Giorno del Ricordo o della Conoscenza? Intervista a Rocco Roccia, profugo di Montona d’Istria

Abbiamo incontrato un testimone di ciò che è accaduto alla popolazione italiana in Istria dopo la seconda guerra mondiale. Sappiamo, oramai, nonostante decenni di silenzi e nascondimenti voluti dalla politica italiana, che coloro che abitavano i territori dell’Istria giuliana, la Dalmazia e Fiume erano italiani da generazioni. Lo sappiamo perché finalmente la Legge n.92 del 31 marzo 2004 ha istituito il Giorno del Ricordo, (che per molti dovrebbe essere celebrato come Giorno della Conoscenza), perché la politica ha deciso che era il momento che anche i profughi che dovettero lasciare case e lavoro, insieme al proprio passato, fossero riconosciuti da tutti come gli italiani dell’esodo istriano. Eppure i silenzi si sono protratti all’interno delle famiglie stesse dei profughi che, una volta rifattisi una vita nell’Italia libera dalla dittatura titina, non hanno voluto tornare sull’argomento, rimuovendo le brutte esperienze vissute, salvaguardando le nuove generazioni dai cattivi ricordi.
E ogni anno, il 10 febbraio, sull’argomento dobbiamo tornarci non tanto per ricordare, perché c’è molto ancora da raccontare di questa storia rimossa, ma per insegnare ai giovani la storia e anche a chi non ha capito bene come andarono i fatti. Chi più dei diretti testimoni di ciò che accadde può rendere viva una pagina della storia tra le più vergognose, scritta per di più a guerra finita?
Rifiuto, silenzi, abbandono, discriminazione, sospetto ciò che molti profughi si videro opporre una volta valicata la frontiera, trascinando mobilio, insieme alle semplici cose di una vita, nella speranza di ricostruire la propria casa.
Ho avuto il piacere di conoscere diverse storie, di diffonderne la conoscenza, ma di solito questo mi è accaduto a Trieste, a ridosso di quel confine, pur sapendo quanto esteso fosse stato l’esodo, che interessò anche l’America e l’Australia. Ma è la prima volta che mi capita di ascoltare la storia di un testimone ad Avellino.
Rocco Roccia, 87 anni, un uomo mite e gentile, che si sforza di ricordare ciò che dichiara di faticare a tirar fuori dalla propria rimozione, come gli capita di fare per tutte le cose brutte. A farlo lo aiuta la moglie, la gentile signora Aida, spronandolo con amore a raccontare la sua storia. Mi accolgono nella loro casa, dopo che ci siamo conosciuti alla celebrazione del Giorno del Ricordo 2025 nella sede dell’UNUCI, Unione Nazionale Ufficiali in Congedo, di Avellino. In quella occasione il signor Rocco aveva pianto, ascoltando la narrazione della storia che stavamo facendo agli intervenuti, una ferita si era riaperta nel suo cuore e si era alzato a portare una breve testimonianza che commosse i presenti, dando valore di concretezza all’incontro.
La mia richiesta dell’intervista è stata accolta dai signori Roccia con generosità e sono lieta di riferire il dialogo che ne è nato.
Signor Roccia, mi racconta cosa accadde quando lasciò il suo paese?
Sono nato a Montona d’Istria nel 1938 e a soli sei anni e mezzo, alla fine della guerra, con la mia famiglia, lasciai quel luogo per raggiungere Scampitella, in provincia di Avellino, paese di origine di mio padre. Mia madre era di Montona e mio padre, Vito, era andato lì, ma non so dirle perché, credo per lavoro. Eravamo tre figli: Carmela, Angelo ed io. In quel paese, nel centro dell’Istria, ricordo, erano tutti o quasi di lingua italiana.
Si ricorda per quale motivo siete andati via?
Ero piccolo, quindi a suo tempo capivo poco di cosa mi stesse succedendo intorno, e mio padre non volle mai più parlarne. Mia madre mi spiegò poi molte cose. Mio padre, finita la guerra era tornato a casa, ma lì c’erano i partigiani titini che reclutavano ex militari e tutti gli uomini in salute e allora lui, insieme a un carabiniere che era fidanzato con la sorella di mia madre, si nascosero nella soffitta di casa, mentre noi alloggiavamo a casa della nonna. Portavamo loro di nascosto il cibo, ma un giorno furono scoperti da un vicino, che ce l’aveva con i militari per un incidente capitatogli durante la guerra e che li denunziò. Cosicché furono imprigionati e trasferiti in diversi luoghi, uno dei quali ricordo era il castello di Pisino.
Mia madre mi raccontò dell’avventura che mio padre durante la prigionia affrontò per due volte , in cui fu portato sull’orlo di una foiba per essere ucciso, ma che entrambe le volte tra i partigiani c’era un suo compaesano che riuscì a evitargli quella fine. Alla fine fu liberato.
Quindi, tutto sommato, fortunatamente andò a finire bene.
Per lui sì, ma quello che accadde a mio cugino Mario Pisani, che fu l’ultimo podestà di Montona, non ebbe lo stesso epilogo. Il 10 maggio del 1945 fu prelevato insieme ad altri otto giovani del nostro paese e portato via. Non riuscimmo ad avere più sue notizie e mia zia non si dava pace. Lasciò anche lei Montona, ma rimase a Trieste nella speranza di avere notizie del figlio. Non riuscì a sapere nulla. Solo molti anni dopo una signora fece delle ricerche e scoprì che tutti e nove erano stati gettati nella Cava Cise a Caroiba, dove prima di morire si lamentarono per giorni, a detta di chi aveva sentito i lamenti, scambiandoli allora per animali agonizzanti. Quando tornai nel mio paese andai a visitare il sacrario, allestito in memoria di quei ragazzi nel 2001 grazie all’impegno di questa signora.
Conosciamo questa storia perché, se si cerca su internet Sacrario di Cava Cise di Caroiba-Istria, si può leggere la storia della signora Silvia Peri, profuga di Montona, che era andata in Australia e poi era tornata e aveva iniziato le indagini su quell’eccidio. Ad essere gettati nella Cava Cise quel giorno furono: Carlo Bonassi, Montona, 23 dicembre 1926; Vittorio Cassano, Ovada (Ud), 1921; Cleto Duchini, Montona, 24 agosto 1924; Vito Lorusso, Avigliano (PZ), 20 settembre 1923; Giovanni Mechis, Visignano, 24 giugno 1922; Mario Pisani, Montona, 19 aprile 1922; Romeo Reser, Montona, 1924; Miro Sandri; Romeo Stefanutti, Montona, 9 dicembre 1924; Tullio Stefanutti, Montona, 3 giugno 1921; Mario Varvara, Milano, 21 giugno 1925; Giuseppe Vesnaver, Zumesco (Montona), 1923.
E sua zia, nel frattempo, aveva saputo queste cose?
Era morta e non seppe mai che fine avesse fatto il figlio.
Deve essere stato straziante. Mi vuole raccontare come era per lei la vita a Montona dopo la guerra?
Le racconto un mio ricordo. Mentre mio padre era in carcere, mia madre e mia zia spesso venivano prelevate dai titini per andare a spazzare le strade dove doveva passare il corteo dei loro carri armati, che non erano altro che carri addobbati come veri carri armati, ma si vedeva che non lo erano. Dietro il corteo dovevamo sfilare anche noi e gridare “Druze Tito!” e non sapevamo neanche cosa significasse. Noi non parlavamo jugoslavo e non conoscevo nessuno che lo facesse. Allora mia zia e mia madre presero l’abitudine, quando sentivano avvicinarsi i soldati, di scappare nella parte alta della casa dove, attraverso una porta celata da un armadio, si passava in un settore del caseggiato collegato all’uscita in un’altra strada.
Mi dica, ma il silenzio di suo padre poteva essere collegato al fatto che altri parenti erano rimasti in Istria e potevano correre pericoli a causa delle dichiarazioni di chi era andato via?
Certamente, o per lo meno non lo escludo, e le dico che quando riuscimmo a raggiungere Trieste, dopo la nostra fuga, lì papà ci disse di essere molto guardinghi, perché i titini erano anche al di qua del confine e ne avevano uccisi parecchi di profughi. La nostra paura negli anni successivi in Italia fu sempre il comunismo.
Come riusciste ad avere il permesso di andare via? Non è stato sempre facile, a quanto ne so.
Vede, mia madre, che dalla scarcerazione di mio padre non pensava ad altro che a portarci via da lì, fece domanda e si preparò ogni cosa ma, quando arrivò il giorno e avevamo già caricato il mobilio sul carro, arrivarono i titini per controllare e, dopo averci fatto scaricare nuovamente le nostre masserizie, notarono che mancava un arredo, non ricordo quale, che era nell’elenco consegnato. Non ci fecero partire. Mia madre dovette fare di nuovo tutta la pratica e alla fine ci riuscimmo. I miei nonni rimasero lì. Noi raggiungemmo, come ho detto, Trieste. Avevamo fame e ci nutrimmo in una bettola, giacché non disponevamo di denaro sufficiente. Poi lasciammo lì, al Porto, tutte le nostre cose e prendemmo il treno per Roma. Passando a Bologna, dovemmo subire ciò che lei saprà bene. Lì ci chiamavano fascisti e traditori e dovemmo tirare diritto per la nostra destinazione. Incominciammo così a capire che non eravamo bene accetti. Da Roma un furgoncino ci portò a Napoli, ma anche in quella parte del viaggio dovemmo affrontare delle peripezie. Dovemmo scendere dal mezzo e percorrere a piedi cinque o sei chilometri per risalirvi, dopo aver evitato un posto di blocco dei carabinieri. Si vede che il conducente aveva qualcosa da nascondere. Fatto sta che arrivammo a Scampitella, dove ci stabilimmo per un po’, prima che mio padre trovasse un lavoro e ci trasferissimo a Valle, un quartiere di Avellino. Poi ci raggiunse dall’Istria anche mia nonna.
E, una volta arrivati ad Avellino, la vostra integrazione fu semplice?
Beh, ci sentivano parlare un dialetto diverso, strano per loro, e non capivano chi fossimo e neanche io stavo lì a spiegarlo, Così mi lanciavano le pietre per la strada e qualche volta le presi anche. Non sono bei ricordi.
Mi diceva che poi siete tornati a Montona.
Sì, due volte. La prima nell’80, se non sbaglio, c’era ancora da esibire il passaporto. Provammo a cercare una cugina di mia nonna, che era rimasta lì, bussammo alla sua porta ma non ci aprì: fu una grande delusione. Ma forse aveva solo paura. Andammo a comprare dei souvenir, ma il signore che ce li vendette, molto affabile, quando sentì che ero nato lì, non volle più parlare con me. Aveva anche lui paura.

Cosa pensa delle celebrazioni che si fanno per il Giorno del Ricordo?
Ho avuto sempre una reticenza a parlare del mio passato, a mostrare il mio certificato di profugo, dovendo dare spiegazioni a persone che non sapevano neanche dove fosse l’Istria e ho evitato di partecipare per non rimanerci male. Poi mia moglie ha insistito tanto e così abbiamo saputo della vostra iniziativa. È bene che le persone sappiamo qual è la verità.
Mi rendo conto che per lei è ancora difficile parlare di questa storia e per questo la ringrazio infinitamente. Mi ha dato un valido aiuto a raccontare questa storia, così poco e male conosciuta.
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