LA PORTA

 
Michela era ammalata di una inusuale malattia: le piaceva sentirsi amata e considerata. Spesso si ritrovava a pensare troppo agli altri e a essere felice se qualcuno le rivolgeva una benché minima attenzione.

In passato era stato diverso: considerata sempre molto forte, un riferimento per tanti e un aiuto sempre attento…poi era capitato qualcosa di particolare, di indefinito eppure tanto reale che aveva cambiato i suoi rapporti con gli altri ma, soprattutto, con se stessa. Anche se era capace di sostenere gli altri e pensava di essere abbastanza forte da riuscire sempre a cavarsela, Michela, dopo aver perduto il suo lavoro, aveva iniziato a vacillare: il suo amor proprio gettato a quota sottozero, la sua autostima completamente distrutta, per non parlare della preoccupazione costante per il suo avvenire e per chi  le stava vicino.

Non si era mai trovata nel posto giusto al momento giusto anzi, tutt’altro: quasi sempre nel momento e nel posto sbagliati e non aveva mai avuto la capacità di guardarsi intorno con costruttività. Aveva sì i suoi punti di riferimento ma erano più affettivi che altro.

Non aveva tante conoscenze e evitava i cosiddetti social network perché, diceva sempre: “mi piace guardare in faccia le persone con cui parlo”  e non prediligeva indossare maschere ma cercava di essere sempre se stessa.

Una sua grande passione era la lettura e, vivendo in una grande città, aveva la possibilità  di frequentare posti in cui poter passare il tempo in compagnia,  ma con riservatezza e, in più, certa di avere “qualcosa in comune” con chi la circondava.

Conosceva, in un caffè letterario, molte persone con cui chiacchierava, scherzava e trascorreva il tempo piacevolmente: persone di tutte le età, di vari ceti sociali, adulti e giovani un po’ meno giovanissimi. Con loro si trovava bene anche se, al di fuori dal caffè, ognuno aveva la propria vita e di molti non si conosceva neanche l’identità.

Stare al caffè per lei non significava solo coltivare e condividere il suo hobby preferito ma era, piuttosto, un mezzo per  lasciare in un isolato cantuccio del suo essere quel senso di profonda solitudine che attanagliava la sua vita: si sentiva spesso sola e perduta . Aveva necessità di essere voluta bene ma, soprattutto, di sentirsi dire “ti voglio bene” e non ci si  ritrovava in un mondo troppo individualista.

Era un bel po’ di anni che aveva perso il suo grande amore, se ne era andato dalla porta principale: perché era stata proprio una questione di entrata e di uscita. Michela era entrata quando l’altra persona era uscita, infatti non l’aveva mai conosciuta né ne aveva mai sentito parlare, nonostante ventisette anni di convivenza e di bell’amore e, quando era rientrata l’altra, Michela non aveva più contato nulla. Era strano l’amore e Michela non aveva avuto la lungimiranza di capire che si gestiva a due e che non poteva combattere per qualcosa che non dipendeva da lei. Alla fine si era arresa ma aveva sofferto molto.

Al caffè conosceva molte persone e tante altre a scuola e nell’ospedale per bambini dove svolgeva il servizio di volontariato: era,tra le altre cose,  un’infermiera e una psicologa mancata ma era molto brava a consolare e a incoraggiare gli altri. Era grande amica di tante mamme che soffrivano ed erano in pena per i propri figli e questo l’aiutava a capire di essere fortunata a non doversi confrontare con sofferenze del genere.

In città non aveva le sue più care amiche perché vivevano tutte lontane e in alcuni momenti recarsi al caffè era una vera salvezza, perché lì il tempo trascorreva in piacevole compagnia. Una volta aveva conosciuto un uomo che inizialmente, notando la simpatia di lei, le si era avvicinato per scherzare e prenderla in giro ma non lo incontrava spesso perché non frequentava la libreria nello stesso orario. Un’altra volta aveva conosciuto un giovane uomo molto interessante e simpatico ma lavorava in un’altra città ed era abbastanza difficile incontrarlo.

La sua esistenza non era molto interessante, anzi era in una fase di completo stallo. Tutto dipendeva dal fatto che la sua vita sentimentale era un vero fallimento; scenate e litigi, nonché silenzi e incomprensioni erano all’ordine del giorno. Erano troppe le cose che Michela non capiva, cercava sempre di dare una spiegazione a tutto ciò che le accadeva, ma alcune volte non ci riusciva proprio.

La cosa  che non capiva era come mai una persona con cui aveva condiviso più della metà della sua vita l’avesse, a poco alla volta, completamente esclusa da ogni cosa. Era come se tutto ciò che avevano condiviso fino ad allora stesse finendo a poco alla volta nel dimenticatoio: le vacanze, gli studi, i viaggi, i concerti, gli amici , tutto ciò che li aveva resi felici e uniti stesse sparendo.

Eppure, si era chiesta e aveva chiesto il motivo, ma ogni suo tentativo finiva sempre con insulti e offese che le rimanevano nel cuore come delle ferite aperte.

Non capendo perché il cellulare del suo compagno fosse stato spostato dal tavolo alla tasca, né perché avesse la vibrazione piuttosto che la suoneria di sempre, o perché le nascondesse delle cose o, ancora, tornasse a casa sempre più tardi e senza mai avvertire o perchè il bluetooth dello stesso telefono in macchina con lei funzionava e con lui no, Michela aveva pensato che ci fosse un’altra donna. Allora lo aveva supplicato di non prenderla in giro e di dirle la verità ma si era sentita rispondere solo smentite e che lei era una paranoica che, non avendo di meglio da fare, era diventata assillante e puntigliosa.

Di fatto, però, nella realtà, capitavano episodi inconsueti: lei pendeva dalle sue labbra e lui non si curava neanche di risponderle quando lei parlava. Si sentiva del tutto poco rispettata anche nelle piccole cose: se faceva le pulizie e lui non si toglieva le scarpe, se lei lo aspettava per cenare e lui, tornato a casa, andava dritto al cibo e mangiava in piedi, con le mani, erano queste cose che la facevano diventare furiosa.

Non accettava l’odio e il rancore che venivano fuori ogni volta che discutevano ma, anche quando erano dette ad alta voce  cose che, in altri tempi, si sarebbero dette con grande calma si sentiva “sopportata” e le sembrava di impazzire perché non capiva.

Il suo compagno le rimproverava di essere una grande amica per tutti eccetto che per lui, anzi che lui si sarebbe aspettato comprensione da lei e invece riceveva inimicizia. Ma Michela si sforzava di essergli vicina: era premurosa se lui stava male, ma quando vedeva che tutti i suoi consigli erano del tutto in accettati si chiedeva in che modo potesse essere comprensiva se intorno a lei trionfavano  noncuranza e incuria.

Cosa significava avere comprensione: far buon viso a cattivo gioco e in nome di cosa? Di un cambiamento unilaterale? Lei doveva adattarsi al cambiamento e lo avrebbe fatto, ma se fosse stata coinvolta. Lei era fuori da tutto ma le si chiedeva di accettare, accettare…cosa? Ogni volta che chiedeva un parere, un consiglio non riceveva mai attenzione e ogni domanda era presa quasi come se fosse stata la richiesta di un’approvazione.

La vita di Michela era a una svolta: doveva lavorare su se stessa e cercare di uscire da quell’impasse che  stava riducendo entrambi a due larve.

Aveva accettato che lui si divertisse con altri tenendola fuori, perché forse era fisiologico in un rapporto tanto lungo che prima o poi ci fossero delle divergenze, come anche aveva accettato il fatto che lui non si curasse minimamente se le servisse qualcosa perché, tutto sommato, non era stato mai premuroso e le rodeva molto il fatto che, come tutti gli esseri umani, la loro vita era una sola e la stavano gettando via come una foglia secca.

In fin dei conti, se lui preferiva divertirsi senza di lei ne aveva tutti i diritti, come quando dal lavoro andava in banca, al bar o all’ufficio postale e, pur sapendo che lei era sola, non la invitava mai. Solo o in compagnia ma sicuramente mai con  lei; era un dato di fatto e lei, suo malgrado, avrebbe dovuto accettarlo.

Allora era il giunto il momento di cominciare a lavorare su se stessa, a staccarsi prima con grande dolore, ma poi con raziocinio, da quella persona che per lei aveva costituito un ramo saldo.

Si era così data da fare per trovare un lavoro perché fino ad allora si era arrangiata a fare delle traduzioni per una casa editrice e un medico conosciuto in ospedale che periodicamente scriveva su una rivista scientifica. Ma guadagnava una vera miseria e non poteva neanche curare un po’ il suo aspetto o comprarsi qualcosa di necessario ma, soprattutto, non le occupavano abbastanza la mente da potersi alienare e salvaguardare così lei stessa dalla sofferenza.

Così siccome in città c’erano moti locali aveva cominciato a offrirsi come aiuto in cucina o servizio ai tavoli, in modo tale da poter stare tra le persone e essere abbastanza indaffarata sia al lavoro che quando rientrava a casa. Finalmente aveva trovato in un’osteria del centro, un impiego che la teneva occupata dalle 12 alle 16 di ogni giorno. I suoi datori di lavoro: Luigia e Stefano erano davvero due brave persone, avevano avuto da poco un bambino e anche se Luigia lo portava con sé in osteria, avevano bisogno di aiuto. Michela aiutava un po’ con tutto: il magazzino, l’approvvigionamento, i clienti,  le pulizie, la cucina, insomma quando c’era da lavorare non si tirava mai indietro e gli altri lo apprezzavano molto.

Continuava ad andare in libreria e iniziava a pensare di organizzare qualcosa tra i due luoghi, voleva creare una specie di club, l’idea le piaceva perché  i frequentatori dell’una e dell’altra parte erano suoi conoscenti e avrebbe potuto coinvolgerli facilmente.

Ed ecco, così, che la sua mente incominciava a pensare ad altro…a volte si sentiva sopraffatta ma non poteva concedersi pause, era un sacrificio necessario per la sua sopravvivenza.

Un giorno, dopo la chiusura al pubblico dell’osteria, parlò con Luigia e Stefano di voler organizzare una serata di incontro e musica con la lettura di un libro: era stata programmata la presentazione di un libro e lo scrittore veniva da fuori, lo aveva contattato e si era detto disponibile a fornire un minimo contributo in modo tale che i frequentatori della libreria non sarebbero stati costretti a spendere molto e si sarebbero spostati più facilmente. Aveva, inoltre, due amici che suonavano sempre in libreria, ai quali avrebbe fatto piacere ampliare il loro pubblico. Michela era felice perché si muoveva in un ambito in cui  il lucro non esisteva: libri, musica e tanta bella compagnia. Gli stessi gestori  erano entusiasti dell’idea.

Luigia e Stefano, i quali erano molto aperti alla comunicazione non dissero inizialmente né si né no ma promisero che ci avrebbero pensato e, soprattutto, che volevano essere informati di ogni nuova cosa lei pensasse, così Michela si sentì molto lusingata e cominciò a pensare ai dettagli.

Era così impegnata tra lavoro e casa, dove non aveva un minimo di collaborazione, anzi,  che non si accorgeva che le sue giornate volavano… eppure, in un angolino profondo e nascosto,  c’era il buio e  lì, nonostante tutti i suoi sforzi, non riusciva a far arrivare il sole. Attendeva … ma mai nulla accadeva né di positivo né di negativo. Ancora una volta toccava a lei la responsabilità di una scelta, di un cambiamento. Ma era presto, lei era ancora troppo debole e non ne aveva la forza.

Da quando aveva ripreso a lavorare stava molto meglio: si sentiva più forte  e entusiasta  ma, certo, non condividere le cose belle le faceva male, altrettanto male che non condividere la cose brutte. Tra lei e il suo compagno c’era troppo astio, troppa delusione l’uno dell’altra ed era come se, a poco alla volta, il muro tra loro si consolidasse sempre di più.

Michela si sentiva molto sola e triste e, nonostante le sue giornate trascorressero rapide e frenetiche, quando tornava a casa un vuoto enorme intorno la opprimeva maledettamente.

Non voleva più cucinare, lavare, stirare, sistemare la casa perché non accettava l’idea che un uomo abbia diritto di essere stanco e riposarsi e per la donna ci sia sempre qualcos’altro da fare.

Certo questo dipendeva molto da lei che durante la sua disoccupazione si era lasciata sopraffare da ogni cosa e ora reagire era difficile: la depressione e la paranoia incombevano come due macigni sul suo fisico e sulla sua mente.

Un giorno accadde che una sua cara amica coetanea morì improvvisamente: Michela pianse a lungo ai funerali di Ludovica perché pensava a tutto ciò che l’amica aveva lasciato, a quanti le avrebbero continuato a volerle bene e a sentire la sua mancanza e si chiese: “Se dovessi morire adesso, quante cose avrei lasciato in sospeso? Quanti baci, quante carezze, quanti abbracci, quanti ti voglio bene?”

Molti, troppi, e questo non era per niente giusto.

Certo nella vita erano tanti i problemi: ci si doveva battere per la sopravvivenza in una lotta tra poveri, esistevano le ingiustizie e le precarietà, ma lei era convinta che con il cuore si potesse risolvere tutto perché niente è più forte e ti dà più forza dell’affetto.

Nel frattempo, trascorse il lungo e rigido inverno, arrivò la bella primavera e il tempo delle vacanze: Michela aveva risparmiato, perché aveva deciso che avrebbe dovuto investire i suoi soldi per un futuro migliore. Così si organizzò un viaggio: un itinerario che dalla sua città l’avrebbe portata nei dintorni più o meno conosciuti per intessere rapporti e conoscenze da sfruttare nella sua nuova attività di organizzatrice di eventi culturali e musicali.

L’idea era sempre quella: creare degli incontri tra musica, lettura, cibo e buona compagnia. Così incominciò a informarsi su qualche autore toscano, e ce ne erano tanti, poi pianificò un itinerario enogastronomico di facile percorrenza e incominciò a stendere il suo progetto: mandò mail di presentazione e di invito e presto incominciarono ad arrivare sia in osteria che in libreria nuovi personaggi che la cercavano. Il grosso era fatto:ora doveva solo pianificare l’itinerario e le date. Il sopraggiungere della primavera le era di buon auspicio perché presto sarebbero arrivati anche i turisti.

Annunciò la sua partenza senza preamboli,  presentandola come un viaggio di lavoro. Non ebbe reazioni, né domande, né commenti, come sempre: lui sarebbe rimasto, per ora, in città a lavorare.

Fu un’estate ricca di soddisfazioni per Michela perché, non solo riuscì a ottenere quattro incontri in due settimane, ma era intenzionata a continuare. La riapertura dell’osteria la richiamava in città e lei era pronta a rientrare per riprendere il suo lavoro: probabilmente al punto in cui era avrebbe potuto anche licenziarsi dall’osteria ma quel luogo per lei costituiva un rifugio, un posto così familiare da non poterlo lasciare e poi Luigia e Stefano erano due cari amici. Le avevano aperto la porta in un momento di grossa difficoltà e lei ora sentiva il dovere di ricambiare la loro ospitalità. Il successo di Michela li aveva portati ad essere conosciuti: si erano potuti ingrandire e specializzare, avevano potuto migliorare la qualità dei  loro servizi e l’osteria ora era rinomata. Anche la libreria era grata a Michela per ciò che aveva fatto e c’era l’intenzione di aprire una piccola casa editrice di riviste specializzate, Michela si sarebbe occupata delle recensioni e dei contatti tra gli scrittori.

La sorpresa più grande le arrivò, però, quando rientrò a casa: lui non c’era più, non c’erano più le sue cose e le piante erano appassite, segno di un’assenza lunga quanto quella di Michela. Ancora una volta, a casa l’aveva attesa il silenzio e, ancora una volta, Michela non capiva. Se ne era andato senza una parola, probabilmente non aspettava altro che aver un po’ la loro casa a disposizione per poter sistemare le sue cose e, soprattutto, per evitare di parlare. In fin dei conti era stata lei ad  andarsene per prima giacché quella era stata l’unica  volta nella loro storia che non avevano fatto vacanze insieme.

Michela si sorprese di non essere tanto meravigliata: era forse la conferma di quello che aveva sempre sospettato? Perché aveva aspettato tanto?

Chiese in giro ai pochi amici fidati in comune se lui stesse bene, poi prese un’ agenda, si sedette a tavolino e cominciò a pianificare la sua nuova vita.

Maria Paola Battista

 

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