CREDERE PER VIVERE di Angela Lonardo

Peter era inginocchiato, tra i lucidi banchi, in una piccola chiesa di Pergola.

I capelli biondi e lisci gli ricadevano sulla fronte, carezzando appena le sopracciglia aggrottate.

Le fiammelle accese sulle candele, guizzanti nella penombra, sembravano ballerine saltellanti su di un muto carillon, mentre proiettavano ombre grottesche sulle statue di Gesù, di Santa Teresina, della Madonna col Bambino.

L’atmosfera, profumata d’incenso da poco diffuso, invitava alla meditazione.

Una donna impettita, col rosario tra le mani, moveva le labbra in un perpetuo mormorio senza espressione, rigirando la corona fra le dita.

Un prete fece la sua sbrigativa genuflessione, rivolgendosi all’altare, e poi sparì, dietro una porta che, forse, conduceva in sagrestia.

Che ci faceva Peter in quella chiesa di collina, lui che non era credente?

Non udiva e non vedeva nulla intorno a sé.  Era assorto nelle sue cupe riflessioni, mentre il tempo rimaneva immobile, fuori e dentro di lui. Tutto gli fluiva intorno, mentre un unico pensiero lo imprigionava nella gabbia della disperazione.

Peter che era scampato, con la sua famiglia, alla catastrofe di Černobyl’ attraversando, fortunosamente, la Slovacchia, l’Austria, l’Ungheria fino ad arrivare, tra avventure inimmaginabili, in Italia, per trovare rifugio e cure a Pisa, accolto dall’unico Ospedale che, in quegli anni, era attrezzato per la cura dei problemi tiroidei risultati a causa delle violente radiazioni assorbite.

Peter, ancora bambino, attaccato alla giacca del padre ogni volta che, con furgoni, autobus, treni presi al volo, viaggiavano, stipati come bestiame, per raggiungere il loro “Pай” della  guarigione.

Occhi muti e imploranti, fissi in quelli della madre che, sgomenta, non sapeva se avrebbe potuto salvare Peter e Karin, i suoi figli ancora piccoli che, mano nella mano, venivano proiettati nell’insicurezza del futuro, nelle scarse probabilità di trovare un posto dove andare.

I loro giochi perduti per sempre.

Ora Peter piangeva, sommessamente, inginocchiato in quel banco, nella penombra di una solitaria chiesa di collina e pensava a sua figlia Vladlena.

La sentenza del medico era stata inesorabile: fibrosi cistica.

Aveva chiesto a un amico italiano cosa fosse quella malattia ma Antonio non sapeva nulla di medicina.

Lo indirizzò dal dottor Marcello De Durante che lo accolse, bonariamente, nel suo studio, insieme alla bambina e a Eva, la giovane moglie, ridotta a uno spettro anoressico, cui erano rimasti solo gli occhi, grandissimi, a esprimere lo sgomento di quella notizia inattesa che scagliava sua figlia, la sua unica figlia, nell’abisso di un destino ignoto.

 Sconosciuta la malattia, per chi, come loro, non aveva studiato molto, sconosciuta la cura, se mai ve ne fosse stata una.

Lo sguardo greve del medico che aveva, per primo, espresso la diagnosi non lasciava dubbi. Non c’era bisogno di essere scienziati per capire che quello che avevano ascoltato era un giudizio spietato, definitivo, senza scampo.

Aveva parlato di test del sudore, di concentrazione di cloro, di secrezioni che possono ostruire o infettare alcuni organi interni.

Che ne capivano loro, un operaio e una donna delle pulizie, scaraventati nella società italiana per colpa delle radiazioni, di tutte le spiegazioni tecniche?

Il dottor De Durante si dimostrò molto paterno. Cercò di rendere semplice la spiegazione senza, però, omettere quelle che sarebbero state le conseguenze, a lungo termine, della malattia.

Spiegò come, in casi avanzati, fosse necessario il trapianto di polmoni e fegato.

Si mise a disposizione per qualsiasi altro chiarimento e per i necessari contatti con gli specialisti.

Peter ed Eva si sentirono avvolti da un caldo abbraccio fraterno, senza riuscire, però, a stemperare l’angoscia che stringeva il cuore di entrambi.

Il tempo, nella chiesetta di Pergola, stava andando avanti e il giorno già volgeva alla sera.

 Le braccia di Peter ciondolavano, lungo i fianchi, spossate dalla stanchezza.

Peter si assopì.

Una donna, intanto, avvolgeva, nel palmo della mano, il suo rosario per stiparlo nella tasca di un nero cardigan che copriva, in parte, l’abito a fiori.

Una vecchina, curva per l’artrosi, intingeva le dita nell’acquasantiera, facendosi il segno della Croce.

Il prete uscì dalla sagrestia con un’enorme chiave, che sarebbe servita per chiudere il grande portone della Chiesa.

Tutto intorno era silenzioso, quasi irreale.

Peter, intanto, sognava.

Una suora, con il viso da adolescente, prese le mani di Peter fra le sue e disegnò un segno di Croce su di esse.

Guardò Peter, mentre la piccola Vladlena appariva, diafana, accanto a lui, con i suoi enormi occhi verde pallido e le manine protese a cercare il suo abbraccio.

La suora si rivolse a Peter:

«Mi chiamo Teresa Martin.

Tua figlia Vladlena non guarirà subito. Qualcuno, però, sta studiando cure definitive che saranno presto disponibili. Abbi fede! Dio vi benedice!»

Baciò sulla fronte la piccola, sorrise a Peter e sparì lasciando dietro di sé una scia di rose piccolissime e profumatissime che, pian piano, si trasformavano in bambini e bambine, in donne e uomini, tutti con le braccia protese verso l’alto, come a rincorrere un sogno, illuminato da una luce sfolgorante.

Il sogno della guarigione da malattie senza speranza.

Peter si ridestò, lentamente, sui gradini esterni della chiesa.

Come aveva fatto a uscir fuori, se si era addormentato seduto fra i banchi?

Chi lo aveva accompagnato o portato lì?

Da lontano vide la moglie e la bambina che, ansiose, lo aspettavano, non sapendo dove fosse stato durante tutte quelle ore.

Vladlena gli corse incontro e lo abbracciò: «Papà, ho incontrato una suora. Mi ha dato un bacio e mi ha fatto un regalo.»

Eva guardò Peter, sconcertata. Era stata con sua figlia tutto il giorno e quella suora, di cui parlava Vladlena, lei non l’aveva vista.

Come era possibile che non si fosse accorta di nulla?

Peter si sciolse dall’abbraccio della figlia e la guardò sorridendo.

 Aveva una piccola rosa fra le mani.

Allora capì. Il cuore batteva all’impazzata.

Non era un caso che fosse entrato, quella mattina, nella chiesetta di Santa Teresa.

Ora sapeva, ora credeva.

Santa Teresa, nel sogno, gli aveva descritto il futuro di sua figlia e di tutte le persone come lei, in cerca di una speranza.

Era felice.

Pensava ad Antonio che lo aveva sempre aiutato nell’inserirsi nella società italiana, invitandolo ad avere fede con l’affermazione: «Per vivere, si deve credere.»

Pensava al dottor De Durante che era disposto ad accollarsi tutte le spese per gli specialisti.

Pensava a sua moglie che non doveva più disperarsi e a sua figlia che avrebbe avuto, presto, le cure adeguate.

Pensava a tutti i ricercatori che studiavano, instancabili, per trovare soluzioni a malattie, altrimenti, mortali.

Pensava a Dio.

«Io credo!» esclamò, quasi gridando. Poi, prendendo per mano le sue donne, con un senso di serenità nel cuore, ora placato, si incamminò verso la luce immensa della speranza e della fede.

                                                                                                         Angela Lonardo

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