LA PICCOLA SEDIA di Angela Lonardo

Una piccola sedia di paglia giaceva accanto al grande letto di ferro screpolato, l’alto comodino, con il piano di marmo bianco mostrava il rosario arrotolato e un bicchiere pieno d’acqua, messo lì la sera prima. L’immagine della “Madonna dell’Arco” troneggiava sulla parete, a protezione di tutta la famiglia. Era mattina presto, nella casa antica, i bambini dormivano. Anche il papà dormiva, profondamente. Chi, invece, non riposava era Angelina che, con la mano tremante, si sosteneva alla piccola sedia delicata ma resistente ai sussulti provocati dalle contrazioni. Conosceva bene quei dolori, quel sudore freddo sulla fronte, quel respiro affannoso che le veniva spontaneo per attutire le fitte, a volte insopportabili, che le laceravano la pelvi. Avrebbe voluto resistere ma qualcuno, là sotto, scalciava con rabbia per uscire, aveva fretta, non poteva più aspettare.

C’erano Fortunato, Enrico, Bettina e Anna che attendevano proprio lui. Non poteva rallentare! Non aveva ancora un nome quell’esserino rugoso che attraversava il tunnel avvolgente, mentre scivolava fuori dal ventre materno per guardare in faccia lo splendore accecante della vita. Dava già dimostrazione del suo bel caratterino battagliero… prepotente? Chi lo sa?! Angelina avrebbe voluto dormire ancora, in quel freddo aprile del 1928, ma si arrese alla premura del piccolo che doveva nascere, che voleva venire al mondo a tutti i costi. Così, il suo quinto figlio abbandonò la calda dimora e sgusciò fuori urlando, per affermare, la prima volta in assoluto, il suo essere sulla Terra, il suo diritto al primo abbraccio materno, alla prima poppata al seno di una madre che aveva già nutrito quattro figli, per affermare la sua voglia di aspirare gli odori di quella vecchia dimora, sempre fragrante di sapone e di cucina popolare, di carboni accesi nell’antica fornace che serviva a riscaldare l’alloggio e a cucinare il cibo, il pane, quello buono, quello fatto in casa, una volta a settimana, con la fatica delle braccia materne.

Emilio dormiva soddisfatto nei suoi primi bisogni di neonato, ignaro di quello che la vita rappresentasse, ignaro della fatica che lo aspettava per conquistarsi il diritto di stare al mondo. Dormiva rivolto a quella piccola sedia, poggiata a un lato del letto. C’erano lui e l’odore caldo e accogliente della madre che, ora, lo presentava ai fratellini, assonnati, mezzi nudi mentre, a piedi scalzi, andavano a conoscere quella creaturina. Non riuscivano, in quel momento, a considerarlo un fratello. Cercavano di osservarlo più da vicino, arrampicandosi a turno sulla seggiola. Era bruttino, spelacchiato, rugoso! Tuttavia, rubava loro la scena, l’attenzione della madre, la ruvida sollecitudine del padre Vincenzo. Quattro bambini abbandonati? «Questo piccolino è vostro fratello Emilio. Un po’ per volta, lo terrete in braccio e mi aiuterete a lavarlo e a vestirlo». No, non erano bambini abbandonati. Erano fratellini felici. Ora la famiglia era al completo. Bettina sarebbe rimasta per sempre ad assistere i genitori, anche dopo il matrimonio senza figli con Gaetano; Fortunato sarebbe diventato maestro elementare (‘o prufessore) e avrebbe vissuto a Bologna con Gioconda e i tre figli; Anna avrebbe seguito il marito in Australia; Enrico, agente di polizia, avrebbe girato l’Italia con Iole e le due figlie; Emilio avrebbe lavorato come impiegato e, come Enrico, avrebbe attraversato tutta la Nazione prima di arrivare a Monteforte Irpino dove, passeggiando per la piazza, aveva conosciuto Concettina, bionda, bella come un’attrice americana. Concettina! Davanti alla ripida scalinata della Chiesa di S. Nicola, aveva conosciuto la donna della sua vita, su quella scalinata era salito per sposarla e, dopo cinquant’anni, festeggiare con lei le nozze d’oro. Insieme alla sua donna, per cinquant’anni, dopo soltanto sei mesi di fidanzamento. Una suocera circospetta, durante quel breve periodo. Li sorvegliava, non abbandonava la vigilanza. Che dovevano fare? Si sposarono, dopo appena sei mesi. Un matrimonio solido, duraturo. Emilio, che andava da Lillino ‘o barbiere: sfumatura alta, capelli corti portati senza riga, fino a quando li aveva avuti, i capelli.

Emilio che faceva la spesa perché sapeva scegliere il meglio risparmiando, che andava a visitare i vecchi e scambiare due parole per far loro compagnia. In paese lo conoscevano tutti: simpatico, schietto, difensore dei deboli, sempre educato. Toglieva il cappello salutando la gente, in quel paese che lo accoglieva ma non gli apparteneva, dove tutti lo avrebbero ricordato per sempre come “don Emilio”.

Don Emilio, che aveva portato i pantaloni corti in un’Altavilla polverosa, con le strade di terreno battuto, che aveva studiato nella Benevento degli anni 40, che aveva rubato il cuore a tante ragazze con la sua ironia, i suoi occhi profondi e scuri. Don Emilio che aveva corso nei campi con gli amici d’infanzia, che aveva fatto scherzi ed era stato burlato. Emilio, con tre figli da crescere, da far studiare, da sistemare. Emilio… che mi teneva a distanza per nascondere le sue debolezze. Emilio nato ad Altavilla, un paese dalle case irregolari, sbrecciate, cadenti, con piccoli balconi, il ferro delle ringhiere consunto e arrugginito da pioggia e neve d’inverno, e dal sole rovente d’estate. Balconi da cui si spiava la vita del paese, si creavano storie suggestive, irreali, sui passanti, sempre gli stessi.

Altavilla che, un caldo pomeriggio di ferragosto, ha svelato il segreto di Pio, il barbone che viveva rannicchiato sulle scalinate del vecchio cinema di paese, indifferente a tutto e a tutti, indifferente al passaggio della ragazza smilza, dal passo veloce, la cui fretta doveva portarla chissà dove. Indifferente alla vita del paese che scorreva pigra, sempre uguale. Nessuno sapeva dove Pio dormisse, se qualcuno, pietoso, gli fornisse da mangiare e da bere. Portava lo stesso vestito da sempre, in tutte le stagioni e nessuno pareva chiedersi come facesse a non sentire freddo d’inverno e caldo d’estate, con i suoi calzini di lana, scarponi pesanti e una giacca consumata e stinta fatta di stoffa grossolana. Fu in quel pomeriggio di ferragosto che qualcuno scorse Bettina che, di soppiatto, guardandosi intorno per non essere vista, lasciava un paniere pieno di cibo e una brocca d’acqua nei pressi del cinema, distante pochi passi dall’abitazione, e, altrettanto furtiva, sgattaiolava dentro casa, mentre tutti sonnecchiavano per la calura estiva. Bettina, di quindici anni, ecco il folletto che provvedeva alle necessità del pover’uomo!

Ad Altavilla, alla fine di agosto, gli emigranti tornavano dalla Svizzera, dall’Australia, dal Belgio, desiderosi di rivivere le atmosfere paesane che, nei luoghi dove si erano trasferiti, non avrebbero potuto rievocare, perché territori troppo diversi dai nostri. Lungo il Corso, le bancarelle piene di caramelle colorate, dai gusti assortiti, erano stracolme di torroni fatti artigianalmente, fragranti di miele e nocciole. Si potevano osservare, distribuiti ai lati della strada, gli ambulanti, con i carretti pieni di noccioline americane, quelle i cui gusci avrebbero lastricato le vie del paese durante tutti i giorni della festa, o con i palloncini e l’attrezzo per gonfiarli che, da solo, bastava a polarizzare l’attenzione dei piccoli. Il venditore arrivava tutti i giorni, alla stessa ora, per tutto il periodo delle celebrazioni in onore di S. Pellegrino e, ripetendo sempre gli stessi gesti, con l’aiuto della moglie, allestiva il piccolo banchetto traballante e straripante di colori dalle forme tonde e ovali o allungate, da sembrare lucidi salsicciotti. Tutti, o quasi tutti i bambini, camminavano, stipati tra la folla rumorosa, con un palloncino attaccato al polso per mezzo di un filo di cotone sottile che, qualche volta, spezzandosi, andava ad infrangere la magia di quei momenti, lasciando il piccino nel pianto più disperato e i genitori spazientiti di dover provvedere a un nuovo acquisto per far tacere le urla stridule di chi aveva perso il suo piccolo tesoro colorato.

Durante quelle feste, la casa di Angelina e Vincenzo, illuminata dai bagliori di luminose gallerie di archi, piene di lampadine multicolori, si riempiva di gente chiassosa, sorridente, allegra. Tutti venivano invitati a sedersi davanti alla porta, su quella piccola sedia di paglia, sempre la stessa, riparata tante volte da ‘o zi’ ‘Ngiulillo che “solo lui ‘o sape fa’ ”. Gli amici osservavano i bambini che, dall’anno precedente, erano cresciuti e molto cambiati. Portavano con sé foto delle proprie vite trascorse in nazioni lontane, esistenze che apparivano, ai loro occhi, grigie e spente. Ricordando che, di lì a pochi giorni, il loro rientro sarebbe stato ineluttabile, gli occhi si ammantavano di malinconia. Subito, però, allontanavano quel pensiero per vivere fino in fondo la festa, tanto sarebbero tornati ancora, tante volte, trasportati da quel vigoroso gancio degli affetti familiari. La corriera sbuffava per lo sforzo di risalire le curve che riportavano Emilio al paese. Nel mese più caldo, i “battenti”, la mattina presto, inondavano le stradine di Altavilla per raggiungere il loro Santo e, inginocchiati, pregavano e imploravano, tra le lacrime, una grazia per sé, per un figlio, un genitore. Arrivavano fin sotto l’altare, con i piedi che avevano battuto ritmicamente il terreno per chilometri, scalzi per voto, neri di polvere, prima di arrivare, stremati, in quella chiesa che odorava di lumi accesi, di sudore, di umanità e risuonava di preghiere, di lamenti, di clamori. San Pellegrino restava lì, immobile, seduto, con le gambe incrociate poggiate su un cuscino, vestito in modo sontuoso ma addormentato, con la palma del martirio stretta nella mano sinistra. La banda attraversava il paese, la mattina, e accompagnava l’affollata processione la sera, fra litanie e rosari farfugliati, storpiati, masticati dalle donne come mantra di cui non si capiva il senso e preghiere recitate in un improbabile latino. Tuttavia, tutto era autentico, vero, rispettoso e rispettabile. La gente viveva con semplicità e la casa di ognuno era la dimora di tutti. La casa di Angelina, con un grande abbraccio, aveva sempre un posto per tutti.

Nel profondo del cuore mi è rimasto il ricordo di quell’estate del 1965 a Savignano Irpino. Era l’epoca in cui l’America esplorava Marte per la prima volta, mentre in quel sonnolento paese, ai confini con la Puglia, il tempo rimaneva fermo, immobile, incurante degli eventi troppo lontani dall’esistenza di chi aveva in cura solo campi pieni di grano. Avevo nove anni e mio padre, in mandato estivo quale impiegato delle Poste, decise di portarmi con sé a pensione dalla signora Incoronata che fittava camere a chi, per qualche motivo, doveva soggiornare nel paese. Durante le ore del suo lavoro, ero affidata a lei e alle sue nipoti, Rosaria e Faustina, più grandi di me di qualche anno. Insieme, facevamo lunghe passeggiate in campagna o attraverso il corso del paese, sempre inondato di sole. La sera, invece, uscivo con lui, per il paese, incontrando gente che, dopo poco, era già divenuta nostra amica, come la signora argentina che, per nettare i denti, bianchissimi, usava la cartilagine dei calamari e, abilmente, la passava tra dente e dente riuscendo, nel frattempo, a parlare e allattare il bambino, che aveva attaccato al seno, con quella semplicità di gesti intimi che oggi releghiamo nel chiuso delle nostre case, quasi fossero una vergogna da nascondere. Ero magnetizzata da quei rapidi movimenti dello stecchino tra i denti, da non riuscire ad ascoltare le parole, dalla cadenza spagnola, che la donna pronunciava a raffica, seduta su una sedia, davanti alla casa dei suoceri che, poverini, non capivano molto di ciò che andava raccontando.

Mio padre era misterioso, in quei giorni a Savignano. Spariva all’improvviso senza darmi nessuna spiegazione ed io sentivo, dentro di me, quel senso di vuoto che mi allontanava da lui, me lo rendeva estraneo, quasi uno sconosciuto. Quel senso di vertigine, come quando, in altalena, dovevo chiudere gli occhi per non mancare. Avevo chiesto a Rosaria se sapesse qualcosa ma nessuna risposta, nessun indizio, nemmeno un sospetto fu possibile scorgere in lei. Mia zia Bettina era troppo lontana, non aveva il telefono, non potevo raggiungerla, se non col mio affettuoso pensiero. Mi mancava. Mia madre? Non volevo coinvolgerla perché mi turbava l’idea di metterle in mente un qualunque sospetto. Ero cresciuta con il terrore che i miei potessero litigare, soprattutto per colpa mia, e uno dei due andasse via per sempre. La mia mente cercava ragioni che la giovane età non poteva conoscere. Scottava, nel mio cuore, il dolore dell’abbandono, del non essere abbastanza desiderata, e quella paura di allora ancora mi accompagna. Dove andava a trascorrere quelle due ore, nel pomeriggio, col sole a picco sulle tegole abbacinate e vibranti dalla rarefazione dell’aria? Mi affacciavo a un piccolo balcone, sporgente sull’uscio della pensione, e aspettavo per vederlo tornare, Emilio, con quell’aria innocente che non mi convinceva e non spegneva, in me, il dubbio che nascondesse qualcosa che mi avrebbe addolorato, ferito, deluso. Me ne stavo lì, imbronciata, incapace di manifestare la mia irritazione o di chiedere chiarimenti. Sentivo che mi allontanavo da lui, e non riuscivo a perdonarlo. Una domenica, presi la gran decisione: sarei andata a spiare mio padre. Quando, come sempre, uscì di soppiatto, sgattaiolai subito dietro di lui e, senza farmi notare, camminando, dove potevo, rasente i muri assolati, lo seguii per una stradina polverosa, piena di odori provenienti dalle cucine da poco usate per preparare il pranzo e dai panni stesi a seccare al sole. Avevo il cuore a mille, ogni tanto mi sentivo abbagliata dalla luce troppo forte del pomeriggio appena cominciato. Ero spaventata, sgomenta, ma dovevo sapere. Arrivai, finalmente, in un piccolo vicolo, il più nascosto e grigio che avessi mai visto in vita mia. I battiti del cuore divennero incontrollabili, le mie labbra ardevano dalla sete, sentivo il bisogno di sedermi, le gambe vacillavano, non avevo nascondigli. Sentii il cigolio di una porta che si apriva e un’ombra, che appena si scorgeva sulla soglia, arrivata lì con passo incerto. Mi sembrò di vedere un bastone ma, forse, avevo preso un abbaglio. Ero atterrita.

Rosaria e la signora della pensione, la zia Incoronata, affannate, mi stavano cercando in tutte le stanze, frugando persino negli armadi tra vestiti e oggetti appartenenti agli ospiti dell’alberghetto, chiamandomi, prima a voce più bassa, poi alzando il tono in maniera quasi isterica, con accenti acuti, chiedendosi dove mi fossi cacciata. Che cosa avrebbero raccontato a mio padre quando fosse tornato lì? Non trovandomi, si divisero per cercarmi. Rosaria rimase dentro, se mai fossi sbucata da qualche luogo ancora inesplorato, la zia uscì con l’inquietudine, da madre di famiglia, di non sapere dove andarmi a pescare. Nel paese tutti avevano percepito l’ansia, affacciati alle finestre, ai balconi, agli usci: «La figlia del signor Emilio è sparita». Quelli più intrepidi uscirono in cerca di me spargendosi per le vie. Appoggiata al muro, con le mani sporche della calce che ricopriva le pareti esterne di quelle povere case, pian piano, mi avvicinai alla porta che si era aperta e subito richiusa con un sinistro cigolio. Come facevo ora? Mi avrebbero scoperta, riempita di legnate… o solo di rimproveri. Sarei stata portata via, allontanata da mio padre. La paura non mi dava pace ma anche la curiosità. Così, mi decisi: lentamente, alzandomi appena sulle punte, afferrai la maniglia di quella porta maledetta dietro la quale, ogni giorno, mio padre era come inghiottito, e girai lentamente, cercando di non far rumore. Un gemito s’insinuò tra il silenzio della strada e il battito forsennato che proveniva dal mio petto. La porta era aperta. Scrutai, nella penombra, riconoscendo subito la sagoma grigia di mio padre e poi lei, la donna, l’oggetto dei miei incubi più atroci: Lucia. La conobbi quella domenica pomeriggio, in quell’alloggio terribilmente povero. M’impressionò lo stato di degrado dell’abitazione, spoglia delle cose essenziali. Tutto era tetro, di un colore grigio scuro come il fumo che doveva venire, nei lunghi inverni, dal vecchio camino, che nessuno pensava mai di ripulire e, forse, neanche di alimentare. Era sola e viveva di stenti. Mio padre Emilio le portava da mangiare e provvedeva egli stesso a cibarla. Mi ricordo la premura e la delicatezza con cui le accostava il cibo alla bocca e immaginavo le benedizioni che la poverina, in cuor suo, gli inviava. Il sorriso di Lucia, gli occhi opachi, persi nel vuoto, i peli scuri intorno al labbro superiore, l’alito caldo quando mi avvicinai a lei, la sua magrezza rimasero impressi per sempre nella mia memoria, come la scoperta di quella tenerezza sconosciuta che risaltava nell’umanità di mio padre e che, invece, a me sembrava negata. Senza fretta, tornammo verso il centro del paese. Le strade erano, insolitamente a quell’ora, piene di gente che, affannata, era alla ricerca di qualcosa… o di qualcuno? Al nostro passaggio, sentivo tutti gli sguardi proiettati sulle nostre figure, in cammino verso la pensione. Incoronata sobbalzò quando mi vide con mio padre. Diventò rossa dalla sorpresa, dalla vergogna di aver permesso la mia fuga, dal sollievo di vedere che tutto era sotto controllo. Fu allora che capii l’importanza di avere qualcuno che si preoccupasse per me. E tutto, di quel breve periodo, restò chiuso per sempre nel mio cuore, con il rimpianto dell’infanzia che ormai lasciava posto all’adolescenza e a tutto quello che il mio strano destino mi riservava.

Ora ti osservo, seduto su quella piccola sedia, come piccolo sei diventato per un male impronunciabile che ti mangia dentro, terribilmente, inesorabilmente, nonostante le cure ricevute.  Solo, come soltanto un uomo alla fine dei suoi giorni può essere. Solo, di fronte al dolore fisico, solo di fronte al dolore dell’anima, consapevole, sicuro di non poter più rivedere la tua famiglia e che i tuoi cari non ti avrebbero più rivisto. Per sempre!

«Dove mi trovo? Questa non è la mia casa! La mia casa era piena di gente festosa, di bambini, di donne, di paesani e paesane tornate da luoghi lontani, per la festa del patrono».

 «Chi lo sa a cosa stai pensando, così rannicchiato e assente. Sembra che tu non sia qui ma in un posto lontano della mente, là dove si perdono ricordi a me sconosciuti».

L’angoscia di trasformarti in una foto su una lapide, una foto sorridente ma senza vita si impossessa di te. Questi pensieri bruciano nel tuo cuore di uomo una volta forte, fiero, il pilastro della famiglia, il risolutore di ogni problema. Ora non sei più nulla, più nessuno. A tratti dimentichi persino il tuo nome. Emilio, chi è? Sono io o, forse, un amico lontano, un’ombra proiettata sulla parete, dietro la piccola sedia di paglia, da quel piccolo uomo seduto, rannicchiato, chiuso nel proprio nulla.

«Devo dire a tutti che non voglio fiori al mio funerale. Vorrei che facessero, in mio nome, solo del bene. A che servono i fiori a chi si addormenta per sempre? E ora dove sono? Voi chi siete che, come ombre, dal passato, attraversate i miei pensieri?»

«Resto io con te, non temere, ti faccio compagnia, fino alla fine. Non posso lasciarti.  Lo so che non sono la figlia che tu desideravi, che il mio viaggio nella vita ha preso strade diverse dai sentieri che tu tracciavi per me ma, alla fine, ci siamo incontrati e ci siamo conosciuti, veramente, come mai era successo prima, proprio in questo vicolo che ora ti porta dove io non posso seguirti.»

 Negli occhi, solo l’ombra di una vita lontana e una lacrima che si fa strada tra peli di barba incolta, scivolando, troppo lenta, dolorosa, bollente come lava, sul viso scarno, pallido di morte.

«Voglio restare solo. Ho dolori dappertutto, voglio urlare da far tremare le pareti di questo posto sconosciuto. Sento che sto per lasciare tutto, voglio soltanto stare da solo… e urlare».

«Non so se vuoi, veramente, che ti faccia compagnia. Mi sembri così lontano, con il viso crucciato e affacciato su pensieri che non riesco a comprendere, che vorrei decifrare per dialogare con la tua anima ma ai quali mi neghi l’accesso, con l’ostinazione che usavi quando non volevi farti conoscere veramente, perché (solo ora ho capito) la tua durezza celava una paura infinita, nascondeva quella debolezza che ora ti rende a me così caro».

 Questo pomeriggio d’inverno, con le gambe accavallate nel tuo solito modo, su una piccola sedia per bambini, tutta la vita ti passa davanti. Alfonso! Non so quante volte lo hai nominato, raccogliendo frammenti di vite passate degli amici di un tempo, di tua madre, di tuo padre, di fratelli e sorelle che ti avevano preceduto in quel viaggio senza ritorno.

«Lasciami da solo, voglio dormire, socchiudere gli occhi, non pensare a nulla… E invece no, penso a questa figlia tormentata, sola. Quando me ne sarò andato, chi la proteggerà, chi si preoccuperà che non si procuri dei nemici con quel suo modo di parlare sfrontato, di giudicare e combattere le ingiustizie, di sentirsi emarginata da chi non merita la sua stima?»

«Ora che ti ho conosciuto, ti perdo per sempre. Non è giusto, non lo meritiamo né io né te. Quante volte mi hai fatto piangere per quei rimproveri farciti di durezza che io vivevo come cattiveria pura! Mi lasciavi da sola, a lottare con un matrimonio fallito, un figlio da crescere, quando, nei momenti più bui dell’esistenza, mi guardavo intorno e non trovavo nessuno. Solo con il tempo ho capito che mi stavi portando per mano, di nascosto, lottando al mio posto quando hai scaraventato quell’uomo violento fuori da casa, quando hai riempito di dure parole i miei colleghi e i superiori per porre l’accento sulla mia onestà, che non mi permetteva di cedere alle lusinghe di facili arrivismi e, per questo, mi tagliava fuori dalle assurde logiche della corruzione. Mi stavi proteggendo, dal mondo e da me stessa. Mi conoscevi bene, incapace di non farmi nemici col modo irriverente di parlare agli arroganti e che celava tutte le mie insicurezze e il mio desiderio di giustizia, mai appagato, in questo mondo dove solo i prepotenti senza meriti progrediscono, a forza di calci ricevuti dalla politica cafona delle nostre terre. I miei sogni infranti e delusi da una realtà inimmaginabile che tu hai cercato di restituirmi rattoppata ma più vivibile.

Mi mancherai, lo so, per tutte le volte che mi sbattevi una porta in faccia».

Emilio, che sei stato l’uomo forte per eccellenza. Emilio, che ora parti e non puoi più tornare indietro se non nel ricordo di chi ti ha amato… e odiato. Tanto.

«Dove sono i miei nipoti, i pronipoti, i figli, mia moglie? Dove sono gli amici, tutte le persone della mia vita? Dove?»

«Ho capito, vestiti, ti aiuto io. Andiamo nei posti della tua infanzia, nel luogo dove hai ricevuto, impressa per sempre, la dolce carezza di Padre Pio. Ti parlerò, ti farò ridere, nonostante il dolore che provi, ti alleggerirò l’anima fino a non farti più sentire i morsi penosi del cancro. Ti tratterò come un bambino, ti vizierò e cancellerò con un colpo di vento le tue lacrime. Ti accompagnerò là dove potrai sentire ancora i profumi della tua infanzia e della casa paterna, sempre odorosa di pulito e di cucina di un tempo: la carne cotta sui carboni, la pasta al filetto di pomodoro, il formaggio, le mele, i mandarini gettati sul fuoco per profumare la casa, tutti gli odori della vita, del sapone di Marsiglia con cui le donne di famiglia usavano lavare il pavimento. Tutto ti farò rivivere, in questa giornata, e il ricordo di oggi ti accompagnerà per sempre, anche dopo la vita.»

Risento il tuo profumo di dopobarba e di sapone dall’odore lieve. Ora che non hai più bisogno di nulla, nemmeno dell’amore ritrovato quando hai, finalmente, gettato la maschera dell’uomo duro a tutti i costi. Ora che sei un bambino, piccolo, su una piccola sedia, addormentato. Per sempre.

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