GIORNO DEL RICORDO. QUELLA STRANA NOTTE, IL RACCONTO DI ANTONIETTA URCIUOLI

Oggi proponiamo ai nostri lettori un racconto toccante che riassume in poche righe la tragedia delle Foibe. L’introduzione è della scrittrice e studiosa Gaetana Aufiero.

I  SILENZI  DELLA  STORIA

            Come affrontare il tema delle foibe con i bambini delle elementari e delle scuole medie?

            E’ questo il problema che si è posto la nostra Antonietta Urciuoli, risolvendolo con un racconto veloce come aveva già fatto con successo nel passato con il tema della Shoah,  per avvicinare con cautela e delicatezza i piccoli ad un tema terribile quale quello dello sterminio degli ebrei.

            Un racconto il suo, “Quella strana notte”, che rivolge questa volta lo sguardo su un’altra pagina oscura  del nostro passato, alla luce della convinzione che la conoscenza storica possa rivelarsi un valido strumento educativo in un mondo nel quale di nuovo sorgono muri, di nuovo si respinge il diverso, di nuovo si uccide in nome di ideologie aberranti!.

            Il racconto si sofferma sul dramma del confine di Nord Est dell’Italia, occupato alla fine della Seconda Guerra Mondiale dalle forze titine e sottoposto a violenze e massacri legati tristemente all’immagine delle foibe, una pagina della nostra storia poco conosciuta e spesso usata come strumento di lotta politica.

            Le foibe: un tipo di depressione frequente nei terreni calcarei, costituita da un avvallamento a forma di imbuto sul fondo del quale si apre una voragine naturale che può raggiungere anche centinaia di metri di profondità! Era il luogo dove si usava gettare tutto ciò che era pericoloso conservare e  nel quale scomparvero oppositori, nemici e civili che agli occhi dei nuovi vincitori rappresentavano l’Italia. Era  la metà degli anni quaranta  quando  il regime nazifascista  entrò in crisi ed un’armata jugoslava  si mosse velocemente verso Trieste per occuparla prima dell’arrivo degli Alleati, che stavano risalendo, da liberatori, la penisola. Il destino della Venezia Giulia non era stato stabilito dagli accordi internazionali da tempo in corso  tra i diversi paesi coalizzati contro il nazifascismo, in vista della fine della Seconda  Guerra Mondiale e dell’assetto che gran parte d’Europa avrebbe dovuto riavere dopo invasioni e massacri.

            Per i nostri confini nulla era stato deciso.

            Così ciò che sarebbe accaduto a Trieste e nei territori vicini era lasciato all’arbitrio del caso.

            Di qui la tragedia di  quella terra di confine nella quale la violenza contro chi era considerato un nemico per etnia o religione o credo politico  si sviluppò al riparo da occhi indiscreti. Non vi fu infatti  come in altre regioni la morte del nemico  “messa in piazza”  con cortei di deportati che percorrevano le strade prima di essere trasferiti altrove, ma  la morte che sorprende nel buio  e elimina l’essere umano come un rifiuto,  gettandolo ancora vivo   in cavità dalle  quali era impossibile fuggire. Questo è’ ciò che accadde nella Venezia Giulia   nel 1943 prima , nel 1945 poi.

             La prima fase del massacro si verificò dopo l’8 settembre del ’43 quando, crollato l’apparato statale fascista,  circa 400 persone,  nel  vuoto di potere determinato dall’assenza di qualsiasi autorità statale, furono eliminate.  Fu l’esplosione di una violenza cieca contro chi aveva fatto parte della  precedente classe dirigente, contro i padroni delle terre, contro i funzionari fascisti … .

            A questa prima fase pose  fine dopo un mese  l’occupazione militare tedesca.

 La seconda fase si verificò dopo la caduta del Terzo Reich  e la fine della repubblica di Salò, quando il destino della Venezia Giulia sembrò legata alla tempestività dell’avanzata militare delle truppe legate al blocco sovietico e delle forze partigiane italiane coordinate dal maresciallo Tito per la comune guerra di Liberazione . Come a Berlino divisa in due  dalle forze militari che l’avevano occupata, anche per le terre del Nord Est  fu presto chiaro che l’autodecisione delle popolazioni locali doveva essere ignorata. Tutte le terre del Nord Est sarebbero  state entrate a far parte di un nuovo stato socialista jugoslavo Quanti erano e volevano restare italiani, anche se partigiani e compagni di lotta, andavano eliminati  ed in fretta .

            Le foibe dunque furono in questa fase  uno  strumento di epurazione politica, non solo, come due anni prima, l’ espressione di  una brutale resa dei conti contro la cosiddetta ”Bonifica etnica” attuata sin dagli anni venti dal fascismo, quando  provvedimenti diretti ad impedire l’uso pubblico della lingua slovena e croata, l’italianizzazione forzata di toponimi e cognomi e l’allontanamento di maestri, di preti slavi  avevano  creato una frattura insanabile nel tessuto sociale e posto fine ad una convivenza pacifica e secolare tra etnie diverse tra loro.

            Le motivazioni del fenomeno nel ‘45 furono però più complesse ed articolate.

            Non l’esplosione di una rabbia incontenibile, ma un preciso programma politico, che voleva eliminare tutti coloro che potevano opporsi all’annessione alla Jugoslavia, come apparve evidente  con il controverso eccidio di Porzus nel quale perse la vita anche il fratello di P.P Pasolini.

Fu un’epurazione preventiva attuata in un contesto a nazionalità mista, nel quale da secoli vivevano slavi , croati, sloveni , italiani….

            Difficile quantificare quanti furono gli infoibati, quanti i deportati e gli uccisi in prigionia.  Certo  un numero enorme !

            Nel suo  racconto di Antonietta Urciuoli  non si sofferma su questo  contesto storico, richiamandolo solo nel sussurro “Sono le milizie di Tito?”. Dipinge e racconta i vari momenti di quella notte. A   raccontare è un  bambino, Andrea, l’unico personaggio del racconto ad avere un nome, che  non sa e  non capisce cosa stia accadendo in quella terribile notte del 1945 quando con i nonni, i genitori, lo zio viene trascinato via da casa ed avviato verso una foiba .

            I buoni, i cattivi, la casa perduta ed amata come quelle cantate dai piccoli ebrei di Terezin, un bambino in fuga dalla violenza della storia!…

 Brevi pennellate  che potrebbero illustrare e rendere visibile anche  la storia di uno dei tanti bambini di oggi coinvolti nelle violenze in atto nel Medio Oriente ed in fuga da soli verso la salvezza in un qualsiasi giorno di un nuovo millennio sotto un tappeto di stelle, le sole capaci di offrire conforto di là di confini e barriere che gli adulti  senza cuore continuano ad erigere.

Gaetana Aufiero

QUELLA  STRANA  NOTTE 

  «Batti cinque!» dissi a mio padre. I palmi delle nostre mani destre fecero faccia e faccia.

            Lo stesso feci con il nonno, seduto nella poltrona accanto al camino. Aveva una coperta di lana, a quadroni rossa e bleu, sulle ginocchia. Le sue dita non erano ferme come quelle del mio papà. Faceva finta di battere e si aggrappava alle mie forti dita. Quella sera fu l’ultima del consueto gesto augurante la buona notte. Quella non fu davvero una felice notte. Dopo i baci e le strette di mamma e quelle  sempre calorose di nonna, raggiunsi la mia oasi: la mia cameretta. Ero stato un bambino veramente fortunato.

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            Come mi ricordava sempre mia madre: Avevo proprio tutto. Avevo, soprattutto, una famiglia con la EFFE maiuscola: Genitori attenti e responsabili, nonni amorevoli e uno zio che non si era voluto sposare. Egli era per me quel fratello grande che non avevo avuto. Eravamo in sei. Non mancava la vivacità e c’era sempre tanto da raccontare. Presi subito sonno e Morfeo mi tenne stretto tra le sue braccia. Ma solo per poco tempo. Improvvisamente fui svegliato da strani rumori: Un fracasso mai sentito prima. Mia madre mi vestì in un baleno. Le sue mani tremavano e il suo viso mi apparve smarrito. Era come se, a un certo punto, qualcuno le corresse dietro. Quel qualcuno c’era davvero. Era un uomo alto, con un viso lungo da far paura. Le gridava addosso come un forsennato «Sbrigati, sbrigati… per… ». Invocò invano il nome di Dio che, in quel momento, era lì tra noi a guardarci. Mia nonna la sentii implorare «Mio Dio, mio Dio, che cosa vogliono da noi!» Vidi il nonno che l’accarezzava e le sue mani tremavano come foglie. Avrebbe voluto stringerla a se, come faceva sempre. Avrebbe voluto proteggerla, come aveva fatto per una vita. Uomini cattivi che avevano invaso la nostra casa spinsero mio zio giù dalle scale. Notai il suo volto stravolto. Era come quello di mio padre. Entrambi, anche se giovani, non poterono far niente di fronte a quella ferocia e alle armi. Tutti: Piccoli e grandi, donne e uomini, giovani e vecchi ci ritrovammo a centinaia in strada.

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            Fummo costretti a seguirli senza indugiare. Lasciammo il nostro quartiere, la nostra larga strada e fummo portati via senza poter chiedere, senza poter comprendere. Noi bambini non capimmo davvero nulla di quello che stava accadendo e non potevamo immaginare la nostra fine. Mio zio e mio padre riuscirono a dire solo «Sono le milizie di Tito». «Mamma, chi è Tito?». «Non è il momento, Andrea! Un giorno capirai».

      Il tono della sua voce era tremulo. La mia domanda era stata davvero inopportuna. Che cosa aveva potuto spiegarmi in un momento tragico come quello. Era impossibile parlare liberamente. Quegli uomini con i mitra ti gridavano addosso e ti minacciavano.

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            «Taci, taci piccolo!», disse mio padre, «Tutto andrà bene. Non aver paura! Presto ci rilasceranno».

            Mio padre era davvero magico come sempre. Faceva l’allenatore di calcio. Quando la sua squadra stava per perdere, incitava i suoi giocatori, con tanto ardore che il risultato, come per magia, da negativo si trasformava in positivo. Ascoltandolo mi rincuorai. «Bene, Pelle ! Non ho paura !» biascicai tra me e me.

            Anche mio zio mi lanciò un incoraggiamento che gli costò un pugno nello stomaco. Gridò «Forza! Forza! Piccolo campione!». Mio zio conosceva bene mia madre. Sin da piccola, facilmente si spaventava. Mi avrebbe trasmesso secondo mio zio la sua ansia in quelle circostanze. A quel nome, mi ricordai dei suoi insegnamenti e di quelli di mio padre «Qualunque cosa ti accada nella vita, devi essere forte. Non devi permettere alla paura di farti a brandelli, perché tu sei un campione!».

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            «Sì, sono un campione», ripetevo tra me mentre camminavamo infreddoliti lungo strade sconnesse. L’aria veniva squarciata da grida e pianti. Di tanto in tanto, gli anziani stanchi cadevano. Erano costretti a tirarsi su a fatica, subito, per non subire altre percosse. L’umanità aveva ceduto il posto alla violenza. L’amore era scomparso. C’era solo ed esclusivamente violenza che diventava più nera del nero in quella oscura notte. Quegli uomini bruti gridavano, gridavano. Spingevano, soprattutto, in salita dove la grande colonna umana rallentava il suo passo. Era stanca, spaventata, impaurita, ignara del suo destino. Mio zio riuscì ad aumentare il passo e approfittando di una curva si avvicinò ai nonni.

            Mio padre fece lo stesso e, all’improvviso, sentii la sua voce, cara, rassicurante. Mise una mano sulla spalla di mamma e mi accarezzò. In quelle sue dita sentii tutto il calore dell’amore. Quello fu il momento più bello della mia vita. Riuscii a toccare il cielo con un dito. Ero tra mamma e papà. Mi sentivo al sicuro. Nessuno mi avrebbe fatto del male. Presto ci avrebbero lasciato. Tutto sarebbe stato solo e soltanto un brutto sogno da cancellare dalla mente. Non fu cosi!

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            Mio padre fu spinto dietro con la canna del mitra. Lo stesso fecero pure con mio zio. Poi ci costrinsero a camminare in coppia. Io ero con mia madre che non faceva altro che piangere. Non mi era di alcun conforto. Ma si sa, lo ripeteva sempre mio padre «Le donne hanno le lacrime facili. Aprono subito il rubinetto e via giù le lacrime».

            Mia madre, devo riconoscerlo, rispetto a mio padre non era molto forte, ma forse e lo capii dopo, davvero c’era da piangere. Mia madre mi aveva tenuto nel suo grembo per ben nove mesi ma  il cordone ombelicale non si era mai spezzato. Quante volte mio padre aveva gridato «E’ un uomo, dovrà crescere forte!». Mio padre batteva su una educazione spartana, mia madre su quella ateniese. Quando mio padre esagerava, lei interveniva con forza proprio come la principessa Sissy. Quest’ultima andò dal generale e si prese suo figlio e lo riportò a casa, non condividendo i metodi militari. Quante volte mia madre mi aveva difeso. Quante volte aveva gridato «Pelle, smettila è solo un bambino!». Quante volte la mia leonessa aveva cacciato gli artigli di fronte all’ostilità del mondo.

            Eppure quella notte continuò a piangere senza dire una parola. Le lacrime, cercava di trattenerle, ma esse scivolavano dai suoi occhi come gocce di rugiada sulle foglie. Dopo tanto cammino, ci fecero fermare.

            Vedemmo degli uomini con i mitra che facevano passare avanti le persone anziane. Improvvisamente i nonni ci passarono accanto. Poi vidi mio zio e mio padre. Nell’avvicinarsi gridarono entrambi «Campioneee…. Campioneee…. Ciaoo!!». Dopo un po’ erano tutti spariti nel buio della notte. Sopraggiunsero altri uomini.

        Avevano tra le mani fili di ferro. Ci fecero fermare e cominciarono a legare le nostre mani. Tutto avveniva con rapidità, come se avessero avuto tanta ma tanta fretta. Erano molto abili nel legare le nostre mani gelate. Il  mio polso destro fu legato con quello sinistro di mia madre.

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            Dopo i nodi, mia madre ebbe un’idea soltanto: liberarsi da me. Non riuscivo a comprendere davvero perché voleva staccarsi da me. Non era più bello starmi accanto? «Mamma, che vuoi fare?». «Zitto Andrea, zitto! Non farti sentire!».

            Agitava il polso come una forsennata. Il filo di ferro le penetrava nella carne. Sentii, dopo un po’, un calore sul mio polso. Era il suo sangue che gocciolava sulla mia pelle. Dopo tanto logorare era riuscita nel suo intento ma questo lo capii dopo non prima. Dopo ore e ore di attesa, incrociati, legati gli uni con gli altri, sentii nell’aria un grido «Si comincia!».

            Spari, urla….. e la fila umana comincò a muoversi. In quel momento pensai ai miei nonni spauriti, soli senza di noi. Il mio pensiero andò al mio Pelle. Rividi il suo sorriso che cercava di mascherare quando voleva assumere quell’aria severa di chi non piange mai.

            Eppure pensai «Senza la mamma e senza di me si sarà sentito spaesato. Forse più preoccupato per non averci potuto difendere e salvarci».  Pensai anche al mio zio-fratellone e a quanto mi faceva ridere. Anche la notte non fu nostra amica. C’era troppa oscurità. Avevano calcolato bene tutto. Il buio ci avrebbe sicuramente disorientato e la mente non avrebbe potuto produrre niente. Come gregge ci avevano fatto camminare per portarci alla morte. Mi sentivo triste ma, soprattutto, vuoto dentro. La mia mente si rifiutava di pensare. Ero troppo stanco. Eravamo tutti nelle mani di decine di uomini che si erano impossessati delle nostre vite.

            Gli spari si sentivano, l’uno dietro l’altro. Un uomo dietro di noi rivolgendosi al figlio diceva «Per non consumare molti colpi ci hanno legato. Chi sarà colpito, nel cadere si trascinerà l’altro. Speriamo, figlio mio, che sparino te e non me». Mia madre nell’ascoltare ciò che diceva l’uomo aggiunse «Speriamo che sparino me e non te».

            Devo riconoscerlo, non riuscivo a comprendere perché l’uomo diceva una cosa e mia madre un’altra. Lo compresi dopo quando fu sparata mia madre e le caddi addosso. Quando mi ripresi dopo la caduta, vidi mia madre senza vita. Presi la sua testa tra le mie mani e la strinsi forte, forte. Adesso ero io a piangere. Le mie lacrime erano di vera disperazione. Ero immobile, guardavo e riguardavo quel volto bianco, straziato ancora più  bello, nonostante i tanti rivoli di sangue.

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            La mia dolce mamma mi aveva lasciato per sempre. Ero completamente solo. Più piangevo e più volevo piangere. In una sola notte avevo perso le persone più care. I graffi, i lividi, i colpi che avevo preso non mi facevano male. Non avvertivo dolore, né  percepivo il caldo o il freddo. Mi sentii come anestetizzato. Non mi importava di ciò che mi avrebbero fatto.

        Non avevo più paura di quelle bestie feroci«Sono tutti morti, possiamo andare!» gridarono.

Finalmente il grande faro fu spento e tornò il silenzio.

            Restai laggiù non so quanto tempo. All’improvviso fui scosso da un grido «Campioneee….. campioneee….. , dove sei?» Scattai come una molla, come se dentro di me mi avessero dato una forte spinta. Mi ritrovai, senza saperlo, fuori dal fosso.

        Laggiù avevo  lasciato mamma e  con lei  il mio cuore. Improvvisamente fui avvolto da tantissime luci che correvano una dietro l’altra. Insieme formarono un tappeto di stelle.

            Era uno spettacolo meraviglioso! Mi circondarono, mi avvolsero e caddi in un sonno profondo tra le braccia del mio Pelle.

Antonietta  Urciuoli

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