RISTORANTE DI LUSSO  di Angela Lonardo

Mi guardavi con gli occhi smarriti e un interrogativo stampato sulla fronte pallida e liscia come seta. Non una ruga solcava i tuoi giovani lineamenti.

Più ti osservavo e più mi convincevo di aver fatto la scelta giusta quando avevo prenotato solo per noi due, in quel locale chic.

La serata era ancora lunga. Gli altri avventori sarebbero ben presto arrivati, tutti con abiti eleganti che l’atmosfera emanata da quel posto richiedeva.

La tovaglia, abbellita con pizzo San Gallo, era di un candore quasi accecante, distesa con cura sul nostro tavolo dove, tra piccole candele dalla luce soffusa e un mazzolino di roselline bianche e freschissime, svettavano calici di cristallo e bicchieri dalle forme raffinate, che aspettavano solo di essere riempiti con vini eccellenti e spumante pregiato scelti, con cura meticolosa, dall’elegante sommelier in smoking, papillon e “tastevin” appeso al collo, come da prassi.

Il piatto fondo, decorato in oro, era posto su quello piano con scrupolosa precisione. Il coltello e il cucchiaio erano poggiati alla destra, due forchette alla sinistra, le posate, per frutta e dessert, disposte in senso orizzontale. Tutto rigorosamente splendente.

Il tovagliolo immacolato, piegato con maestria, faceva da corollario a quella festa di eleganza e signorilità.

I tuoi occhi, abituati alla semplicità di trattorie allegre e rumorose, vagavano intorno attoniti, continuando a spostarsi dal mio volto sognante al fondo della sala. Avevano un’espressione incredula.

Il profumo del cibo solleticava le nostre narici. Gli altezzosi camerieri erano schierati, guanti bianchi, tovagliolo pendente dall’avambraccio e papillon. Impeccabili!

Tutto era perfetto.

Continuavi a guardarmi, stranita, come se mi vedessi per la prima volta. Io scrutavo i tuoi occhi verdi e m’innamoravo sempre di più. Intanto, pregustavo le pietanze che avremmo mangiato. Presagivo la tua golosità nell’assaggiare la vellutata di cipolle con crostone al miele. Una favola!

Avevo messo in bilancio mezzo stipendio per quella cena: dovevo chiederti di sposarmi, non potevo badare a spese.

Mentre ti osservavo con tutto l’amore di cui ero capace, vidi il bagliore delle candele proiettarsi nelle tue iridi opalescenti.

Mi sentivo quasi venir meno per il languore. Ti amavo alla perdizione. Tu, però, continuavi a scrutarmi con una preoccupazione che percepivo sempre più forte.

Lo so, non avresti voluto che spendessi tanto. Sapevi che quello era un posto da vip e non certo alla portata di un impiegato di quart’ordine.

In fondo, che importava? Io ti amavo, volevo sposarti, mi sarei preso cura di te anche con mille euro al mese, impegnandomi a farti felice per tutta la vita.

Qualora mi avessero aumentato il salario, avremmo anche potuto decidere di avere un figlio.

Mi ricordo che ti eri illuminata tutta quando ne avevamo parlato. Avevamo perfino fantasticato sul nome. Quando io, scherzando, ti avevo detto che, in caso fosse nato un maschio, lo avremmo chiamato Eleuterio, tu, ridendo, mi avevi risposto che, in tal caso, sarebbe diventato di sicuro un baciapile, perché Eleuterio fa rima con presbiterio.

Per dispetto, ti avevo fatto il solletico ma poi era arrivato il momento delle tenerezze e degli abbracci infiniti. Con te mi sentivo felice.

Meritavi proprio una serata così, amore mio, e meritavi l’anello con brillante che custodivo nel taschino più nascosto dell’abito elegante prestatomi da quel gigolò di mio cugino Ernesto.

Beh, almeno sul vestito ero riuscito a risparmiare, tanto io ed Ernesto vestivamo la stessa taglia. Avrei preso lo scatolino di velluto blu solo alla fine della cena e ti avrei infilato l’anello che, scintillante sull’anulare della tua mano sinistra, sarebbe stato sostituito ben presto dalla vera nuziale.

   Intanto, continuavo ad ammirarti: indossavi una gonna longuette di finta seta nera e una camicia di raso color crema che donava molto al tuo incarnato. Gli orecchini di bigiotteria sembravano autentici diamanti. Chi mai si sarebbe accorto che erano spudoratamente falsi?

Sfavillavano come stelle sui lobi delle piccole orecchie perfette, svelate dai capelli tagliati cortissimi.

Avevi messo al piede un paio di sandali con vertiginosi tacchi a spillo che davano alla tua andatura un ritmo barcollante. Si notava davvero che non li sapevi portare. Per una sera, avevi fatto il sacrificio di lasciare a casa i tuoi comodi mocassini e per questo nutrivo per te un’immensa gratitudine.

Apprezzavo il sacrificio che avevi fatto, tanto ti avrei sorretto io e poi, stando seduta, i tacchi non ti avrebbero dato noia. Certo, non potevo fare a meno di notare che slanciavano molto le tue caviglie da puledra.

Cara, eri bellissima ed io innamorato pazzo.

Le candele continuavano a riflettere bagliori nelle tue pupille dilatate mentre una strana inquietudine si disegnava ancor più prepotentemente sulla tua fronte aggrottata.

   – Non temere, cara, è tutto sotto controllo. Non mi dissanguerò certo per una cena di lusso! –

 I miei pensieri vagavano in maniera disordinata mentre tu mi sembravi davvero agitata.

   La punta della tua scarpa destra dondolava nervosamente andando a sbattere di continuo sul mio menisco che ne usciva sempre più indolenzito.

   Va bene i tacchi a spillo, ma le punte così aguzze potevi anche risparmiartele.

Presi la tua mano morbida tra le mie, fredde per l’emozione. Volevo tranquillizzarti ma tu non ti esprimevi ed io pensavo che non avresti dovuto avere nessun motivo per essere così nervosa.

   Che ti stava succedendo?

In fondo ero io che mettevo in bilancio metà del ricavato di un duro mese di lavoro. Tu dovevi solo pensare a goderti la serata.

   Mi girai verso il fondo della sala e notai che molte altre persone avevano continuato a riempire il ristorante.

   Non avrei saputo dire quando fossero arrivate, ma ora erano lì, impettite, i polsi poggiati con eleganza sul bordo del tavolo, i tovaglioli aperti sulle ginocchia e l’attesa per le golosità in arrivo affrescata nei loro occhi.

   Tu avevi poggiato il gomito destro a lato delle posate, per sostenere il viso bellissimo su cui andava dipingendosi, sempre più intensamente, un’espressione sconfortata.

   Ti feci un leggero cenno col capo per invitarti a un atteggiamento più composto.

A quel punto ti alzasti, sfilasti i sandali col tacco a spillo precipitandoti, a piedi nudi, fuori dal locale. Non pensavo di aver urtato così profondamente la tua suscettibilità.

   Mi alzai anch’io per raggiungerti e convincerti a rientrare ma ti trovai mentre, con il cellulare in mano, stavi chiamando, atterrita, i vigili del fuoco.

   Nel locale avevi avvertito una tremenda puzza di gas.

Il suono delle sirene si avvicinava, diventando sempre più assordante. Molta gente, intercettando qualcosa di anomalo, si era fiondata in strada per cercare di capire cosa stesse accadendo.

   La proverbiale calma dei camerieri presenti nel locale cominciava pericolosamente a vacillare. Sebbene ognuno continuasse a mantenere la classica postura eretta, la tensione aumentava vertiginosamente. Sui volti di tutti si manifestava una crescente inquietudine.

   Il capo dei vigili scese dall’automezzo ancora in moto ed entrò correndo, l’elmetto un po’ sbilenco che rischiava di cadergli dalla testa. Inciampando in un tappeto, travolse uno dei camerieri che cadde rovinosamente a terra trascinando con sé il vassoio delle pietanze.

   Dirigendosi in cucina, il capo dei vigili urlò, con quanto fiato aveva nei polmoni: «Uscite tutti! C’è una fuga di gas».

   Il cameriere, ancora steso a terra, fece appena in tempo a replicare, altero: «È solo l’odore del tartufo, Signore!»

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