Uno sguardo sul mercato economico. Il focus di Giuseppe Rocco

L’economia è sorta dai tempi del baratto, per porre l’uomo in condizioni di entrare in possesso di un bene scambiandolo con un altro bene. Il mercato economico esiste dall’epoca dei mercanti, che vagano per le strade nell’intento di offrire i propri prodotti, urlando la loro presenza per richiamare le massaie.

Nella genesi imprenditoriale, e quindi economica, si assume come base di partenza storica italica il periodo di Re Numa, in cui gli artigiani e i mercanti iniziano a svolgere le loro attività. In verità il ricordo attiene alla nascita dei “Collegia opificum e Collegia mercatorum”, in rappresentanza degli artigiani e dei commercianti. Le corporazioni di arti e mestieri fioriscono nel Medio Evo, con una certa influenza nella vita dei liberi Comuni italiani, partecipando direttamente alla vita pubblica. Il guizzo produttivo primordiale di tali operatori economici determina la nascita delle Camere di commercio, quegli Enti conosciuti e operanti nell’economia territoriale, anche se dissennatamente il Governo Renzi ne ha ridotto la portata.

Dal mercante lo scambio si è evoluto, con l’avvento del negozio, il quale immagazzina prodotti all’ingrosso per venderli al minuto. Infine sono apparsi sulla scena i supermercati, per rispondere alla necessità di sintesi della vendita. Ora quando parliamo di mercato, intendiamo un flusso enorme di prodotti che si scambiano vicendevolmente fra imprese di diverse Nazioni, in un intreccio sofisticato che ha fatto nascere il commercio con l’estero.

La rivoluzione industriale si articola in tre fasi: la prima con un potere industriale e politico che si afferma con una sovranità di colonie; la seconda penetra nell’anima attraverso immagini, cinema e giornali; la terza arriva nel XX secolo ed è quella nucleare ed elettronica, considerata terza cultura o cultura di massa; si annuncia pure una quarta rivoluzione industriale con l’avvento del terzo millennio, in cui le tecnologie sono convertenti con l’unione di robotica, genomica e intelligenza artificiale.

Nel contesto dello Stato liberale, i paesi in via di sviluppo (come l’Italia del 1879) accrescono l’estensione degli interventi pubblici, per contenere le difficoltà della borghesia che incontra tre ostacoli: la depressione latente, l’affermazione del movimento operaio, la concorrenza internazionale. Questo triplice ordine di fattori stimola la concentrazione monopolistica, l’imperialismo, il protezionismo doganale, le riforme sociali. L’Italia unificata si muove sulla scia della politica conservatrice prussiana, soprattutto concentrandosi sul protezionismo doganale. L’indirizzo conservatore, anziché imperialista, viene rivolto all’interno della Nazione, contando sul punto di forza costituito dalla proprietà terriera.

Abbiamo aziende che producono le derrate sulla terra, aziende che trasformano materie prime in prodotti finiti, aziende che estraggono minerali dal terreno: tutte imprese di produzione che si adoperano a rifornire aziende distributive, che a loro volta alimentano le famiglie in cambio del pagamento del prezzo.

Dal punto di vista imprenditoriale, Karl Marx si concentra sulla parte economica, ossia sul materialismo storico. Per Marx l’economia è la struttura della società; la filosofia, le scienze, la religione, l’arte, la scuola, ecc. sono la parte che compone la sovrastruttura. Marx sa bene che le sovrastrutture sono sopra elevate, ma crede che il processo parta dal basso, cioè dall’economia e dal lavoro. Altro imponente filosofo, Max Weber, accetta il pensiero di Marx ma lo considera unilaterale poiché va aggiunta l’influenza di natura etica. Abbandonato il determinismo economico, Weber verifica che i primi capitalisti sono protestanti, in particolare calvinisti, i quali sono attratti dall’ascetismo mondano. I primi capitalisti assumono le vesti di asceti e si sottopongono a qualsiasi rinuncia pur di riuscire nel lavoro. Poste queste premesse in quanto il capitalismo è un fenomeno moderno, nato nel Rinascimento, l’argomento ci conduce all’economia reale, ossia alla produzione dei beni.[1]

Le attività economiche sono connesse e, se un comparto subisce un danno, questo influisce negativamente su tutti gli altri e danneggia il sistema ordinato degli scambi. Un Paese può divenire prospero soltanto se gli scambi avvengono in un modo sincronizzato, in cui tutte le attività sono complementari quanto le parti di un meccanismo a orologeria.

Adam Smith è il primo e unico autore a porre tanta enfasi sulla divisione del lavoro, come principio della ricchezza nazionale. Con questa tesi vuole stabilire il proprio principio della prosperità e contrastare quello mercantilistico del surplus nella bilancia commerciale. Adam Smith sviluppa la teoria economica del “laissez faire“, già avanzata dai fisiocratici nel settore agricolo, estendendola a tutti i settori economici. Propone di limitare l’intervento pubblico in economia, lasciando al mercato il compito di risolvere i problemi economici. Secondo l’insigne economista, ogni operatore economico privato persegue il proprio guadagno personale e, come guidati da una “mano invisibile“, le scelte individuali per la ricerca del guadagno personale conducono indirettamente al benessere sociale e generale dell’economia Non è, quindi, necessario alcun intervento pubblico da parte dei governi.

In una economia normale i fattori in campo sono variegati. Ogni tendenza, ogni moda, ogni evento, ogni egemonia culturale, ogni intervento pubblico sono tutti elementi che possono incoraggiare o frenare un comparto o tutta la gamma produttiva. Basta una nuova azienda per favorire un territorio: assistiamo a quel fenomeno economico “denominato moltiplicatore”, in base al quale ogni balzo in avanti del tenore di vita finisce con l’innescare un intreccio di stimoli. Una fucina che assume venti dipendenti, non solo offre lavoro a questi individui, ma incoraggia la prosperità del territorio, poiché i venti assunti acquisteranno più pizze, più scarpe, più giornali, ecc., in una girandola di elevazione generale della comunità locale.

La lotta di classe è la lotta del proletariato che, esattamente come nello sviluppo della dialettica servo-signore, si emancipa e lotta contro il padrone che è la borghesia. In questa visione (dialettica signoria-servitù), il lavoro aveva la funzione di formazione e quindi dava la possibilità al servo di prendere coscienza di se stesso: il servo capiva che non era lui a dipendere dal padrone, ma che era il padrone a dipendere da lui e scappa, e diventa libero creando problemi al padrone. Col passaggio dall’agricoltura all’industria, si assiste alla violenza del capitale, in quanto il proletario svolge la ripetizione dello stesso movimento e della stessa procedura nella quale l’uomo esce da se stesso e si fa alieno da se stesso. Inoltre ad abundantiam il lavoro, che viene ridotto a semplice fattore produttivo, diventa alienante, facendo uscire l’uomo da se stesso e allontanandolo dalla sua stessa natura. In questa tipologia di lavoro non si rintraccia nessun atto creativo, in quanto vi è la ripetizione, es. stringere un bullone alla volta, tale da essere sostituito da una macchina.

Marx introduce il feticismo della merce, la quale viene prodotta per attrarre l’essenza dell’altro e cioè il suo denaro. Nel momento in cui i lavoratori si alienano da se stessi e perdono il senso del proprio lavoro e della propria produzione, la merce diventa qualcosa più distante e non è più l’elemento che unisce il rapporto dialettico: la merce diventa un feticcio. In tale intreccio si perde l’identità tra soggetto e oggetto e quindi si avverte il carattere idolatrico. In altre parole l’uomo da soggetto diventa oggetto, avviando quel processo di alienazione e di suggello di “surrogazione della merce”.

Per far scivolare il concetto ai tempi nostri, osserviamo che il capitalismo diventa una divinità che dispone dei suoi templi, nella fattispecie la Borsa valori, digitalizzata e artefatta, con i suoi sacerdoti, quali operatori finanziari; che esprime una propria trascendenza con il mercato, sacrificando i valori esistenti, quali la famiglia. A complicare la strategia, Marx aggiunge che se la ricchezza della società declina, l’operaio ne soffre maggiormente; se aumentano i capitali aumentano le risorse per il padrone. Avvertiamo un circolo vizioso, in cui il proletario è alla mercé del capitale. La disumanizzazione, la parcellizzazione, la divisione del lavoro nel quale lo stringere quel bullone ha un valore esprimibile in termini monetari ma non ha alcuna rilevanza che sia uno o l’altro a stringere il bullone, trasforma quel lavoro in merce.

L’Italia è un Paese di conquista per le multinazionali estere. Dal 2013 la crescita è stata del 3%, con un aumento degli occupati pari al 4,7%. A mettere piede in Italia sono soprattutto imprese dell’Unione europea, ma subito dopo sono gli Stati Uniti ad arrivare nel Bel Paese. Rispetto al 2013, il numero di controllate estere in Italia cresce di 404 unità. Al netto dei servizi finanziari, il loro fatturato è intorno ai 524 miliardi (+6,2%) mentre il valore aggiunto è di quasi 97 miliardi (+5,1%).
Operano nel settore dei servizi, mentre nell’industria è il settore farmaceutico il più gettonato. E a differenza di quanto si potrebbe pensare il costo unitario del lavoro delle multinazionali estere appare più elevato rispetto alle imprese a controllo nazionale, sia nell’industria che nei servizi. Una differenza però determinata più dalla grande dimensione delle imprese che sbarcano in Italia rispetto a quelle nazionali, più ridotte. Nel 2014, al netto dei servizi finanziari, le imprese italiane che hanno tentato la via dell’estero hanno fatturato circa il 15,2% di quello complessivamente prodotto dalle imprese nazionali. Una quota che sale al 18,7% al netto degli acquisiti di beni e servizi. La strada dell’estero dunque è in crescita per le controllate italiane più nei servizi non finanziari (12.477) piuttosto che nell’industria (8.501). Le performance positive arrivano dalla fabbricazione di mobili e di altre industre manifatturiere.

Le grandi aziende italiane che hanno preso la via dell’estero lo hanno fatto per lo più (82,2%) nel periodo 2015-2016 per accedere a nuovi mercati. Ma altri due fattori sono determinanti per varcare le Alpi, l’aumento della qualità/sviluppo di nuovi prodotti, così come l’accesso a nuove conoscenze o competenze tecniche specializzate.
            


[1] Economia reale è la branca di produzione dei beni tangibili ed è costituita da un insieme di attività eticamente superiori, volte ad accrescere il benessere materiale e a nobilitare i singoli attraverso il lavoro. La finanza appare invece eticamente ed ontologicamente spregevole, in quanto succhia il sangue dei produttori per ingrassare cinici esattori di metaforici pedaggi, propala informazioni distorte, distrae le forze migliori dalla produzione di oggetti utili per attrarli in luoghi di perdizione, come le banche e i mercati finanziari.

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About Giuseppe Rocco

Esperto di commercio estero. Vice Segretario generale della Camera di commercio di Bologna sino al 31.1.2007; Docente esterno presso l’Università di Bologna, Istituto Economico della Facoltà di Scienze politiche, in qualità di cultore dal 1990 al 2006, di “Istituzioni Economiche Internazionali” e in aggiunta dal 2002 al 2006 di “Diritti umani”; Pubblicista iscritto all’Albo dei Giornalisti dal 1985; 450 articoli per 23 testate nazionali; in particolare consulente del Il Resto del Carlino, in materia di Commercio internazionale, dal 1991 al 1995; Saggista ed autore di 53 libri scientifici ed economici; Membro del Consiglio di Amministrazione del Centergross dal 1993 al 2007;Membro del Collegio dei periti doganali regionali E. Romagna, per dirimere controverse fra Dogana ed operatori economici dal 1996 al 2000, con specificità sull’Origine della merce.