Quel maledetto 2020. Il racconto di Antonietta Urciuoli

La signora Matilde spesso veniva ricoverata in ospedale per la sua cagionevole salute, dovuta anche alla sua veneranda età di ottantenne. Vedova da un ventennio, viveva nella sua casetta ricca di ricordi. Veniva assistita da una giovane badante di nome Tania che, sin dall’inizio, Matilde aveva accolto come una persona di famiglia. La protagonista di questo racconto aveva tre figlie: Giovanna, Francesca e Carla. Le prime due figlie le avevano fatto un regalo grandissimo, facendola diventare nonna di cinque meravigliosi nipoti. Matilde era una donna che nella sua vita ne aveva viste di cotte e di crude. Aveva tanto sofferto e con grande sacrificio aveva cresciuto le sue figlie. Una notte si sentì male. Dopo alcune ore di risvegliò in un luogo strano.

«Dove sono? Dove sono le mie figlie? Chi mi ha portato qui tra tanta sofferenza?» Queste domande senza risposte affollavano la sua mente frastornata. Matilde aveva tanta paura. Intorno a lei c’era solo ed esclusivamente caos. Vedeva medici e infermieri vestiti in modo strano, le sembravano palombari. I loro occhi erano coperti da enormi visiere. Avevano tute e guanti e si muovevano freneticamente. Spostavano i pazienti da un posto all’altro. Alcuni ammalati venivano portati fuori e non tornavano più. Matilde era stata più volte in ospedale, ma tutto era stato diverso. Non c’era stata tanta confusione e, soprattutto, tanta gente accalcata. Si guardò intorno e si meravigliò nel vedere che non ci fosse nessun parente. Faceva fatica a respirare e lancinanti dolori le opprimevano il torace. Quasi tutti i pazienti come lei portavano l’ossigeno, mentre altri avevano un casco che copriva testa e viso. Quanto terrore c’era nella protagonista di questo racconto nel vedere quei compagni di sventura. Il suo cuore batteva a cento all’ora e i suoi piccoli occhi erano pieni di sgomento. Come aveva sempre fatto in tutta la sua vita, anche questa volta si rivolse alla Vergine Maria dicendoLe: «Madonnina mia, Ti prego! Allevia le sofferenze di tutti noi e accoglimi, al più presto, tra le Tue braccia. Ti supplico, non farmi mettere quel casco perché soffro di claustrofobia. Solo Tu, o Vergine, puoi aiutarmi. In Te confido!»

Gli ultimi giorni di Matilde furono i più tremendi della sua vita. Lei, che aveva visto la guerra, che aveva superato il terremoto del 1980, lei, che era stata sempre tanto forte, adesso vacillava. Tremava come una foglia e la paura predominava nella sua testa ormai tanto stanca.

Si ritrovò come bimba spaventata nel bosco in preda al buio fitto e all’ululato dei lupi. La sua mente era confusa e si sentiva abbandonata a se stessa. Quante brutte cose vide l’ultraottantenne senza poterle comprendere. Passato e presente si alternavano confondendola maggiormente. Con l’aumento della temperatura, cominciò a delirare cercando la sua famiglia. Dentro di lei chiamò Giovanna, Francesca, Carla e tutte le persone a lei tanto care. Le vedeva le sue care figlie intorno al suo letto. Esse erano state i suoi gioielli più preziosi e la gioia più grande della sua vita. Per esse aveva sperato una vita migliore della sua. Quante volte di sera aveva mangiato pane e noci o solo un bicchiere di latte per farle studiare. Come tutte le mamme, dopo averle messe al mondo, aveva scelto per esse, convinta di fare solo ed esclusivamente il loro bene. Senza rendersene conto, aveva commesso tanti errori. Quante volte aveva detto tra sé Ognuno di noi dovrebbe avere due vite Una per sbagliare e l’altra per cercare di fare meglio. Quanta saggezza aveva accumulato negli ultimi anni. Questa l’aveva portata ad apprezzare tanto il silenzio che, ora più che mai, l’avvolgeva completamente. Matilde viveva il suo dramma senza sapere che cosa stava succedendo. Lei era all’ oscuro di tutto e non sapeva di aver contratto un virus invisibile chiamato Covid che nel giro di pochi mesi aveva messo in ginocchio non solo l’Italia ma tutto il mondo.

Tutto era cominciato in Cina e poi l’Italia era stata la prima Nazione a dover affrontare questa pandemia che mieteva vittime a centinaia. Gli italiani nel marzo del 2020 erano stati costretti a restare a casa nel tentativo di fermare il contagio.

Per quelle famiglie dove regnava ancora l’amore tra i coniugi non fu difficile. Si armarono di santa pazienza e con buon senso, spirito di sacrificio affrontarono difficili giorni che avrebbero lasciato un segno indelebile nella loro mente. Per Francesca, in quei terribili 57 giorni di chiusura forzata, le mura domestiche cominciarono a soffocarla. Si sentiva un uccello in gabbia a cui erano state tarpate le ali. Il rapporto con Marco che già da tempo vacillava, divenne insopportabile.

Restare con lui l’intera giornata era un vero incubo. Vederlo girare per casa, sentirlo sempre brontolare dalla mattina alla sera era davvero insopportabile. Eppure l’uomo con cui viveva da anni l’aveva conosciuto a 15 anni e si era subito innamorata di lui. Frequentavano il liceo classico e stavano nella stessa sezione. Era romantico, sensibile, amorevole. In ogni occasione la omaggiava di fiori e piccole attenzioni. Terminati gli studi si sposarono. Col passare degli anni, la dolcezza, l’amore di Marco si trasformò in ossessione a causa della gelosia. Il rapporto tra i due peggiorò e i tre figli avuti furono sempre spettatori di continui litigi. Francesca, durante il lockdown, continuò a subire umiliazioni. Divenne il bersaglio su cui Marco schioccava le sue frecce avvelenate. A causa del Covid entrambi lavoravano con lo smartphone e, poi, c’erano i bambini da aiutare con la scuola a distanza. A Francesca sembrò di impazzire. Spesso veniva colta da attacchi di panico che la terrorizzavano. Avvertiva sensi di smarrimento, le mancava l’aria, si sentiva morire. Per il bene dei suoi figli cercava di superare le crisi perché sapeva bene che era sola e doveva reagire. Non poteva contare sull’aiuto di nessuno. Spesso veniva presa da sensi di colpa; pensando alla sua mamma in ospedale avvertiva un macigno sul cuore che le toglieva il respiro. Le sue sorelle Carla e Giovanna cercavano di tranquillizzarla, ma conoscevano la sua situazione e i danni che aveva provocato Marco. Carla aveva sin dal primo momento cercato di avere notizie della mamma. Un mattino si era recata in ospedale ma non l’avevano fatta entrare. Un giovane soldato l’aveva invitata a tornare a casa. Tra le lacrime e come cane bastonato rincasò. Per ore andò avanti e indietro, come una forsennata, passando da una camera all’altra rivedendo la scritta a lettere cubitali “Siete i nostri eroi”. Era stata dedicata a tutti gli operatori sanitari che mettevano a repentaglio la loro vita per salvare quella degli altri. Rivedeva il cartellone con l’infermiera che abbracciava l’Italia. Lei in quel momento e sempre avrebbe voluto abbracciare tanto sua madre che non vedeva da quella maledetta notte. Le lacrime scivolavano da sole.

Angela, la dottoressa del reparto Covid, dove da giorni cercava di salvare i suoi malati, non riuscì proprio a trattenerle. Queste ultime sgorgavano dal cuore, spontaneamente, come un’esplosione che frantuma tutto in un istante. Erano troppi giorni che lottava con se stessa.

Da pochi anni era stata assunta in quell’ospedale, ma l’esperienza che aveva accumulato con il precariato era tanta. Viveva da sola perché, a causa del suo lavoro, aveva dovuto lasciare i suoi cari che abitavano in un paesino della Campania. Erano giorni che, quando rincasava, strada facendo, scoppiava in lacrime, proprio come una bambina. Durante il servizio accumulava tantissima tensione e i turni erano massacranti per mancanza di personale. Vedeva tanta, anzi troppa, sofferenza. Per la prima volta, insieme ai suoi colleghi, si era trovata ad affrontare una pandemia. Le sue lacrime erano liberatorie. Guidava automaticamente, mentre nella sua mente si susseguivano volti di colleghi che si erano ammalati e di quelli che non ce l’avevano fatta. Rivedeva il suo reparto, i suoi malati. Ogni giorno avrebbe dovuto scegliere chi si e chi no. Questa crudele, inconcepibile, orribile decisione le graffiava l’anima. Distrutta nel fisico e nella mente gridava dentro di sé:  Chi sono io? Perché devo scegliere? Non sono pezzi. Sono esseri umani, con le loro storie scritte nelle pagine del mondo. Una volta giunta a casa, la prima cosa che faceva era starsene sotto la doccia più del solito. L’acqua calda scorreva come un acquazzone su quel corpo stanchissimo, su quel viso che portava incisi i segni della mascherina e della visiera. Poiché viveva da sola, la sua mente non faceva altro che riportarla in ospedale. Mentre cenava, riascoltava le parole altisonanti del primario quando, sin dall’inizio, aveva ordinato: «I letti in Sala Rianimazione sono pochi. Date la precedenza ai più giovani». Queste parole risuonavano nella sua testa, la terrorizzavano enormemente.

Quel mattino di dicembre prese servizio all’alba. Dopo aver messo la tuta, i guanti e tutto l’occorrente per non contagiarsi e non contagiare, entrò nel reparto. Quando si avvicinò al letto di Matilde, guardò il saturimetro. La paziente doveva essere urgentemente intubata. Angela sapeva benissimo che non poteva aiutarla. Si sentì impotente. Guardò i capelli bianchi come neve di Matilde e i suoi occhi terrorizzati che chiedevano aiuto. Angela, senza rendersene conto, scappò via. Percorse il lungo corridoio pieno di malati, aprì una porta senza nemmeno bussare, entrò. Dietro la scrivania c’era la psicologa dell’ospedale che da mesi era di supporto agli operatori sanitari. Senza chiedere il permesso, Angela si sedette e cominciò a gridare: «Ornella…. Ornella! Ti rendi conto di quello che stiamo facendo! Stiamo scegliendo privandoci della migliore generazione. Quella che si è sacrificata per ricostruire il Paese e permettere a tutti noi la vita che facciamo. Essi volevano solo ed esclusivamente invecchiare serenamente e, all’occorrenza, essere accuditi con amore. Li stiamo facendo morire da soli, privandoli anche dell’affetto dei loro cari. Ornella sono stanca! E’ troppo! E’ Troppo!» Ornella la lasciò gridare, la lasciò piangere. L’ascoltò senza interromperla. Poi si alzò dalla poltrona e, cautamente, le si avvicinò. Poiché avevano frequentato la stessa università ed erano amiche, le tolse la visiera, dolcemente le asciugò le lacrime e l’accarezzò.

Dopo alcuni minuti si ritrovarono l’una nelle braccia dell’altra. In quella stretta c’erano tante parole non dette e tante risposte non pronunciate. Con l’aiuto di Ornella, Angela poté ritornare nel reparto trasformato da mesi in un campo di battaglia. Intanto Matilde aveva lasciato il mondo. A lei e ai suoi coetanei non era stata data un’ultima chance per colpa di tutti quei politici che per decenni avevano tagliato i costi della sanità.

La figlia Carla prese un foglio di carta è incominciò a scrivere:

MAMMA, AVREI VOLUTO STRINGERE LA TUA MANO

E TROVARE QUELLA FORZA NECESSARIA

PER AIUTARTI A SUPERARE QUELL’INVALICABILE

TETRO MURO PER POTERTI COSI’ VEDERE,

ACQUIETARTI DOLCEMENTE MENTRE TI

SPEGNEVI, CHIUDENDO SERENAMENTE LE TUE PALPEBRE,

SOGNANDO COSI’, SODDISFATTA, DI ESSERE

LIBERA DA TUTTE QUELLE INUTILI

COSE DELL’ESISTENZA.

MADRE, NON E’ STATA COLPA MIA,

PERDONAMI, NON MI HANNO

PERMESSO DI ESAUDIRE QUEL TUO

DESIDERIO DI STRINGERTI

FORTEMENTE LA MANO. COSI’,

COME MI AVEVI CHIESTO DI FARE.

SOLO QUANDO HO VISTO

TRANSITARE QUELLA LUNGA E

INTERMINABILE COLONNA DI CAMION,

HO ACCUSATO UNA LACERANTE

FITTA AL CUORE, E, SOLO ALLORA, HO CAPITO

CHE TI STAVANO PORTANDO VIA.

ORA NON SO, NEMMENO DOVE

TI HANNO PORTATO E COLLOCATO,

SO SOLO CHE SEI TRA TUTTI

COLORO CHE, COME TE, NON

HANNO POTUTO AVERE QUELLA

DEGNA E MERITATA SEPOLTURA

ED ANCHE PRIVATI DI QUELLA

CRISTIANA BENEDIZIONE.

CON IL CUORE INFRANTO, ANGOSCIATA

ED ANCORA INCREDULA,

DAI MIEI OCCHI SGORGANO

SOLO LACRIME DI DOLORE,

LASCIANDO NEL MIO CUORE

UN SOLCO INCOLMABILE.

ADDIO MADRE, SEI E SARAI SEMPRE CON ME.

Antonietta Urciuoli

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