Rivisitare le province. Il Focus di Giuseppe Rocco

La disputa infuria da qualche anno sull’utilità delle province, speso ignorando l’architettura che la Costituzione italiana ha delineato per la nostra Nazione. Vediamo di far chiarezza per consentire ai lettori di poter individuare il ruolo e la potenzialità di un istituto prezioso al servizio del popolo.

La provincia è un’entità geografica che rappresenta le caratterizzazioni del territorio. Ogni circoscrizione provinciale esprime una sua tradizione, un proprio linguaggio, una base culturale. Bologna e Ferrara sono ambedue in Emilia e pure territori limitrofi, ma sono un tantino diverse ed è suggestivo poter tenere in vita le peculiarità. Altrettanto Cosenza e Reggio Calabria sono province della stessa regione, ma esprimono tendenze lievemente diverse. In altre parole la differenza territoriale sta nelle province e non nelle regioni, o ancor meglio, le province rappresentano l’identità territoriale e le zone sono il riferimento della zona. Cancellare la provincia vuol dire annientare un patrimonio etico e culturale di grande prestigio.

L’istituzione delle province risale al 1859 con il Regno Sabaudo, sulla scia di rimembranze dell’organizzazione amministrativa napoleonica. Nel 1946, i padri costituenti la inseriscono a pieno titolo negli enti pubblici. Dal 2014 cominciano i primi malumori per ridurre la spesa pubblica e giungono alla infelice decisione di abolizione, dimenticando le vere ragioni della spesa pubblica. Con la legge Delrio si elimina l’elezione del presidente e del consiglio provinciale da parte del corpo elettorale; sono votati dal sindaco e dai consiglieri comunali della provincia.

La provincia gestiva la rete stradale, le scuole, l’ambiente, la salute mentale, ecc. Dal quel momento si assiste ad un guazzabuglio di proposte ed idee, che creano soltanto disordine nella Pubblica amministrazione. Alla sua abolizione ha votato contro soltanto la lega, dimostrando una percezione profonda delle modalità pubbliche.

Ormai è divenuto un luogo comune l’abolizione delle Province, comprensibile per l’uomo della strada ma inspiegabile per un politico, giornalista o comunque un uomo di cultura giuridica. La Provincia rientra in quel modello di razionale e geniale amministrazione napoleonica, ripreso saggiamente dalla Costituzione italiana.

L’organismo in parola è un’entità provinciale, che dimostra un suo effettivo potenziale per l’identificazione territoriale: Prefettura, Camera di commercio, targa automobilistica, indicazioni geografiche. Forse il problema sta nella scarsa utilizzazione e nell’arida gestione del sistema e pure nell’aumento smisurato del numero degli enti; ma andiamo al nucleo del problema. La soppressione tout court non vuol dire risparmio in toto delle strutture, del personale e delle competenze: personale e competenze vanno trasferiti alla regione e quindi assistiamo ad una semplice traslazione di spese.

La cosa più grave – che resta inosservata – è un’altra, cioè che in mancanza della Provincia, la Regione deve costituire un ente intermedio che i rapporti con i Comuni e i cittadini. Sono state abolite nel 2014, ma nel 2016 il referendum costituzionale le ha confermate. Nelle Regioni a statuto speciale Sicilia, Friuli Venezia Giulia e Sardegna, intanto, è il caos. Ne parla il reportage di Bernardo Iovene a “Report”, in onda lunedì 4 maggio 2020, alle 21.20 su Rai3. In Sicilia ci sono i Liberi Consorzi Comunali commissariati dal 2012. In Friuli Venezia Giulia, abolite le province, sono state istituite 18 Unioni Territoriali Intercomunali, poi abolite dalla giunta leghista per istituire gli EDR, Enti di decentramento regionale. In Sardegna le Province erano quattro, poi diventarono otto, un referendum le ha ridotte di nuovo a quattro, ma attualmente sono cinque, più un’area omogenea. La confusione regna anche nelle Regioni ordinarie dove per dieci anni sono state sottratte risorse mettendo in ginocchio un ente che ha abbandonato a sé stesse 130 mila chilometri di strade e la manutenzione di 7000 scuole. La Regione Lombardia pensa alla creazione di cantoni in sostituzione delle Province; il Piemonte all’utilizzo di strutture denominate “Quadranti funzionali”, l’Emilia Romagna coltiva l’idea delle nuove Province, quattro anziché nove.

L’esigenza di enti intermedi, sentita dalle Regioni, dimostra l’errore grossolano commesso nella parziale abolizione. Inoltre va precisato che eventuali nuovi enti strumentali non saranno più garantiti dalla Costituzione ma da leggi regionali certamente disarmoniche fra di loro. Inoltre la spesa sarà elevata, tenendo conto della gestione dissennata dimostrata dalle Regioni.

Il viaggio di Bernardo Iovene, su Report, in tutte le Regioni e Province, che ha ripercorso il dossier “Province terra di nessuno”, elaborato da Openpolis in collaborazione con Report, raccoglie la denuncia di sindaci e degli amministratori che unanimemente invocano il ritorno alla vecchia provincia con le elezioni dirette degli organi politici. Ne consegue che anziché aver un risparmio si avrà uno spreco, un maggiore disordine organizzativo e una mancanza di chiarezza non avendo il  riferimento alla Costituzione. Il problema non è la Provincia, ma la Regione che genera eccessive spese di consulenza, macchine blu e creazione di Comitati. Su questi ultimi enti bisogni effettuare dei tagli consistenti.

La Provincia invece va ristrutturata, razionalizzata e potenziata, assegnando compiti importanti ben definiti, quali:

  • organizzazione delle strutture ospedaliere, nell’ambito del programma regionale;
  • rilancio delle cure psichiatriche, mediante istituti di recupero degli ammalati mentali (svolgimento di attività ludiche, ricreative e occupazionali);
  • affidamento delle strutture sanitarie, ora svolte dalla Ausl;
  • maggiori compiti e ben definiti nella gestione dei rifiuti (monitoraggio, recupero, smaltimento, ecc.) e attribuzioni della componente ecologica e ambientale;
  • acquisizione dei compiti delle Comunità montane e aree metropolitane, vere e proprie istituzioni inconsistenti e inefficaci.

Nella dimensione provinciale non si può dimenticare l’unico ente territoriale in materia economica, la Camera di commercio. Il ridimensionamento di questo ente, voluto dal governo Renzi con la riduzione delle entrate, è stato un errore grossolano, poiché esso opera squisitamente nell’economia locale e appare un freno alle traiettorie di sviluppo, in un momento storico in cui il settore merita uno slancio di grosse dimensioni.

Va rammentato che ogni intervento dell’Ente camerale conta sulle potenzialità del tessuto locale, che si presenta alquanto vitale poiché fa affidamento su una spinta endogena volta alla continua germinazione delle attività produttive, nel senso che all’interno delle dinamiche di trasformazione, la fenomenologia del sistema socio-economico riesce ad attivare le proprie energie imprenditoriali. La Camera di commercio svolge il ruolo di fulcro dell’economia provinciale, sia in quanto rappresenta il nucleo intimamente vitale di una tradizione nella quale si riconoscono le categorie imprenditoriali e sia perché si configura l’espressione diretta del tessuto produttivo locale.

Nel contempo l’Ente assume rilievo di convergenza fra istanze locali delle categorie economiche e finalità pubbliche, quasi a suggellare un momento di mediazione fra impresa ed organi statuali. Così si determina una felice simbiosi tra esigenza pubblica ed interesse privato. Le funzioni della Camera di commercio e l’efficacia della sua azione nascono su questa dialettica, da una parte evitando di conferire crisma di pubblicità all’associazionismo privato e dall’altra frenando pressioni tendenti a canalizzare le strutture rappresentative di interessi al servizio di obiettivi estranei ai comparti produttivi.

Le Camere di commercio svolgono una importante funzione di stimolo all’impiego delle risorse locali; contano su una indubbia potenzialità di sinergie tra le tecniche amministrative e funzioni di promozione e di servizi; in quanto proiezioni di un substrato economico, sono chiamate ad esercitare una sintesi preziosa nel territorio locale.

Cerchiamo di capire dove si annida la spesa pubblica, senza freni. Mi riferisco alle Regioni. Queste sono state sublimate ed enfatizzate dai vari politici. A loro sono state conferite attribuzioni di varia natura, al punto da farle divenire degli Stati nello Stato. La complessità e la eccessiva autonomia nella gestione hanno negli anni alimentato una spesa enorme, non paragonabile alle funzioni ed ai servizi erogati. Una visione attuale potrebbe essere giustificata in un assetto confederale, dovuto alle diversità delle popolazioni o al primo stadio di unificazione di una Nazione. L’Italia può vantare un popolo eterogeneo ma di simili costumi e pertanto non appare giustificata una composizione federale, soprattutto se la gestione comporta uno spreco enorme di energie, amministrata da organi pletorici. Tuttavia prescindendo dalle spese, resta una connotazione promiscua poco efficiente: le scuole aprono in giorni diversi, la caccia inizia in giorni diversi, e via di seguito. Se vogliamo sanare le finanze pubbliche e se vogliamo consacrare l’uniformità delle regole, dobbiamo ridurre il peso politico ed autonomo delle Regioni, anziché pensare ad altre istituzioni. Anzi occorre ridurre le competenze in materia di commercio estero, distribuzione di energia, trasporti e turismo, a beneficio dello Stato. In verità una lieve riduzione è stata apportata in materia di commercio estero e nella distribuzione di energia: ben poco per quanto riguarda le materie, ma bisogna intaccare il potere enorme quasi a livello statuale di cui dispongono oggi.

Senza contare la presenza di Regioni a statuto speciale, le quali hanno un sapore anacronistico, accettabile nel secondo dopoguerra per armonizzare il territorio. Ormai la televisione, il turismo, il movimento continuo nelle diverse zone, ha superato i motivi che avevano indotto il Legislatore a considerarne alcune speciali.

Finalmente in questi giorni si torna a parlare di Provincia, tra la sorpresa generale e le frecciate degli oppositori, i quali non riescono a comprendere la dimensione pubblica di questo glorioso istituto. Si spera soltanto che si prosegua in questa direzione, per riportare in Italia un’architettura benevolmente congegnata nel sistema organizzativo.

©Riproduzione riservata

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About Giuseppe Rocco

Esperto di commercio estero. Vice Segretario generale della Camera di commercio di Bologna sino al 31.1.2007; Docente esterno presso l’Università di Bologna, Istituto Economico della Facoltà di Scienze politiche, in qualità di cultore dal 1990 al 2006, di “Istituzioni Economiche Internazionali” e in aggiunta dal 2002 al 2006 di “Diritti umani”; Pubblicista iscritto all’Albo dei Giornalisti dal 1985; 450 articoli per 23 testate nazionali; in particolare consulente del Il Resto del Carlino, in materia di Commercio internazionale, dal 1991 al 1995; Saggista ed autore di 53 libri scientifici ed economici; Membro del Consiglio di Amministrazione del Centergross dal 1993 al 2007;Membro del Collegio dei periti doganali regionali E. Romagna, per dirimere controverse fra Dogana ed operatori economici dal 1996 al 2000, con specificità sull’Origine della merce.