Quando a Venezia si profumavano le monete. Parte terza
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Imbiondire i cappelli
Quella di imbiondire le chiome era un’usanza molto diffusa tra le donne veneziane di ogni ceto che affrontavano lunghe e spossanti sedute sotto il sole per riuscire nell’intento. Per garantirsi la migliore insolazione, chi poteva sfruttava le “altane”, sorta di terrazze in legno erette sopra i tetti dei palazzi.
Indossato lo “schiavonetto”, cioè una vestaglia per proteggere l’abito, e accomodate su un seggiolone in pieno sole, le dame si calcavano in testa la “solana”, un grande cappello di paglia privo di cupola in modo che i capelli fuoriuscissero adagiandosi sulle larghe tese. Serviva anche a proteggere il volto dai raggi del sole perché la carnagione rimanesse bianca. Poi con l’aiuto di una spugnetta si inumidivano i capelli innumerevoli volte e con diverse acque a base di cenere, guscio d’uovo, scorza d’arancio, zolfo, camomilla e chissà cos’altro. Le tese della solana proteggevano pure il volto da eventuali schizzi delle misture.
Il sapone
Venezia era stata una delle prime realtà a raffinarlo in prodotto cosmetico e gli artigiani dediti a questa lavorazione si erano consorziati nell’immancabile corporazione dei “saoneri”. Nel corso del ‘500 erano state contate circa quaranta aziende e il comparto era balzato a particolare importanza per l’economia, tanto da essere paragonato a quello del vetro.
All’inizio il sapone era stato impiegato quasi esclusivamente per la produzione tessile e per ingrassare il cordame; in seguito la lavorazione era stata perfezionata con l’aggiunta di profumi per adibirlo a uso igienico.
Il “bianco veneziano” era talmente ricercato da essere addirittura oggetto di contraffazioni e conseguenti misure protezionistiche da parte del governo. Il mondo intero era pronto a pagare a peso d’oro i pani opportunamente bollati per certificarne l’origine. Tuttavia, nonostante le molte cautele, i segreti del suo processo di produzione erano sfuggiti di mano ai governanti e altri empori se ne erano appropriati, come Marsiglia e Savona. Erano città dedite alla produzione saponiera ancor prima della stessa Venezia, ma erano dovute ricorrere ai segreti carpiti ai “mastri saoneri” veneziani per raffinare le loro.
Altre perdite di significative quote di mercato erano avvenute per la concorrenza di Ancona, Gaeta e Gallipoli con costi di produzione inferiori a quelli veneziani grazie alla facile reperibilità in loco delle materie prime come ceneri e olio che, invece, a Venezia dovevano essere portate via mare. Soprattutto, il fabbisogno di quest’ultimo era rilevante nel processo di produzione del sapone migliore, costituendo circa un terzo del peso finale del prodotto.
Per lo più olio e ceneri d’importazione erano diventati oggetto di una pesante imposizione fiscale e si era arrivati al paradosso quando le lamentele erano piovute dai ranghi di quello stesso governo causa del male del quale ora si lagnava. Nel frattempo il numero dei saponifici era precipitato a soli diciassette, con quaranta caldaie attive e senza che si potesse intravedere una fine al declino.
In vista delle grandi nozze nelle stanze delle dame presto sarebbe stato tutto un lavorio di belletti e unguenti, tutto un tintinnare d’ampolle e rigirare di pestelli nei crateri. Ogni donna avrebbe dato il meglio per non sfigurare durante le cerimonie, che si preannunciavano tra le più fastose. Dopo le cure del corpo avrebbero sfoggiato le vesti più ricche, i gioielli più preziosi, le acconciature alla moda e tutto il repertorio che i Provveditori alle Pompe si affaccendavano invano a proibire. Poi si sarebbero cosparse dei profumi più ricercati e costosi, prodotti seguendo antiche ricette arrivate dal lontano Oriente.
Il Signore di Notte. Un giallo nella Venezia del 1605, romanzo di Gustavo Vitali (2020)
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