LA FORZA DI UNA MAMMA

Vi presentiamo un altro racconto dell’amica Antonietta Urciuoli. La sofferenza può coprire gli occhi e chiudere il cuore, ma l’amore di una mamma può superare qualsiasi tempesta. Muovendosi tra i rischi del nostro tempo, la narrazione della Urciuoli riesce a trasportare chi legge nel suo mondo di speranza e fiducia nel futuro. Buona lettura!

“Nonnina, nonnina ci ha dato una bella camera!” disse Luca. Dall’altra parte del telefono la donna riuscì solo a dire: “Su, piccolo, dai descrivimela!”

Mentre il bambino non tralasciava nessun particolare, l’anziana donna cominciò a piangere e di tanto in tanto cacciava dalla tasca il fazzoletto di stoffa a quadri per soffocare i singhiozzi e per asciugarsi le lacrime. Poi, lo rimetteva, dove l’aveva preso, cercando di mascherare il tono della voce intrisa di pianto, limitandosi a rispondere solo con monosillabi: “Oh, sì!”

Mentre la conversazione tra il nipotino e la nonna si prolungava, il padre di Luca improvvisamente si buttò sul letto vuoto che era accanto a quello del figlio e, nascondendo la testa sotto il cuscino, pianse proprio come un bambino. La moglie, come sempre, dovette richiamare tutte le sue forze. Lo fece alzare e insieme uscirono dalla stanza di quell’ospedale che, da alcuni anni, era diventata la loro seconda casa.

Non devi mollare”. Non dobbiamo mollare. Non possiamo permettercelo.  Luca ha bisogno di noi. È un bambino e gli dobbiamo dare coraggio. Ti sei accorto di come sta descrivendo la camera e quanta serenità c’è nei suoi occhi?”     L’uomo la guardò per alcuni istanti, senza dire una parola. Poi inforcò gli occhiali, per nascondersi dietro quei vetri scuri ma le lacrime, quasi a fargli dispetto, scivolavano dai suoi occhi liberandolo, in parte, da quel macigno sempre più grande che aveva sul cuore. Più piangeva e più non smetteva di piagnucolare. “Sono un uomo, non posso piangere!” disse tra sé, come se volesse convincersi a tutti i costi. Imbarazzato, stringeva le labbra e, senza accorgersene, strideva anche i denti, in quei corridoi lunghissimi e larghissimi salutava gli infermieri che spingevano carrelli stracolmi di medicinali che gli passavano accanto, senza vedere i loro volti. Il rumore assordante delle ruote gli restava  impresso per ore nella mente come per fargli compagnia, per ricordargli la sua disperazione.

Lo sconforto di Giacomo

Tu, Angela, sei più forte di me! Credimi, non ce la faccio proprio più! Perché proprio a noi? Che cosa abbiamo fatto di male per meritarci tutto questo? Perché Dio se la prende proprio con noi? Abbiamo solo lui e Carla, sono tutta la nostra vita! Gli interventi, uno dopo l’altro, sperare, sperare e sarà sempre peggio. Ci stanno annientando, non c’è via di scampo! Angela, ci stanno solo illudendo! “Non ce la faccio più!” Parlava come un fiume in piena. Più parlava e più si agitava. Il tono della voce accorato vomitava tutto quello che aveva dentro di sé, accumulato da tantissimi giorni.  La moglie lo ascoltava mentre le lacrime erano apparse nei suoi occhi annebbiandole la vista. Lei abbassò la testa e cercò più di una volta di chiudere, con forza, le palpebre per ottenere la nitidezza che dopo un attimo apparve. Cercò di aiutarlo infondendogli quella forza, quel coraggio che ormai aveva perso da tempo e a cui lei, al contrario, si aggrappava per non precipitare nel nulla e abbandonare la sua creatura. Dopo la terribile malattia di Luca, il loro nido d’amore si era trasformato in un vero inferno. All’inizio le tensioni, le incomprensioni avevano trovato terreno fertile.  Bastava una parola e, all’improvviso, Giacomo scattava come una molla. Sbatteva la porta con una tale violenza da farla tremare.  Poi, cominciava a correre per le scale, saltando a due o a tre gradini alla volta, con il rischio di rompersi la noce del collo. Con quella corsa sfrenata cercava di scrollarsi di dosso tutto e voleva solo ed esclusivamente scappare, per sempre, da quella che una volta era stata una famiglia normale, felice. La sofferenza, purtroppo, era entrata tra quelle mura e, gradualmente, come un tarlo stava distruggendo ogni cosa, tutto! Nella folle corsa, Giacomo rivedeva immagini del passato che si susseguivano come le scene di un film. Rivedeva quei momenti dolorosi, riascoltando quelle parole chiare e incisive: “Mi dispiace, non sei riuscito a lasciare a casa i tuoi problemi”! L’utenza ha bisogno di volti sorridenti, non afflitti e tu non sei nello spirito adatto per continuare questo lavoro. Ti si legge in faccia che sei depresso! Ti sei lasciato troppo andare. Vai in direzione e chiedi l’aspettativa e, poi, si vedrà. Sono il responsabile di quest’azienda e se diminuiscono le vendite pago di persona.  Anch’io ho una famiglia a cui pensare.  Ricordati che tutti hanno i loro problemi, chi grandi, chi piccoli. I problemi si affrontano, non ci si lascia travolgere da essi. Queste ultime parole erano schiaffi, sempre più forti che si sentiva sulla faccia, ogni volta che risuonavano nella mente.

La pazienza di Angela

Ci volle molto tempo e molta pazienza da parte della moglie per non distruggere, completamente, l’amore che li aveva legati da oltre quindici anni. La malattia di Luca era stata davvero devastante: li aveva allontanati, trasformandoli in cane e gatto.

Vittoriosa e soddisfatta, essa rideva dei danni che stava provocando. Il padre del bambino che era in ospedale ricordava quello che era stato il suo ambiente lavorativo negli ultimi tempi: troppo ostile. Egli era sempre di cattivo  umore.  Litigava con tutti i suoi colleghi, li trattava  male, lo riconosceva.  Era sempre in guerra con il mondo intero e non aveva mai accettato l’aiuto di qualcuno, era troppo orgoglioso per farlo. Le ore della notte erano le più brutte perché l’oscurità oltre ad avvolgere la casa, attanagliava il suo cuore.

Restando da solo in casa e non riuscendo a dormire, trascorreva ore e ore girando per le stanze vuote e i cattivi pensieri predominavano nella sua mente stanca e confusa. “Vedo tutto nero!”, diceva tra sé; “Sono tutti contro di me. Hanno distrutto la mia famiglia. Adesso dopo il lavoro perderò tutto. Non ho via di scampo! Ho perso già mia madre, poi mio padre e adesso…”A questo terribile pensiero che cercava di scacciare perché terrorizzato solo all’idea, veniva attraversato da un brivido di freddo lungo la schiena e da un mancamento.” Dio mio! Dio mio! “Che cosa mi sta accadendo? “

Dopo ore di angoscia si addormentava in preda al panico e si svegliava madido di sudore e frastornato come chi, improvvisamente, si trovava in un luogo sconosciuto e non sapeva cosa fare. Angela, come  sempre accade alle donne, si ritrovò da sola ad affrontare quei terribili giorni. Cercò più volte di barcamenarsi e, soprattutto, di reagire allo sconforto. Sua madre le aveva sempre detto: “Figlia mia, se sta bruciando la casa, che cosa farai? Starai lì a guardare o correrai, immediatamente, a prendere l’acqua e a chiedere aiuto?  Vi sono momenti in cui non potrai permetterti di lasciarti andare, sarebbe troppo comodo farlo!”

La vita di sua madre le aveva dato l’opportunità di costatare, personalmente, come si affrontavano i momenti difficili. L’esempio ripetuto, spesso, da una donna d’altri tempi, le aveva permesso di trovare quella forza interiore, che si trovava da sola come quando stavi per annegare e dovevi salvarti.

Angela, dal canto suo, cercava di fare del suo meglio. Parlava con i medici, si documentava su Internet. Cercava di comprendere la malattia chiedendo a quelle persone che già erano state nella fitta rete della sofferenza.

Queste ultime le raccontavano, dettagliatamente, tutta la routine da attraversare, che era parte del suo stesso dramma. Un dramma che aveva un inizio e tardava ad avere una fine e che diventava sempre più angosciante e incerto.  La donna, sola nella sua battaglia, avrebbe voluto tanto condividere il suo dolore con l’uomo della sua vita ma questo desiderio era irrealizzabile perché il padre dei suoi figli aveva bisogno d’aiuto e lei lo sapeva benissimo e non poteva pretendere niente.

I racconti di Angela

Mentre il piccolo dormiva, lei piangeva perché consapevole dei frantumi della sua casa e soprattutto della sua vita. Stremata, delusa, addolorata approfittava della visita di qualche parente per allontanarsi da quella stanza e raggiungere il terrazzo dell’ospedale.  Lì, carezzata dal vento, alzava gli occhi al cielo e senza parlare lasciava al suo cuore infranto e lacerato chiedere l’aiuto di Dio. Piangeva, si sfogava per poi ritornare dal suo piccolo con un sorriso luminoso.

“Mammina, mammina dove sei andata”? Chiedeva Luca e lei, dopo averlo baciato, gli raccontava una storia che inventava al momento. “Sono andata in un posto magico per costruire una casetta al mio re di nome Luca.  Insieme sono venuti tutti gli uccelli e ora da soli la stanno completando perché, amor mio, dovevo tornare da te”.

“Dov’è questa casa?” È su un albero grandissimo. Tutti ti stanno aspettando per giocare con te.

Le sue storie erano bellissime, le sue parole ma, soprattutto, il tono della voce creava una magia che rallegrava il cuore di quel bambino dei suoi braccini erano ormai violacei e anche i tubicini erano stanchi di stare lì. La mamma, come sempre, riusciva a farlo gioire e, soprattutto, sperare. Luca chiudeva gli occhi e sognava insieme con lei. Gli parlava del Colosseo, della Torre di Pisa, della Reggia di Caserta, dei Sassi di Matera. Gli descriveva la Basilica di San Marco a Venezia e gli raccontava la grandezza di questa città che, insieme ad Amalfi, era stata una Repubblica  Marinara.  Gli parlava del palazzo  Ducale di Urbino, della Pentacoli di Siracusa e di tante altre bellezze, alcune delle quali diventate patrimonio dell’umanità. Vedevano distese pianeggianti, ricche di piante bellissime con fiori variopinti. Luca e la mamma, improvvisamente, erano accolti da una nuvola che li trasportava in giro da città in città. La nuvola, dopo un po’ di tempo, li fermò su un’isola, dove trascorsero splendide giornate.  L’isola era circondata dalle acque azzurre del mare e le rocce cadevano a picco con il loro splendido colore rossastro. Sull’isola Luca giocava con tanti bambini della sua età. Un giorno si fermò una nave. I bambini, riconobbero i pirati ma essi non erano cattivi, erano uomini buoni che portarono il piccolo e sua madre in giro per il mondo in cerca di tesori. Le palpebre del piccolo si abbassarono e un dolce sonno lo avvolse.

I racconti, le fantasie aleggiavano nella sua mente e il suo cuore diventava leggero. Un mattino, al risveglio, vide la mamma che dormiva sulla sedia a sdraio che, durante il giorno, era piegata e riposta nel bagno. Quando le palpebre della donna si aprirono al minimo rumore, i suoi occhi incrociarono quelli del piccolo che la stavano osservando. “Che cosa c’è, amore”? Chiese la mamma. Il piccolo le sorrise e le disse: “Grazie, mamma, per tutto quello che stai facendo per me”. La mamma lo abbracciò e lo riempì di baci per esprimergli tutto l’amore che provava per il  figlio.

Un’idea brillante

Angela faceva finta di essere sempre allegra, alla presenza di Luca. Sulle sue labbra aveva stampato un forzato sorriso. Le costava, davvero, un sacrificio perché il dolore che aveva dentro le graffiava tanto l’anima. Un giorno, questa infelice donna pensò tra sé: “Poiché il mio piccolo non potrà uscire, gli porterò il mondo esterno tra queste mura!” Questa brillante idea fu la sua carta vincente. Le diede una carica interiore indescrivibile.  Chiese aiuto ai suoi parenti e agli amici e grazie alla collaborazione dei medici e delle infermiere organizzò la festa a sorpresa per il decimo compleanno del piccolo. Tutti si attivarono e per Luca fu quello un compleanno speciale. Alla festa non partecipò il padre e la sorella che era rimasta a Napoli in casa di una cugina della nonna. Anche lei, come suo padre, si era rifiutata di partecipare. Il padre disse che non ce la faceva, non era dello spirito adatto e preferì restare a casa permettendo alla solitudine di fare altri danni. Infatti, cominciò a vedere delle ombre nelle camere e si spaventava perché confondeva un paralume per una persona e nella sua testa, la confusione aumentava.

Aveva staccato il telefono e aveva voluto tagliare i ponti con tutti. Trascurato nella persona, come non era mai stato, scivolò sempre più in fondo al baratro. Aveva bisogno d’aiuto, non poteva farcela da solo ma la sua cocciutaggine permise  alla  solitudine  di farlo  precipitare  sempre  più  giù. Tenersi tutto dentro ingigantiva il suo malessere. Si commiserava dicendo tra sé: “È facile dire agli altri che non bisogna piangersi addosso”.  Non si può giudicare se non si conosce il dolore!  Mi hanno costretto a chiedere l’aspettativa, lasciandomi ancora più solo. È vero che è stata anche colpa mia ma l’ambiente di  lavoro è come un’altra famiglia e qualcuno poteva anche aiutarmi invece ognuno ha pensato alla sua vita, alla carriera.  Del resto, chi non ha problemi perché dovrebbe addossarsi quelli degli altri”. Rivedeva i volti dei suoi colleghi, con la loro indifferenza e si rendeva conto che, in effetti, questa era la vita. “È tutta colpa mia”! Sono stato sempre un debole. Non ho saputo mai affrontare i momenti  difficili…” La mente  lo  riportò, come per gioco, al passato. Rivide, quella  notte, quando doveva vegliare in ospedale sua madre. Improvvisamente alle due del mattino andò via lasciandola con la badante.  La mamma fece chiamare l’altro figlio e appena quest’ultimo arrivò passò ad altra vita. Quel senso di colpa era lì, in fondo al suo cuore. Di tanto in tanto si ripresentava per ricordargli la sua vigliaccheria; non era stato capace di restare accanto  alla mamma e l’aveva lasciata da sola. “L’ospedale e i camici bianchi mi hanno sempre terrorizzato” disse tra sé e, improvvisamente, rivide quel mattino quando da ragazzi, durante un prelievo  alla vista del sangue era svenuto.  La mamma lo vide cadere a terra come un sacco vuoto con l’ago ancora infilato nel braccio.

“Non siamo tutti uguali”! Ci sono uomini forti, io non ci riesco.  “Somiglio a mio padre”. Le angosce continuavano a fargli compagnia. Gli ultimi tre anni erano stati i peggiori della sua esistenza. Tutto era accaduto all’improvviso. Era il mese di maggio, il mese della Madonna.  Rivedeva in casa il suo altarino, preparato da sua madre, quando era bambino: il banchetto con la tovaglia bianca, ricamata a mano e ritagliata, la  statuetta con tante candele e piante e fiori. Per tutto il mese, piccoli e grandi raccolti in preghiera.  Anche se si era dimenticata di lui.

Dopo un’influenza si era scatenato uno tsunami.  Non riusciva proprio a dimenticare. Riviveva quei momenti attimo per attimo. Tutti i particolari, anche se minimi, li ricordava chiaramente. Più s’isolava e più peggiorava  il suo stato  d’animo e di ciò non era consapevole.  Quelle volte che si recava in ospedale  non era di nessun  conforto, anzi  peggiorava la situazione, innervosendosi per tutto. Mentre Giacomo, da solo, viveva il suo dramma, Angela come una leonessa era accanto  al suo piccolo  e combatteva, giorno dopo  giorno, la  sua battaglia  trovando nella Fede il suo unico conforto.

La scuola dell’Ospedale

Di tanto  in tanto, i bambini malati  si recavano  presso  la scuola  dell’ospedale dove  c’erano degli  scaffali colorati con tanti libri. Lì insegnavano due maestre, essendo una sezione distaccata di un Istituto locale. Vi erano dei banchetti e delle piccole sedie colorate.  C’erano degli scaffali piccoli con tanti libri. C’erano anche i “Libri randagi”, quelli che si potevano prendere e portare via. Nel corso dell’anno ad animare quel luogo venivano gli alunni delle altre scuole per trascorrere delle ore con i piccoli. Un mattino del mese d’aprile, alcuni alunni fecero uno spettacolo che piacque molto ai degenti. Portarono la pianola e con un dolce sottofondo musicale dei ragazzi raccontarono delle storie.

I piccoli ascoltavano con grande interesse. La storia di Cenerentola venne rappresentata da una bambina che attraverso  il ballo catturò quei piccoli che si erano presentati a scuola con tavolette di legno legate al braccino per sostenere il tubicino della flebo appesa ad un gancio di un’alta asta.

I loro occhiuzzi erano fissi sulla ragazza  davvero  brava che, con il linguaggio del corpo, creava una vera magia. La storia la spiegava una narratrice che, grazie al tono della voce, riusciva a far rivivere l’antica storia che per generazioni è stata raccontata ed è piaciuta  tanto ai piccini. La danzatrice, che si muoveva leggera come una nuvola in quello spazio tramutato in castello, allo scoccare della mezzanotte scendeva dalla carrozza e, durante la corsa per raggiungere la sua casa, perdeva una scarpetta.

Gli occhietti dei piccoli sembravano lucciole, guardavano e ascoltavano come se, improvvisamente, si trovassero in un altro mondo, quello dell’incanto.

La festa di compleanno

La nonna lasciò la sua città partenopea e raggiunse Roma. Regalò a Luca un bel completo: pantaloncini color crema e una maglia turchese.  L’infermiera di turno aiutò la mamma a vestirlo perché c’era il problema delle flebo che non potevano  essere tolte. Grazie alla sua creatività la mamma coprì i flaconi con cartoncini colorati con le scritte; “HAPPINES e HAPPY  BIRTHDAY” e tante farfalline variopinte di diversa grandezza.

 Per allietare la giornata giunsero i medici CLOWNS con i loro nasi rossi e cominciarono a fare tanti scherzi con i loro palloncini che prendevano strane forme.

Tutti i bambini ridevano e si divertivano. La camera di Luca, quel pomeriggio, fu  trasformata: al posto dei letti c’erano tavoli colmi di dolcetti e poi c’erano le sedie per tutti i bambini malati della sua corsia.

Il primario era stato gentilissimo ma, soprattutto, umano e aveva dato il permesso per allestire e trasformare la camera. Sotto il soffitto  c’erano tantissimi  palloncini colorati; molto belli erano lo striscione e i tanti disegni fatti dai bambini nella scuola dell’ospedale. Si erano impegnati tanto e Luca fu felicissimo perché si rese conto che c’era tanta gente che gli voleva bene: medici, infermieri e soprattutto tanti piccoli come lui che, invece di stare tra i banchi di scuola, erano in un ospedale.

I bambini si divertirono tanto, trascorrendo un giorno diverso dagli altri; un giorno da non dimenticare anche se, rispetto alle altre feste, erano di breve durata perché la malattia rendeva i bambini deboli e poi c’erano le terapie che non potevano essere sospese. Quelle poche ore furono importanti per tutti, anche se gli adulti, di tanto in tanto, si guardavano, scuotevano il capo con tanto di amaro in bocca. Quando Luca spense le dieci candeline, si commossero tutti.

All’improvviso si riaccesero, con gran meraviglia da parte dei piccoli. Luca, sorridendo, le spense di nuovo e giù altri applausi e altri canti. Un medico intonò, seguito da tutti: “E Luca, è un bravo  ragazzo,  Luca è un bravo  ragazzo, Luca è un bravo ragazzo e nessuno lo può negar”. Gli occhi del festeggiato si illuminarono, era al centro dell’attenzione e ad un certo punto si sentì quasi imbarazzato. Come pesce fuor d’acqua. Tutto era stato improvvisato e tutto gli sembrava non vero.

La nonna Pina non fece altro che piangere ma nessuno le fece troppo caso perché gli anziani hanno la lacrima facile, come se, con il trascorrere del tempo, il loro cuore avesse perso quella durezza di un tempo. Gli anziani piangono quando vedono una mamma che abbraccia un figlio, si asciugano le lacrime se qualcuno si alza nel tram e li fa sedere. Luca la conosceva bene la nonna e attirando l’attenzione di tutti disse, facendo spallucce e allargando le braccia: ” Mia nonna piange sempre, anche se trova  una farfalla  morta”.

Un giovane medico, alto e bruno, ma soprattutto bello, si avvicinò all’anziana e le offrì, un pezzo di torta.  Così si ricreò quella gioiosità proprio  delle feste. Per alcune ore ci si allontanò con la mente da quel luogo dove, ogni giorno, una numerosa schiera di uomini e donne, medici e personale paramedico svolgevano  il loro lavoro  tra la sofferenza. Per essi era una vera missione perché un lavoro così duro lo si poteva  svolgere  solo con passione, altrimenti ti calzava troppo  stretto.

In quell’ospedale si era creata una piccola e grande famiglia. Le mamme si aiutavano a vicenda. In quello strano mondo lontano dalla routine della normalità si era in continua preoccupazione. Ogni giorno si pregava per qualche piccolo e si era in pena.  Le mamme tra loro avevano un comune linguaggio. Si capivano a volo e conoscevano la sofferenza. Ognuna di esse aveva un atroce dolore come se, all’improvviso, il loro cuore fosse preso e trafitto da lunghi aghi sottili.  Poi, lentamente, a goccia a goccia il cuore ferito perdeva sangue perché si era impotenti di fronte al dolore del proprio figlio.

 

Una decisione non facile

Ogni giorno Giacomo ripeteva, come un automa, le stesse cose. Si svegliava frastornato dopo ore d’insonnia.  Aspettava le 13.00 come un’anima in pena. Prendeva l’auto dal garage e si recava in ospedale. Nelle vicinanze della grande Azienda  Ospedaliera il suo cuore cominciava a battere sempre più forte. La frequenza aumentava dopo aver parcheggiato. Superato l’ingresso principale ai battiti del cuore, non più regolari faceva compagnia una terribile ansia. Costretto a fermarsi per alcuni attimi, faceva dei respiri profondi per evitare che il malessere predominasse e fosse costretto a essere ricoverato. Gli era capitato, già, più di una volta. Un medico al pronto soccorso gli aveva consigliato come fare anche se, ogni giorno, per lui era una  sofferenza  indescrivibile  che  pochi avrebbero compreso. Era sempre la stessa paura che partiva dai piedi per poi immobilizzarlo del tutto, privandolo della voce e facendolo sentire tanto ma tanto male.  “Si rechi da uno psicologo”! “Lei ha bisogno d’aiuto!” gli aveva consigliato quel bravo medico. “Intanto, cerchi di auto controllarsi e non permetta all’ansia di avere il sopravvento e prendere queste pillole”. Così decise di non andare più in ospedale due volte al dì, ma di recarsi solo di sera alle 19,00.

Alla moglie disse che doveva lavorare e non poteva più prendere permessi perché in azienda c’era tanto da fare. La moglie gli disse di non preoccuparsi e di passare da loro solo la sera. Giacomo era convinto che andare, una sola volta, avrebbe avuto il tempo per riprendersi e guarire da quella paura che lo ossessionava.  Quella sua decisione non fu tra le migliori perché?

Giacomo trova un nuovo amico

Un mattino uscì di casa e cominciò ad andare a zonzo per le strade dove aveva trascorso parte della sua esistenza. Senza accorgersene cominciò a guidare per chilometri senza guardare quanti ne aveva già percorsi e senza accorgersi quanti ne aveva già percorsi.  Si ritrovò verso le diciassette alla periferia della città eterna. Le luci di un bar lo attirarono. Parcheggiò l’auto. Si fermò per un caffè. Mentre lo sorseggiava, vide delle persone trascorrere del tempo accanto alle slot-machines nella camera accanto. Attratto, si avvicinò e volle provare più per ammazzare il tempo che per altro. Si sedette e cominciò a giocare. Più giocava e più avvertiva un piacere interiore: come se giocando si allontanasse, completamente, dai suoi pensieri. Come se la sua mente stanca si estraniasse e si trovasse in un altro mondo. Quel giorno, Giacomo aveva trovato un nuovo amico.

Il padrone del bar

Giulio aveva oltre sessant’anni. I suoi capelli, ormai, erano diventati di un colore grigiastro che lo rendeva ancora più affascinante. Nel corso della sua vita ne aveva visto di tutti i colori: di cotte e di crude. Grazie alla sua esperienza era riuscito a instaurare, con suo figlio Gianni, un rapporto  basato sulla fiducia e, soprattutto, sul dialogo.  Aveva voluto fare il contrario di quello che aveva fatto il suo genitore, sempre a lamentarsi, a rimproverarlo. Quelle frasi che gli ripetevano erano rimaste scolpite nella testa: Chissà che fine farai! Mangi il pane a tradimento! Te la vedrai tu e il Padreterno! Di sogni non si vive, ma senza pane si muore di fame! Giulio non aveva mai potuto affrontare con il padre una discussione, esprimere un suo pensiero. Era un despota, un uomo d’altri  tempi, un pater familias  che ti faceva pesare la sua presenza. Quando usciva da casa, era una vera liberazione. Non sapeva certo sorridere o accarezzare un bimbo.

Gianni era un giovane molto fortunato e poiché non era riuscito a trovare lavoro, il padre con la sua liquidazione gli aveva comprato un bar che, da alcuni anni, gestiva. Il padre di tanto in tanto andava ad aiutarlo per permettergli di uscire.

Da un anno il figlio aveva voluto inserire nel bar, alcune slot-machines, nonostante il padre glielo avesse sconsigliato. Giulio, s’innervosiva e quando c’era lui nel bar, faceva in modo tale da non permettere di giocare i ragazzi e, soprattutto, le persone anziane e le donne. Cercava di dialogare con questi clienti in caccia di fortuna ma i suoi tentativi si scioglievano come neve al sole. Quelle tre macchine nella mente di chi tentava la sorte erano diventate il nuovo casinò, che non aveva mai dato la possibilità alla classe media di poterlo frequentare.  I suoi utilizzatori erano solo i ricchi, invece con le slot-machines tutti potevano tentare. Bastava qualche piccola vincita e l’adrenalina si metteva in circolo e la mamma di famiglia, convinta di vincere tentava e ritentava, restando con pochi soldi in tasca e consumando parte dello stipendio necessario per arrivare alla fine del mese. Il pensionato, nella speranza di ottenere una vincita tentava la sorte, anche se a stento riusciva a vivere. Il gioco si era evoluto e come accadeva sempre, era diventato un’attività illegale, poi a poco a poco, il governo italiano aveva cominciato a legalizzare l’attività del gioco d’azzardo, regolandola con le tasse. Dall’anno 2006 si era cercato di fare qualcosa, applicando una tassa del 20% su queste attività che continuavano a rovinare la vita della gente. I danni erano già stati fatti e le storie da raccontare erano tante e Giulio le conosceva  molto  bene. Quante persone anziane aveva cercato di distogliere ma poi si era reso conto che chi cominciava difficilmente smetteva. Per Gianni era diverso, data la sua giovane età e l’inesperienza della vita, pensava solo ed esclusivamente al guadagno che, certamente, non era poco da quando aveva avuto in gestione quelle diavolerie. Da oltre un mese il denaro era aumentato perché quell’uomo dall’aspetto trasandato iniziava alle quindici e smetteva dopo le diciotto lasciando in quelle macchine diaboliche tanto denaro.  All’inizio le puntate erano di poco valore poi, col passare  del tempo, erano aumentate. Qualche vincita c’era stata  ma solo di rado. Giulio, quel sabato, ebbe un’accesa discussione col figlio. Gridando disse: “Devi fare qualcosa”! E’ un padre di famiglia, si sta dissanguando! Non puoi permetterti di essere indifferente. “Potrebbe essere tuo fratello”. Il giovane si arrabbiò, rispondendo in malo modo. “Non è mio fratello”! E questo non è un convento! È un esercizio pubblico ed io sto qui per guadagnare, non per fare l’assistente sociale. “È maggiorenne e deve assumersi le sue responsabilità” Il padre cercò di farlo ragionare ma fu inutile. Gianni era il padrone del bar ed era lui a decidere e dalle sue risposte si denotava che pensava esclusivamente al denaro.

L’intervento di Giulio

Giulio per alcuni giorni non andò al bar. Preferì stare lontano da quel luogo diventato un inferno per tanti uomini. Aveva saputo che alcuni giovani del quartiere si erano giocati, all’inizio del mese, l’intero stipendio. Poi, presi dalla rabbia, erano tornati a casa e avevano picchiato la moglie e i figli. Qualche donna stanca per la situazione che si era creata aveva preso i bambini ed era tornata a casa dei genitori. Le slot-machines  avevano  fatto  già tantissimi  danni e Giulio si mordeva  le labbra. Quel figlio che aveva tanto amato non l’aveva voluto ascoltare: molte famiglie erano sul lastrico. In America molti si erano uccisi perché erano, poi, entrati nel giro dell’usura. L’Italia, dopo anni,  stava imitando quel popolo. Gli usurai stavano aumentando e gli infelici cadevano in tanti come pesci nelle loro reti. Quelle macchine “mangiasoldi” si erano notevolmente incrementate.

Il Filantropo

“Nell’esistenza di ogni uomo, ci sono sempre un dare e un avere” questo pensava tra sé Giulio. Questa constatazione era il frutto dell’esperienza fatta durante gli anni. Rivide la sua infanzia non facile: il lavoro della terra era faticoso. A conti fatti si riusciva a stento a vivere. Grazie a sua madre poté frequentare la scuola. Al marito, che era contrario, gli disse che avrebbe fatto lei il lavoro del figlio.

A quella santa donna le doveva tutto. Col padre non aveva un buon rapporto e quando gli arrivò la chiamata alle armi per adempiere gli obblighi di leva, fu contento di andare via. Il giorno della partenza il padre non lo salutò e ci restò davvero male. La mamma, al contrario, lo strinse forte forte e gli disse: “Non tutti i mali vengono per nuocere! Buona fortuna, figlio mio!” Rifletté a lungo su questo proverbio e col passare del tempo diede ragione alla mamma.

Allontanarsi da casa, tagliare quelle salde radici non era stato facile. Ma l’esperienza di vita durante il servizio militare lo arricchì enormemente.  Poiché era un ragazzo solare, nonostante i tanti problemi familiari, fu subito accolto dai suoi coetanei. Tutti lo accettavano con piacere anche perché aveva una bella voce e sapeva cantare le canzoni napoletane.  La sera quando era in libera uscita con i ragazzi si recava in qualche pizzeria e trascorreva ore liete, mai conosciute. Dagli altri imparò come bisognava comportarsi e incontrò ragazzi preparati che suscitarono in lui il gusto per la lettura, l’interesse per la riflessione critica, l’amore per lo studio. Di bravi ragazzi ne conobbe, veramente, tanti e grazie a essi poté completare gli studi. Essi lo aiutavano, gli spiegavano gli argomenti e di maestri ne ebbe tanti. Giulio era felice. Era riuscito a farsi stimare, nonostante fosse un ragazzo del Sud e provenisse da ambienti poveri.  Pensava a sua madre, sempre a lavorare in casa, in campagna e sempre pronta a proteggere i figli, a sperare per essi una vita migliore della sua. La rivedeva fare da intermediaria tra l’uomo della sua vita e i suoi figli. Sempre a far rispettare il marito, nonostante il pessimo carattere. Lei, nonostante, urla e schiaffi, lo amava veramente. Guai a tentare di parlare male di lui. Lo giustificava, anche se sbagliava, e ripeteva ai sui fanciulli: “Onora tuo padre e tua madre”. Questo comandamento lo ripeteva, ogni volta, che Giulio si lamentava di quel padre troppo severo e del tutto assente nella sua vita. Pensava ai suoi fratelli e alle sorelle e sperava per essi in un futuro diverso. Qualche militare danaroso era un po’ viziato e quello che non mangiava lo dava a Giulio che, di grazia di Dio, non ne aveva mai vista tanta. “Napoli, Napoli cantaci O Sole mio” e Giulio cominciava a cantare per rallegrare tutti. Poi cantava O Surdato nammurato e i giovani ascoltavano ed erano felici. Un tenente colonnello lo prese in simpatia e gli consigliò di restare sotto le armi e fare carriera. Quel giovane con i chiodi sotto le scarpe e un vestito non alla moda era diventato maresciallo. Dovette a tanti la sua scalata in una società, dove la povertà segnava, per sempre, ma faceva anche apprezzare di più tutto ciò che si riusciva a conquistare grazie alla buona volontà e alle opportunità che la vita offriva. Per questo motivo Giulio doveva dare agli altri come tanti avevano reso a lui.

Giulio parte

Ottenute le informazioni e soprattutto l’indirizzo della suocera di Giacomo, Giulio  raggiunse quella che, una volta, fu la capitale del “Regno delle Due Sicilie”. Raggiunto il Vomero, chiese a una vigile la strada e il numero civico che di cui aveva bisogno di raggiungere. Quando l’ebbe trovato chiese al portiere: “È in casa la signora De Rosa Pina”? L’uomo sulla cinquantina si tolse gli occhiali, lo scrutò ben bene e poi rispose: a quest’ora non è in casa! “E voi chi siete”? Sono un lontano parente del marito, vorrei poterla salutarla. “Dovrà attendere parecchio perché la signora rincaserà fra un paio d’ore”. Però, se non vuole aspettare qui, la può raggiungere alla Villa Floridiana. È lì che si ferma con la nipotina quando esce dalla scuola. Grazie, grazie, gentilissimo! Seguirò il suo consiglio. Salutò di nuovo e si recò alla Villa. Strada facendo si chiese: “Come farò per poterle parlare? Certamente non sarà facile. Sono già stato fortunato perché la Villa è un luogo pubblico, invece a casa poteva non aprirmi la porta. Sono sempre un estraneo. Cercherò di fare del mio meglio, del resto, sono un istintivo e al momento farò ciò che riterrò giusto.” Entrato nella Villa Floridiana, cominciò a passeggiare tra i boschetti di camelie e ad ammirare le bellezze di quel luogo, meta delle passeggiate dei Napoletani che raggiungevano la collina del Vomero per tuffarsi nelle meraviglie della natura. Infatti, da quella villa si poteva vedere l’incantevole Golfo di Napoli che si apre dalla Campanella a Misero con le sue isole nel fondo e il Vesuvio e i monti di Castellammare. Mentre si godeva ciò che era stato edificato dall’architetto Antonio Piccolini per ordine di Ferdinando  IV di Borbone che aveva voluto offrire a colei che divenne sua moglie, donna Lucia Migliaccio principessa di Partanna e duchessa di Floridia, vide in lontananza un’anziana signora, seduta su una panchina tra serre di fiori e fontane con giochi d’acqua che davano a quel posto quell’incanto che rallegra il cuore. A poca distanza da lei c’era un gruppetto di ragazze che giocavano e il vociare festoso dei bambini si sentiva nell’aria. L’uomo titubante si avvicinò alla panchina e chiese alla donna il permesso per sedersi. La signora spostò la cartella della nipote e lo fece accomodare. Giulio, là per là, non sapeva che dire: come se, a un certo punto, la lingua si fosse attaccata al palato. Trovò qualche difficoltà. Per mascherare l’imbarazzo prese dalla tasca il fazzoletto e si asciugò la fronte, avendo  camminato per parecchio tempo.  La donna chiese: ” Vuole un sorso d’acqua”? “Sì, grazie” rispose l’uomo. Dopo essersi rifocillato, iniziò a parlare di getto. “Signora De Rosa, sono un maresciallo in pensione e devo parlarle di suo genero”. “Dio mio”! Gli è accaduto qualcosa? “No, no, si calmi”. Non gli è accaduto niente di grave. La voglio solo informare che, da tempo, sta giocando nel bar di mio figlio con le slot-machines. Ho il timore che stia perdendo tanto denaro e che, sicuramente, per soddisfare il suo vizio, dovrà ricorrere ai così detti strozzini che sono uomini senza scrupoli e gli toglieranno anche la camicia di dosso. La donna, come se fosse stata colpita improvvisamente da una legnata alla testa, prima sbiancò, poi, gradualmente volle essere informata di che cosa stava capitando.  Giulio, che era venuto da Roma per aiutare Giacomo, le raccontò tutto e insieme cercarono una soluzione.

La signora Pina a Roma

Nonostante l’età avanzata e i suoi acciacchi, la signora Pina non perse tempo e il giorno seguente partì per Roma assieme a Giulio. L’anziana si presentò in casa di sua figlia e i suoi occhi videro in che stato pietoso era ridotta la casa e il suo padrone. “Perché siete venuta”, chiese suo genero “Voi avete, già, i vostri problemi”. La donna rispose “Tu, mio caro, in questo momento ne hai più di me”! Senza aggiungere altro cominciò a rassettare ma, soprattutto, a mettere ordine in quel tugurio. Aprì il frigorifero e lo trovò completamente vuoto. Rivolgendosi a Giacomo disse: “Figlio mio”! Con calma preparati, poi scendi e vai a fare la spesa perché starò qui per alcuni giorni. Prendi, soprattutto, frutta e verdura, carne e pesce. Il giovane, imbarazzato, senza batter ciglio, cercò di dare una mano alla vecchia signora, rendendosi conto in che stato aveva ridotto la sua casa. Riempì tante buste d’immondizia e si sentì, umanamente come gli ultimi degli uomini. Il silenzio della suocera lo faceva sentire sempre più in colpa.

La saggia donna sapeva benissimo che tacere era necessario in quelle ore, per parlare c’era tempo. Dopo alcune ore d’intenso lavoro la casa sembrò rivivere: la luce e  l’aria entrarono in quelle stanze per troppo tempo chiuse e sporche. Tutto brillava e sapeva di fresco. Quando Giacomo ritornò con la spesa, insieme la misero a posto. La suocera preparò al volo un buon piatto di spaghetti, conditi con pelati ricchi di basilico fresco, e carne con insalata. Preparò anche una macedonia, perché si rese conto che, da giorni, il genero non faceva una corretta alimentazione. Verso le ore 15,00, Giacomo fu preso da una strana agitazione e disse alla suocera che doveva andare a fare una commissione. “Riposatevi, verrò a prendervi alle 18.30 e insieme andremo da Luca”.

La donna, stanca, si riposò. A letto le sue membra si distesero. Era tanto stanca che non riusciva a muovere i passi. Per fortuna che, all’ora stabilita, si era ripresa ma nel suo caso era stata la grande forza di volontà a farle lasciare il letto e soprattutto la mano di Dio. Giunti in ospedale Luca gridò:Nonna, nonna che bella sorpresa! “Resta con me, non andar via”. “Resterò, te lo prometto” rispose la nonna e mentre Luca restava con il padre, la mamma e la nonna si allontanarono per una frazione di tempo.

Sul terrazzo

Raggiunsero il terrazzo dell’ospedale ed Angela ringraziò la mamma dicendo: “Hai fatto proprio bene a venire, mamma, avevo tanto bisogno di te”. Lo so che, da anni, ci stai aiutando prendendoti cura di Carla ma, credimi, stiamo attraversando anni molto difficili. La mamma le toccò, leggermente, i lunghi capelli e le sorrise. Avrebbe voluto stringerla forte forte al cuore come faceva quando era piccola ma ora che era una donna non poteva più permetterselo. Dopo un po’ disse: “Lo so quello che state affrontando.  Vorrei poter scalare il monte più alto per risparmiarvi questo dolore, ma sono impotente. Figlia mia, sono venuta per farti aprire gli occhi. Non vuole il mio essere un rimprovero, però in questi anni non hai fatto altro che vivere solo ed esclusivamente per Luca. Ti sei completamente dimenticata di avere un marito e una figlia. Le ultime parole furono simili a una pietra lanciata in faccia a tradimento.

Angela andò su tutte le furie. Si scagliò come un giavellotto contro la madre. “È colpa mia”! È colpa mia se sto qui da tre anni! Mi accusi di essermi dimenticata di marito e figlia. Credete tutti che sia in villeggiatura e non in un ospedale tra ansie e angosce. Solo io so quello che passo. Voi sapete solo ed esclusivamente giudicare il comportamento degli altri. La mamma, come un parafulmine, fece da bersaglio. Ascoltò l’ira esplosiva della figlia che esponeva le sue ragioni e giustificava le manchevolezze. Quando ebbe finito di parlare, l’anziana signora rispose: “Nessuno ti attribuisce delle colpe”! Ti sto solo suggerendo che sia tuo marito, che tua figlia hanno bisogno di te. Tuo marito sta giocando da mesi alle slot-machines. Controlla in banca il denaro che tuo padre ti ha dato per i tuoi figli. Spero che non sia andato perduto”. Angela a questa notizia restò tanto male, si sentì crollare il mondo addosso, non tanto per il denaro quanto per ciò che era accaduto al suo compagno e lei ne era all’oscuro. Cominciò a piangere pensando alla sua bambina che non vedeva da molto tempo e gradualmente, si rese conto che la mamma non aveva tutti i torti.

Riflessioni

Il tempo era la migliore medicina. Esso in alcuni momenti era come il silenzio. Il tempo e il silenzio riuscivano a mettere a posto ciò che inizialmente era esploso come un vulcano e ti aveva travolto senza che tu te ne rendessi conto. “Abbiamo sbagliato tutti”. Non siamo riusciti a gestire nel modo migliore gli eventi. Doveva, forse, andare così. L’uomo non sempre è riuscito a scegliere le strade giuste da percorrere. Il più delle volte ha intrapreso quelle sbagliate. “È importante mettere riparo agli errori e sapersi alzare dopo le cadute” pensò, tra sé Angela. Le sagge parole della nonna di Luca  avevano portato una ventata di fiducia nel cuore di quei ragazzi provati dalla vita. Angela parlò a lungo con suo marito che le rivelò ciò che gli era accaduto. La nonna ritornò a Napoli e chiese il nullaosta alla scuola della nipote per iscriverla a Roma, nel quartiere dove era vissuta. La signora Pina chiuse la casa di Napoli e si trasferì nella capitale per stare vicino a sua figlia e alla sua famiglia.

Giacomo si rese conto che aveva bisogno di aiuto e si recò da uno psicologo. Durante le sedute e le riunioni di gruppo ascoltò tante storie simili alle sue e comprese i danni che possono provocare la “ludomania” che ti attanaglia e ti stringe in una morsa da cui non puoi più uscirne da solo. La sua esperienza drammatica lo segnò tantissimo ma allo stesso tempo lo rese più forte. Angela cercò di stare più a lungo con Carla facendosi sostituire in ospedale da sua madre.

La sorpresa di Carla

Drin.. Drin, fine della lezione. Si correva saltellando gli ultimi gradini della scala esterna della scuola. Quel fuggi, fuggi sembrava una liberazione, un’evasione, non c’era alunno che non correva e non salutasse i compagni che avrebbe rivisto il giorno seguente. Nell’aria si sentiva il frastuono, il caos. Un altro giorno di scuola era finito: professori e alunni lasciavano la strada e ritornava nelle loro case. Carla correva insieme ad altri ma, improvvisamente, vide da lontano sua madre. Si fermò, per un attimo, non le pareva vero, poi le andò incontro e la strinse forte forte. “Mamma, sei proprio tu? Che bella sorpresa! “Luca, con chi sta?” “Non preoccuparti, non è da solo, con lui c’è la nonna” rispose la mamma. “Adesso, insieme andremo al ristorante di Arturo e mangeremo il tuo piatto preferito”. Carla era felice! Faceva salti di gioia, come se avesse toccato il cielo con un dito. La sua mamma era lì con lei ed era venuta a prenderla, lasciando Luca in ospedale. Non le pareva vero, eppure, era vero. “Mamma, mamma. “Allora tu mi vuoi bene!” le chiese con le lacrime agli occhi. La mamma, strada facendo, le strinse forte la mano e quel calore passò da una pelle all’altra. Camminarono insieme e si sentirono felici. Era come se si fossero ritrovate improvvisamente. Percorsero con piacere i tanti metri di strada. Era davvero bello camminare, fermarsi alle vetrine, ammirare e fare progetti. La vita apparve essere diventata diversa, nonostante i problemi che si presentavano e dover affrontare giornalmente. Il vento giocava tra i loro capelli, sembrava sussurrare qualcosa, qualcosa d’inaspettato, qualche avvenimento imprevedibile, ma cosa? Giunti al ristorante, il cameriere le salutò cordialmente e le indicò un tavolo in fondo alla sala. Entrarono e quei capelli brizzolati colpirono Carla, tanto da chiedere alla mamma: “È papà”? Si é proprio lui. L’uomo si alzò e andò verso di loro, le abbracciò, le baciò e poi aggiunse: “Ho già ordinato”, fra poco ci serviranno. I tre si sedettero a quel tavolo imbandito, uniti e sereni in attesa di consumare il pranzo ordinato. Finalmente, uno spiraglio di luce e di speranza era entrato nei loro cuori e poter ricominciare a vivere. Che bello!

Luca torna a casa

Il primario non si era affatto sbagliato. Prima dell’undicesimo compleanno Luca fu dimesso e ritornò, finalmente, a casa. Per lui fu come toccare il cielo con un dito. Ad accoglierlo all’ingresso del palazzo c’erano tante persone che lo salutarono con i loro volti contenti di rivederlo, finalmente, a casa. Appena rivide quelle quattro mura, gli sembrarono più grandi e tutto fu meraviglioso. Dormire nel suo letto fu una gioia indescrivibile e la sua stanzetta lo accolse con i suoi profumi diversi da quelli dell’ospedale che si portava ancora dentro.

Carla insieme alle sue amiche aveva fatto dei cartelloni con scritte d’ogni genere e tanti palloncini colorati pendevano dal soffitto e tutto dava un’impronta di una felicità insolita. La nonna, dopo tanti mesi poté tornare nella sua città, nella sua casetta abbandonata che stava lì ad aspettarla, come anima in pena. Dopo quanto aveva sopportato, riuscì a riprendere le sue abitudini, tornare al mercato, salutare le persone che ormai chiamava per nome e con cui aveva diviso parte della sua vita. Ascoltò i richiami dei commercianti e andò alla ricerca di quei prodotti che non sempre si trovavano. Appassionata di arte culinaria, come buona napoletana preparava la parmigiana di melanzane. Il fruttivendolo la conosceva bene, sapeva quello che cercava  e che doveva venderle. Quando preparava la parmigiana, lo faceva svolgendo quasi un rito. Le piaceva prepararla a dovere ed era fiera del suo “Ruoto”. Infatti, dopo averle lavato ben bene, le tagliava a fette sottili per il lungo, poi le disponeva a strati su di un asse di legno e ogni strato lo cospargeva di sale. Poi su di esse posava un altro asse di legno con il rinforzo di pesi, in modo che le melanzane si trovassero come sotto una morsa. Grazie al sale e al peso, nel giro di due ore, le melanzane lasciavano colare tutto il loro succo, privandole di quel certo senso amarognolo, non molto gradito. Le fette, poi, venivano fritte nell’olio bollente, dopo averle impanate nella farina e bagnate nell’uovo battuto; la signora Pina le friggeva in modo perfetto… Dovevano essere bionde, croccanti e mai annerite. Dopo passava alla preparazione del ruoto che, come diceva la buonanima di suo marito, era una “vera poesia”.  Salsa di pomodoro sul fondo e uno strato di melanzane fritte, uno strato di fettine di  mozzarella, altra salsa  di  pomodoro e  nuovo strato di  melanzane con  mozzarella e formaggio, fino a colmare il ruoto. Infine a forno per una cottura rapida in modo che, le melanzane, s’insaporissero ben bene di salsa. Il marito, quando la aiutava a prepararla, le ripeteva sempre: “Pinù ricordati, che a cucina è comma a na femmena, vole essere pazziata“. La signora Pina era soddisfatta quando cucinava e questo piatto lo preparava soprattutto nelle feste solenni, sia all’Assunzione, sia a Piedigrotta.

Questa specialità della cucina napoletana andava di pari passo con le feste tradizionali, anche perché la cucina napoletana era stagionale, come si conveniva ad una cucina che seguiva la natura. L’anziana signora trascorreva la sua vita, fatta di semplici cose che la rendevano serena e appagata, coltivando le tradizioni. Nonostante gli acciacchi e l’età avanzata, grazie all’aiuto del buon Dio era riuscita ad aiutare la sua famiglia. Pensando a quello che aveva fatto, sorrise e comprese che i figli hanno sempre bisogno della mamma. Anche quando dicono che ne possono fare a meno, lei deve esserci sempre, soprattutto in un momento critico. Angela, con il senno di poi, ritrovò con la mamma un dialogo franco e si era reso conto che per troppo amore verso Luca aveva chiuso il suo cuore sia a Carla che al marito. Capì che il cuore ha tante porticine e bisogna aprirle per tutte le persone che amiamo. Giacomo da quell’esperienza molto negativa, a sue spese, toccò con mano la dipendenza al gioco e si prodigò nell’aiutare chi stava per cadere in questa trappola micidiale che può rovinarti per tutta la vita. Carla che si era sentita tanto trascurata ritrovò l’amore dei suoi genitori che solo per proteggerla l’avevano allontanata.

Questa breve e triste storia, non è altro che una sintesi di quelle insidiose tentazioni di oggi, alla quale non si ha sufficiente forza di resistere e che determinano quelle dipendenze che sono le cause scatenanti delle problematiche e delle instabilità della famiglia.

                                                                           Antonietta Urciuoli

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