Una maschera liquida di Angela Lonardo

Il Monologo della scrittrice irpina ha ricevuto il 3° premio al Napoli Cultural Festival, sezione Monologo Teatrale Inedito Adulti, a Palma Campania. La premiazione ha avuto luogo nella chiesa di San Michele Arcangelo. Riportiamo il testo che tratta un tema molto forte. 

Mi guardo allo specchio. Non vedo nulla, non riesco a distinguere le mie pupille dilatate, spalancate sulle macchie nere che attraversano il cervello, il mio pallore mortale che precorre una morte lenta, senza fine, finché scivolo nel buio e nello stordimento che disintegra l’universo intorno. Sono il misero travestimento di me stesso, che uso per nascondere il vuoto interiore. Fuori c’è la neve. Non ho freddo… mentre il gelo mi devasta il cuore e le membra, che restano sformate dalla cattiveria, regalatami con generosità dall’esistenza. Ho un laccio che mi stringe questo braccio esile da adolescente. Un fuoco entra dentro, come veleno pronto a divorarmi il cervello, a devastare neuroni e labili memorie di una esistenza mai vissuta. Un padre vero non l’ho avuto. Chi mi ha generato si è dimenticato di me, abbandonandomi alla realtà di giorni tutti uguali, consumati, uno dopo l’altro, in un girotondo che annienta spazio e tempo. Vita? La mia è solo una voragine riempita di ebrezza, di dolore non identificato, mentre un macabro trucco mi confonde alla vista altrui. Il creatore di questo mio corpo dilaniato ha un solo pensiero: bere da mattina a sera e stordirsi di whisky a basso costo, per trovare il coraggio di mettere le mani addosso a mia madre… madre solo per genesi, non per amore. Due corpi si sono uniti, una notte di mare in tempesta, per riprodursi in me, in questo ammasso di liquame senz’anima, licantropo partorito nel buio, abbandonato a braccia estranee, senza affetto, nutrito con latte acido misto a rancore e vergogne inconfessabili. Ho sentito parlare di carezze ma non ne ho conosciute. Il mio volto non è stato sfiorato nemmeno dalle lacrime, mentre pugni violenti lo deformavano. Gli occhi asciutti, rossi di rabbia, non hanno sperimentato il pianto. Era solo il cuore a sanguinare torrenti salmastri che, stordito, non ho mai percepito in me. Madri improvvisate, prese in prestito, con un ruolo inadatto per le loro menti deboli, hanno usato la mia fragile immaginazione per convincermi che un buco nella pelle poteva condurmi nel Paradiso artificiale che nessuno ha mai visitato, da cui nessuno è mai tornato. Madri, sorelle, compagne di abbandoni al niente, sagome inanimate con un pugnale conficcato nelle vene…, ancor più profondamente nell’anima inconsistente. Dentro lo specchio, riconosco appena la mia ombra disfatta, lo sguardo accecato dal livore che occhiali scuri proteggono dalla notte. Non distinguo più nulla, non vedo vita intorno. Sono uno zero assoluto che vorrebbe distruggere il mondo, mentre sta distruggendo se stesso. Buchi nella pelle, voragini nell’anima, maniche di camicia, allungate su queste braccia scheletriche, maniche infinite, macchiate di sangue che, nascondendo i lividi, non riescono a coprire la vergogna che provo di essere quello che sono. Inietto, ogni giorno, gocce di fluido letale che ho scelto per annientarmi e che, entrando nelle vene lacere, trasformano il mio volto in un tragico ovale senza forma, sempre in cerca del bambino che non ho mai potuto essere, in cerca di radici secche da cui spuntano i miei rami morti. Un magma contaminato, attraversando il sangue putrido che mi ha nutrito da sempre, diventa maschera liquida, colorata di un viola assassino, un trucco pronto a coprire il mio vero volto, fino al giorno in cui sarò solo un cumulo di stracci abbandonati per strada e che nessuno piangerà.

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