QUESTA E’ LA MIA VITA di Antonietta Urciuoli

violenza sulle donne

Aveva 15 anni quando s’innamorò di lui. Frequentavano il liceo classico e stavano nella stessa sezione. Studiavano insieme nel pomeriggio, a casa di lei, sotto gli occhi vigili della mamma. Sembrava romantico, sensibile, buono. In ogni occasione la omaggiava di fiori, in primavera le regalava le violette che comprava al mercato e Valentina vide in lui, senza ombra di dubbio, l’uomo della sua vita, il padre dei suoi figli…Finita la scuola, si sposarono ma Carlo ben presto si dimostrò il contrario di com’era stato. La dolcezza, le premure di un tempo sparirono come neve sciolta dal sole e apparve ai suoi occhi un uomo senza scrupoli che, giorno dopo giorno, metteva a nudo il suo temperamento non certo lusinghiero. Quando si trovava con i parenti, cercava di comportarsi gentilmente ma quando erano da soli, non faceva altro che offenderla, spersonalizzarla e, con il passare degli anni, cominciò anche a picchiarla. Valentina non aveva potuto avere figli e le veniva rinfacciato, continuamente, che era un albero privo di frutti. Quando si parlava dei figli, si scatenavano scontri verbali che finivano in vere e proprie scaramucce. Le parole la ferivano tantissimo tanto da farle sparire dal volto quell’aria felice e spensierata di un tempo. Carlo vedeva nella sua donna un essere inferiore su cui scaricare tutta la negatività che aveva accumulato negli anni: i continui fallimenti in campo lavorativo, quella laurea mai completata, la perdita del lavoro, la ristrettezza economica, la mancanza di amici. Valentina diventò il caprio espiatorio, lei doveva pagare per tutti gli errori commessi da Carlo.

Annientata nello spirito, cominciò a perdere fiducia in se stessa e, ogni volta che veniva picchiata, pensava che era solo colpa sua. Era lei la causa del suo nervosismo, era colpa sua se in quella casa tutto andava male. Le mura della sua dimora cominciarono a spaventarla,vedeva ombre passare e la solitudine cominciò a ingigantire le sue paure. Come si avvicinava l’ora del rientro a casa del marito, cominciava a tremare come una foglia. Il cuore accelerava i normali battiti e una sudata fredda bagnava le sue membra ormai stanche. Il rituale era sempre lo stesso: bastava una parola per scatenare quella rabbia feroce che aveva dentro. L’ora del desinare si trasformava in un vero inferno,ogni pietanza non lo soddisfaceva e, mentre gridava a squarcia gola,sollevava il tavolo con le sue grandi mani facendo cadere tutto. Dopo la solita sfuriata usciva e rincasava a tarda ora. Puntualmente, Valentina doveva raccogliere i cocci e rimettere tutto a posto mentre le lacrime copiose le tenevano compagnia.

La protagonista di questo triste racconto, per molti anni accettò passivamente questa vita, sentendosi sempre e continuamente in colpa, come se fosse stata lei a distruggere quello che una volta era un matrimonio felice. Come accade a molte donne, si ritrovò in una fitta ragnatela e più si muoveva e più restava intrappolata.  Amava tantissimo i suoi genitori e ogni volta che li incontrava, mentiva a se stessa raccontando loro  il contrario di tutto. I lividi che aveva sul corpo erano coperti dagli abiti ma quelle ferite che le scalfivano il cuore non le avrebbe mai fatte vedere per proteggere le persone che l’avevano messa al mondo. Non poteva rivelare l’inferno che si portava dentro, non avrebbe mai voluto vederli piangere. I loro candidi capelli bianchi le facevano tenerezza e non voleva né poteva rivelare i suoi segreti. Un giorno, carezzandoli, dolcemente, disse : “Mamma, papà non preoccupatevi per me,va tutto bene!” Erano troppo anziani per poterle scrutare dentro, per poter comprendere che stava mentendo. Si allontanò anche dai suoi fratelli perché questi ultimi, se avessero saputo la ben minima verità sul marito, lo avrebbero sicuramente ucciso.

Per proteggere la sua famiglia, i cui fili invisibili la tenevano legata a essi, si ritrovò da sola a combattere, prima con se stessa e poi con l’uomo che l’aveva resa un cencio vecchio. La violenza psicologica divenne in alcuni momenti superiore a quella fisica. Le parole pronunciate con risentimento, odio, facevano più male degli schiaffi. Esse restavano fisse nella mente, apparivano  e scomparivano solo ed esclusivamente per ferirla, per farla sentire un essere inutile, senza autostima, pronta ad autoaccusarsi, a giustificare chi la faceva soffrire. Ci volle del tempo fino a quando la protagonista di questo racconto cominciò, gradualmente, a elaborare che non era colpa sua ciò che accadeva. Era frutto di un “Amore malato”.

Comprese che doveva cercare dentro di sé la forza necessaria per riprendersi la sua vita, da troppo tempo bistrattata. Cercò di affrontare le giornate in modo diverso, pensando alla cura della sua persona, a lungo trascurata. Usciva di casa e faceva lunghe passeggiate trovando linfa vitale tra la natura. Alle lacrime, per troppo tempo versate, oppose la realizzazione del progetto che aveva deciso di realizzare. Quando il marito gridava, lei cercava di non ascoltarlo e pensava a quello che doveva fare.

Dopo alcuni mesi prese una nave e partì per l’America per raggiungere alcuni parenti. Sul tavolo della cucina lasciò una lettera in cui aveva scritto: “Ti ho tanto amato perché ero convinta di essere la donna della tua vita. Ma tu hai reso la mia vita un continuo inferno! Ho deciso di lasciarti per sempre, prenditi tutto ciò che ho portato in matrimonio ed esci per sempre dalla mia vita!”. La nave si allontanò dal porto ed ella questa volta piangeva di gioia perché finalmente era libera. Era riuscita a comprendere che la sua vita meritava ben altro e quell’esperienza negativa apparteneva ormai al passato. Guardando la bellezza del mare, disse tra sé: La vita è solo mia! Non permetterò più a nessun uomo di nuocermi!

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