fa il suo corso e sentenzia gli anni da scontare in proporzione al reato, la società civile se ne libera mentalmente, che si gettino le chiavi o si usino le chiavi di cioccolato, c’è un delinquente in meno in circolazione; isolati in un’isola distaccata dalla città questi ragazzi intraprendono un percorso che, almeno nelle intenzioni, deve invece riportare ad una riabilitazione. Questo è quello che avviene in questo microcosmo sconosciuto ai più.

Circa 70 operatori della polizia non in divisa. Un educatore ogni 10 minori presi in carico. Alle 7,30 si batte sulle sbarre, quasi una melodia, una consuetudine che nasce dal dover constatare se si fossero segate durante la notte e poi tante attività diversificate e laboratori, fino alla mezzanotte con il rito ripetuto del passaggio ritmato sulle sbarre. Niente cellulari, wi-fi, tante ore da impiegare per non impazzire. Contatto periodico con le famiglie: tre telefonate a settimana di 20 minuti l’una, tantissimo per un teenager di oggi che per natura non è loquace con i propri cari. In questo periodo pandemico, poi, i contatti sono stati diradati con misure di sicurezza e la distanza affettiva è aumentata.

È un carcere a tutti gli effetti, ma che prevede un percorso a step, non sempre lineari, che auspicano un’autonomia di gestione crescente e di una conseguenziale qualità di relazione con l’adulto/educatore attraverso attività laboratoriali.

Azioni contenitive per una fase iniziale critica e in una seconda fase riempitiva di un vuoto imposto che, a sorpresa, soprattutto per loro stessi, hanno spesso evidenziato abilità e propensioni di ognuno di loro. Laboratori di pasticceria, di rosticceria, friggitoria, percorsi formativi per pizzaioli con la cura al lievito madre; fanno anche produzione e vendita il cui ricavato va ai ragazzi stessi o per finanziare le attività. Alcuni, con permessi speciali, fanno catering in esterno. C’è chi, a fine pena, ha continuato l’attività di pizzaiolo con grande successo aprendo pizzerie in varie parti del mondo.

Ed ancora laboratori di ceramica, dell’arte presepiale, di teatro nella sua forma catartica di raccontare le proprie o altrui storie frutto di un laboratorio di scrittura creativa e autobiografica. E ancora lo sport con le sue regole e sana competizione e non il calcio che, sperimentato, riproponeva ruoli gerarchici di supremazia. Invece il rugby, la pallavolo e il basket.

Un laboratorio in cui esponenti della politica, ma anche dello spettacolo o della cultura, si sono confrontati con gli ospiti di Nisida: per evitare la passerella mediatica chi viene si deve rendere disponibile ad uno spazio senza reti in cui i ragazzi sono liberi di esprimere le eventuali criticità. Sono esperienze forti e non tutti si sono dimostrati all’altezza del confronto.

Di fondo la scuola, quella fuori, resasi complice di una loro marginalizzazione, quella che non ha saputo alfabetizzarli, né ha dato i codici di accesso ad un vissuto differente. Loro che, nella maggior parte dei casi, sono stati studenti perfetti per la scuola di strada. A Nisida, obbligatoria per tutti. I più conseguono il diploma di licenza media, anche se la maggior emergenza resta l’alfabetizzazione emotiva. L’emergenza educativa genitoriale qui c’è tutta e sta nel ruolo degli adulti nei confronti di questi ragazzi, non solo i congiunti familiari, ma tutti noi di una società che non accoglie e speso etichetta e non perdona precludendo possibilità di reinserimento nella società.

Spesso questi ragazzi, pur avendo sperimentato un percorso formativo qualificante, a fine pena vengono reinseriti nel loro quartiere, ma con una fragilità in più: quella di aver acquisito un codice di comportamento (che non viene più riconosciuto) differente da quello assunto in precedenza.

A Napoli convivono due filoni culturali paralleli e non comunicanti tra loro, ognuno con i propri codici di linguaggio: quello che manca è una cerniera che unisca due mondi diametralmente opposti per modalità di vita, di valori, di intenti. Spesso la divisione non è nemmeno solo territoriale, c’è una convivenza di luoghi e di spazi e un’infinita separazione di intenti.

La comunità cerca di colmare un gap supportando l’inserimento di questi ragazzi dalla vita penitenziaria ad una nuova che non contenga deviazioni dalle norme del viver comune. Dopo un percorso di introiezione di valori quali la non violenza, la cooperazione, l’alfabetizzazione emotiva, bisogna restituire il soggetto alla sua comunità di origine in cui questi valori non sono riconosciuti come tali per cui il ragazzo sarà di nuovo un deviato rispetto al gruppo sociale d’appartenenza.

Quanti di questi ragazzi ce la faranno a dirottare la propria vita verso un bene che parta dal perdonare se stessi e coloro che non sono stati, per loro, adulti responsabili affinché si evitasse tanto dolore? Siamo tutti, noi adulti, chiamati a risponderne e farcene carico.

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About Angela Ristaldo

Angela Ristaldo, giornalista pubblicista per inseguire una passione per il giornalismo nata tra i banchi di scuola come espediente didattico privilegiato per educare i ragazzi, anche in tenera età, all'autonomia di giudizio e al senso critico. Organizza da anni un giornale scolastico che spazia tra gli interessi dei ragazzi agli stimoli circostanti che la realtà propone. Laureata in Lingue è dal 2005 insegnante di scuola primaria per scelta, credendo fortemente nella scuola come veicolo e velivolo formativo di cultura: unica arma per essere vincente in questi tempi così cangianti e difficili. Amante dell’Arte, spazia nei suoi articoli, tra le più svariate tematiche dal sociale alla scuola senza mai perdere di vista la bellezza insita in tutte le cose se la si sa osservare e valutare.