PREMIO GIANCARLO SIANI 2014 – Intervista a Celestino Genovese, autore del romanzo “La Fontana di Bellerofonte”
LA FONTANA DI BELLEROFONTE 1820 di Celestino Genovese, Tullio Pironti Editore
Il Romanzo La Fontana di Bellerofonte racconta di quelle vicende che la storia del Risorgimento tramanda come l’eroico inizio dei moti che portarono all’Unità d’Italia. Tutto cominciò ad Avellino ed ebbe luogo grazie alla risolutezza dei patrioti che da Monteforte Irpino accesero una scintilla che non si sarebbe spenta neanche dopo le delusioni e le sconfitte seguite all’occupazione austriaca del 1821, che di fatto ripristinò lo status quo. I nove mesi, in cui si sviluppa il romanzo di Genovese, sono quelli che videro concessa da Ferdinando I di Borbone la Costituzione secondo il modello spagnolo, come richiesto dai settari carbonari e dai miliziani ribelli.
In questo periodo si articolano le storie, molto ben descritte e intrecciate, dei protagonisti che, sebbene in parte siano figure inventate, sono perfettamente inserite nel contesto storico.
Il romanzo renderà felici gli amanti di storia locale che avranno modo, oltre che di rivivere l’atmosfera dei moti insurrezionali che caratterizzeranno gran parte del XIX secolo, di rivedere l’Avellino e la Napoli del tempo, con i loro monumenti, le strade non ancora realizzate, le opere non terminate e di calarsi nei vicoli e nei mestieri, guardando nella sporta del venditore, sbirciando come attraverso il buco della serratura in un mondo passato pieno di tradizioni perdute. Molti i particolari, dai nomi dei luoghi alle origini di piatti, ai modi di dire, e le consuetudini che l’autore ama spiegare, descrivendo minuziosamente il contesto, senza con questo interrompere la linea narrativa. Le considerazioni politiche sono affidate ai protagonisti del romanzo e l’autore assiste da spettatore, come il lettore, mentre i fatti vengono raccontati, spiegati e commentati, senza prendere posizione. Il realismo del racconto si spinge fin dentro le tragiche vicende umane che vi si consumano nella loro crudezza. L’analisi sociale, che emerge dal romanzo, è pacata e serena e l’approccio analitico utilizzato è applicabile a qualsiasi periodo storico, mentre non esiste il personaggio “buono e perseguitato” o il “cattivo persecutore”, essendo tutti i protagonisti solo parzialmente colpevoli e non del tutto consapevoli delle conseguenze dei propri gesti.
E’, inoltre, da apprezzare l’onestà di Genovese che, nel non forzare alcun giudizio, riportando le questioni sempre sul piano razionale, dimostra di non aver nulla da dimostrare se non il suo amore per la storia e per la sua città Avellino.
Per chi fosse curioso del titolo, La Fontana di Bellerofonte esiste ancora, sebbene venga chiamata “Fontana dei tre cannuoli”, e si trova lungo Corso Umberto I, nel cuore del centro storico del capoluogo irpino. Ma non abbiamo alcuna intenzione di svelare altro di un romanzo che va assolutamente letto da cima a fondo quasi d’un fiato, nonostante le quasi 500 pagine.
Per questo lavoro a Celestino Genovese, che ha a suo carico numerosi saggi scientifici pubblicati in Italia e all’estero, prodotti nella sua carriera di psicoanalista e professore di Psicologia Dinamica presso la Seconda Università di Napoli, è stato conferito il Premio Giancarlo Siani 2014 per la letteratura.
Abbiamo voluto porgli alcune domande
D. Prima di tutto mi congratulo con lei per il riconoscimento ricevuto a Napoli per il romanzo La Fontana di Bellerofonte-1820. Il fatto che il suo lavoro venga associato a un simbolo del giornalismo italiano qual è Giancarlo Siani rende merito alla sua passione e al suo impegno nell’approfondire le verità sulla nostra storia perché, come recita la motivazione del Premio, ”Essere capaci di raccontare noi a noi stessi e al mondo – senza celare le storture e le tragiche smemoratezze – non è cosa da poco, e ogniqualvolta avviene, come nel libro di Celestino Genovese, bisogna essere pronti a riconoscerne i meriti e a far sì che l’opera abbia la maggiore circolazione possibile”. Le chiedo, quindi, come è nato il suo amore per la storia e come si concilia questa passione con la sua professione?
R. Nel mio lavoro di psicoanalista sia come clinico sia nella riflessione teorica ho sempre tenuto a mente l’affermazione di Gianbattista Vico che “ la natura delle cose sta nel loro nascimento”. E lo stesso Freud diceva che “il bambino è il padre dell’uomo” per intendere che siamo figli del nostro passato anche remoto. Oggi può sembrare un’ovvietà, ma non sono molti coloro che di fatto seguono rigorosamente questo criterio metodologico. La mia passione per la storia, quindi, non è lontana da quella per la psicoanalisi e sono nate insieme come approccio alla realtà in generale, tanto scientifica quanto sociale, storica, ecc.
D. Prima che il racconto abbia inizio il lettore viene avvertito che “I personaggi dei quali è menzionato il cognome sono tutti realmente esistiti, sebbene siano liberamente ricostruiti dall’autore”. Quelli di cui non si cita il cognome, come don Luigino, Carlotta, Agostino , Nennella e don Carlo sono nati dalla sua fantasia o per costruirli si è ispirato a storie di cui era a conoscenza?
R. Sono certamente nati dalla mia fantasia, ma, coerentemente con quanto detto prima, la fantasia non nasce dal nulla: è il prodotto della mia storia, delle cose vissute, delle vicende raccontate da altri e trasformate dal mio inconscio. D’altra parte, se non avessi sperimentato sulla mia pelle i sentimenti dei miei personaggi, come avrei potuto descriverli?
D. Leggiamo ancora nella motivazione del Premio “E’ Nennella l’icona della sconfitta di un’intera generazione; è in lei, che viene disinvoltamente tradita nei suoi sentimenti primari, a battere il cuore intimo di un romanzo in cui grande respiro storico e tensione civile si danno la mano”. Mentre scriveva la storia di Nennella, era consapevole del peso di questo personaggio?
R. Lo sono diventato man mano che il personaggio si imponeva con tutta la sua forza. Ad un certo punto mi sono reso conto che la vicenda di Nennella con la sua piccola storia era la metafora della storia della rivoluzione costituzionale. Più o meno verso la metà del romanzo
D. Sono presenti a Napoli e sul web circoli e gruppi che amano definirsi “filoborbonici”, sollevando la questione della falsa immagine che nella Storia studiata a scuola si dà di questa dinastia. Lei cosa pensa dei Borbone di Napoli?
R. Sono anch’io dell’opinione che a scuola spesso la storia si insegna per stereotipi e luoghi comuni, ma non mi sognerei mai per questo di diventare “filoborbonico” passando da uno stereotipo ad un altro ancora peggiore. Cosa penso dei Borbone? Beh, da un lato c’è differenza, ad esempio, fra Carlo III, uomo colto e illuminato, e il figlio Ferdinando IV (dal 1816 Ferdinando I del Regno delle due Sicilie), pressoché analfabeta e forcaiolo; dall’altro, a prescindere dalle diversità fra i singoli sovrani, si è trattato di una dinastia assolutista, refrattaria a tutti gli stimoli della modernità, a differenza degli altri stati della penisola, compreso perfino quello pontificio, che con l’elezione di Pio IX (Mastai Ferretti) dimostrò di comprendere che il mondo stava cambiando.
Due volte i Borbone (Ferdinando I e Ferdinando II) concessero la costituzione per opportunismo e due volte si rimangiarono il giuramento massacrando il loro stesso popolo.
Ma la questione richiederebbe un discorso molto più lungo e articolato per poterlo riassumere in un’intervista.
D. Alcuni storici sostengono che la storia del Risorgimento vada riscritta da ottiche più equidistanti, soprattutto per quello che riguarda il Mezzogiorno – cito fra tutti i saggi di Gigi Di Fiore – Lei si è fatto un’idea a riguardo?
R. La storia del Risorgimento, soprattutto dopo essere transitata per il ventennio fascista, si è certamente incrostata di retorica. Ma non c’entra l’equidistanza: equidistanza fra quali parti in causa, poi? No. La retorica piuttosto impedisce di cogliere fino in fondo la complessità e le contraddizioni, fin dalla sua genesi, del movimento risorgimentale. Nel mio romanzo ho cercato di mostrare proprio queste, presenti già nel 1820.
Quanto a Gigi Di Fiore non ho letto molto della sua produzione, ma quel poco che ho letto mi fa pensare a Gianpaolo Pansa, che ad un certo punto della sua vita ha deciso di riscrivere la storia della Resistenza elencando le atrocità commesse dai partigiani anche a guerra finita. Non condivido questo metodo: non si può usare il criterio di contare i morti per stabilire chi sono “i buoni” e chi “i cattivi”. Nella storia non ci sono buoni e cattivi in base alle atrocità commesse, ma forze che spingono per l’emancipazione verso un’estensione dei diritti fondamentali (civili, sociali, economici) in un mondo più vivibile per il maggior numero di persone, e forze che resistono a questa emancipazione o spingono addirittura per tornare ad equilibri ormai superati, talvolta da secoli (vedi l’estremismo islamico di cui si parla proprio in queste settimane).
Le dirò una cosa. I nazisti con la complicità dei loro alleati fascisti hanno certamente commesso crimini e atrocità indicibili, la Shoà innanzitutto, e questo non va mai dimenticato. Ma non credo che il significato della loro sconfitta si limiti ad essere un atto di giustizia per quei crimini. Quando penso a come sarebbe oggi il mondo se avessero vinto quelle forze, non posso che essere felice della vittoria degli altri, nonostante le atrocità che alcuni di loro possono aver commesso e i limiti del mondo che ci hanno lasciato.
E questo vale anche per il Risorgimento. In Europa si era già affermata la rivoluzione industriale, la rivoluzione francese aveva messo fine alla feudalità e aveva dato potere politico alla borghesia produttiva e delle professioni. Era inevitabile che la borghesia italiana cercasse di costruire un’unità nazionale che consentisse di essere competitivi con gli altri paesi. Ecco, in questo quadro i “neoborbonici” ricordano la Lega… Dobbiamo immaginare come sarebbe oggi la situazione internazionale se a misurarsi con una potenza economica come quella, che so, della Cina, oltre gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia e la Germania, ci fossero il Regno delle due Sicilie, il Granducato di Toscana, ecc.!
D. Ha trattato nel romanzo il tema della deriva delle vendite carbonare. Storicamente, secondo lei, queste hanno continuato a sopravvivere in altre forme di organizzazioni?
R. Non sono le vendite carbonare che sono sopravvissute in altre forme di organizzazione, ma è quel tessuto civile degradato che pervadeva la Carboneria Profana (cioè non militare) e che oggi nel Mezzogiorno ha il potere amministrativo. Il personaggio di Eliseo Arraffa arraffa è il simbolo di questo tessuto.
D. Immagino che prima di passare alla stesura de La Fontana di Bellerofonte abbia avuto modo di confrontarsi con altri storici sugli argomenti che avrebbe trattato. Ha trovato divergenze rispetto alla sua visione di quel preciso momento insurrezionale?
R. No, non mi sono confrontato con gli storici prima della stesura del romanzo. Dopo mi è capitato di parlarne con alcuni di essi e l’unica divergenza ha riguardato la mia ipotesi che il decennio francese nel Regno di Napoli abbia indirettamente preparato l’humus per quella che dopo l’Unità sarebbe diventata la questione meridionale. Ma qui il discorso diventerebbe troppo tecnico.
D. Dopo il successo di questo romanzo e il conferimento di un prezioso Premio che la conferma scrittore, già al suo primo romanzo, ha in mente un altro libro per il prossimo futuro?
R. Ho una certa età, ma, se le forze fisiche e psichiche non mi abbandoneranno troppo presto, mi piacerebbe completare una trilogia con i moti del 1848 e con l’Unità del 1861, appunto.
Aspettiamo allora il suo prossimo lavoro, grazie per la sua collaborazione.
Eleonora Davide
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