Aziende nel vortice della finanza. Il focus di Giuseppe Rocco

Negli ultimi anni, con l’avvento del feticismo del mercato finanziario, favorito dalla globalizzazione sfrenata, alcune aziende manifatturiere hanno ridotto la produzione di beni ed incentrato l’attività sullo smercio di carte (titoli), le quali potevano accrescere i guadagni in modo spropositato. Questa faciloneria, sull’indirizzo di consigli funesti ed incendiari delle banche, cadute nella trappola di una visione super finanziaria, ha poi creato le condizioni di un fallimento dell’azienda.

La modifica della produzione di beni, vera ricchezza dell’imprenditore e della nazione, è stata distorta dalla realtà sana e genuina. La finanza rappresenta una fetta ancillare dell’attività, ma non può assurgere a perno dell’attività manufatturiera. Si pensi che nel mondo il rapporto a favore della finanza sull’economia reale esprime un rapporto di sette ad uno, un fenomeno decisamente eversivo ed inspiegabile, certamente foriero di danni economici. Un esempio banale: se un bicchiere raccoglie sette centimetri di birra (economia reale) e uno di schiuma (finanza), rientra nella normalità; ma se il bicchiere contiene un centimetro di birra e sette di schiuma, ecco che scatta l’anormalità. Assistiamo ad una forma di euforia irrazionale, come la definisce Robert Shiller, professore a Yale.

Falsità clamorose e l’esplosione della bolla speculativa hanno scatenato un terremoto, come si dimostra dal marzo 2000 al marzo 2003; il Nasdaq brucia ben 7000 miliardi di dollari; Microsoft vede la sua capitalizzazione di borsa scendere da 5521 a 252 miliardi di dollari; Cisco da 450 a 96 miliardi; Intel da 402 a 106 miliardi, Yahoo da 94 a 11,2[1]. Questi esempi sono un assaggio della sbornia finanziaria, che culmina nel 2008 con il fallimento della banca Lehman Brothers, i cui effetti sono giunti rapidamente in Europa devastando l’economia pura e il benessere sociale.

Nel contesto delle storture, le aziende falliscono e i manager accumulano ricchezze, tramite stock options e bonus. Ecco qualche dato: Gary Winnick, fondatore di Global Crossing con 512,4 milioni di dollari; Lou Pai della Enron con 270,4 milioni di dollari; Keenneth Lay, capo del colosso texano dell’energia, con 246,7 milioni. L’elenco è molto lungo di manager, presi dal delirio di onnipotenza, i quali divengono divi e dittatori con privilegi ingiustificabili. Nell’elenco vi sono pure manager italiani. Per completare, il mitico numero uno della GE esce di scena (racconta Rampini) con 880 milioni di dollari di azioni della multinazionale accumulati in carriera.

L’intervento della magistratura non si è fatto attendere. Il procuratore generale di NewYork, Eliot Spitzer, ha iniziato la lotta contro i colletti bianchi. In prima linea anche l’FBI contro le frodi commesse dal top manager. Infine gli azionisti avveduti si sono rivoltati contro i manager, come è accaduto alla Hewlett Packard. Lo Stato americano non è stato a guardare e, alla luce dei disordini economici provocati dai manager, è intervenuto con la legge Paul Sarbanes, per dare ai mercati una risposta forte ed efficace ai corrotti; inoltra ha un board indipendente, per occuparsi di monitoraggio delle società di revisione. Tutti gli interventi comunque sono risultati di scarso effetto, altrimenti non sarebbe accaduta la crisi del 2008 con il fallimento della banca Lehman Brothers.

Molto più efficace, anche se tardivo, l’intervento della giustizia italiana, iniziato a Milano con il “pool mani pulite”. L’azione drastica della magistratura milanese ha fermati corrotti con pene consistenti; ha addirittura sconvolto l’universo politico, avviando la sparizione di due grossi partiti, la Democrazia cristiana ed il Partito socialista. Una manovra, poi risultata destabilizzante, al punto da creare un vuoto politico, riempito dalla discesa in campo di Berlusconi. Ai giorni nostri il problema non è risolto: la corruzione continua a contagiare il sistema imprenditoriale e a rendere di bassa lega l’etica economica.

In Italia abbiamo registrato diversi casi, in cui il delirio della finanza ha indirizzato le scelte imprenditoriali verso le carte finanziarie, abbandonando la produzione. È il caso della Parmalat, che ha evidenziato un concentrato di truffe, falsificazione di documenti, distrazioni di denaro, corruzione a tutti i livelli, nella traiettoria perversa della finanza e delle carte, a scapito della produzione del latte. Il crack dell’azienda di Collecchio ha pure minato pesantemente la fiducia degli italiani nei confronti della managerialità nostrana. Non solo le aziende ma anche il sistema bancario è caduto nella trappola finanziaria, come nel caso della dichiarazione di insolvenza dei bond Cirio; in questi casi abbiamo assistito a cadute evidenti di etica professionale e gestionale. Le emissioni obbligazionarie effettuate da operatori che sfuggivano a ogni verifica del titolo di credito sono continuate nonostante gli accordi di Basilea 2, che prevedeva l’erogazione del credito collegata al possesso di una serie di requisiti. 

L’Europa risente della liberalizzazione sfrenata e patologica che proviene dagli Usa. I parametri del debito pubblico non vengono rispettati.

Mi rendo conto che con la finanza, in un giorno si possono guadagnare miliardi di euro, ma si possono anche perdere. Questa condotta è senz’altro contraria all’etica, alla ricchezza nazionale e alla tenuta dell’occupazione.

Va pure sottolineato che la spinta associativa che aveva creato i distretti industriali si è esaurita, perdendo l’enfasi del secondo dopoguerra ed entrando nell’abulia della debole economia. La struttura economica italiana si avvaleva di piccole e medie aziende, anzi le imprese familiari rappresentavano l’83% delle imprese familiari, secondo uno studio dell’università Bocconi di Milano. Questa impostazione è una forza nel sistema, poiché la partecipazione diretta conferisce lustro e potenza all’azione produttiva. Purtroppo alcuni economisti, traviati dalla globalizzazione, hanno dato poca importanza e si sono schierati sulle fusioni e sulle concentrazioni per favorire società forti. Certamente la società grossa tiene meglio la concorrenza internazionale, la miriade di aziende supplementari e complementari alla produzione sono una ricchezza del territorio, in quanto subiscono meno danni da venti di crisi. Inoltre la struttura vincente del modello italiano andava sostenuto in una nazione che deve trasformare poiché mancano le materie prime.

In questa tragica visione occorre una sanatoria, difficilmente realizzabile, a causa della visione iperliberale degli Stati Uniti d’America, i quali non riescono a giustificare controlli di sorta. Qualche segno di riscossa è stato avvertito negli USA. L’associazione di Chief executive, già l’8 luglio 2002, aveva acquistato intere pagine di pubblicità di grossi quotidiani per invocare con forza interventi radicali, al fine di ridare fiducia ai mercati e rendere più trasparente i bilanci e porre fine agli scandali finanziari, che da Enron in avanti, avevano funestato l’economia americana. A quel tempo Enron, Worldcom, Global Crossing, Tyco a altre stelle del firmamento borsistico avevano mandato in fumo, con le loro bancarotte, qualcosa come 400 miliardi di dollari, bruciando risparmi e posti lavoro.

Parafrasando Napoleone, per il quale ciascun soldato doveva essere consapevole di avere nello zaino il bastone del comandante, si può affermare che oggi spetta a ciascuna persona assolvere alla propria funzione di cittadino attivo. Una presenza tiepida viene dimostrata da tanti eventi: le foreste scompaiono, le riserve ittiche si esauriscono, la barriera corallina muore, i terreni coltivabili svaniscono sotto la spinta dei condoni edilizi, l’ecosistema sta per crollare, il rumore aumenta in modo spietato con martelli pneumatici continui, taglia erbe senza sosta, spandi foglie in crescita.

Senza etica diventa difficile vivere. Il grande economista Adam Smith ha affermato che dobbiamo credere nell’interesse del panettiere e non alla sua benevolenza nell’acquisire il pane, ma aggiunge che il congegno funziona sino a quando prevale la prudenza, senza dissipare le risorse. Tale responsabilità trova la sua unica fonte nell’etica, che resta la causa dell’efficienza del funzionamento del mercato. Qui scatta il superamento dell’efficientismo selvaggio, oggi imperante ma che non può continuare[2].

Prima o dopo deve prevalere la solidarietà come elemento intrinseco all’uomo. Ricercatori dell’Emory University di Atlanta, nell’utilizzare la risonanza magnetica, hanno scoperto che fare del bene procura una maggiore irrorazione in prossimità delle aree cerebrali simile a quella che si ha quando si vedono cose belle. Altri ricercatori di Princeton hanno lavorato in una nuova disciplina, la neuroeconomia, materia che indaga, su base neurale, i comportamenti economici. Hanno scoperto che nel cervello umano, il senso di equità pesa più del vantaggio personale e che le emozioni guidano le scelte economiche. Cosa succede allora? Semplice, la pubblicità sfrenata del guadagno facile e la cultura del denaro hanno frenato l’impulso innato. Vi è comunque da sperare bene. In questo recupero dell’etica gioca il singolo e la collettività contro le multinazionali e le aziende fantasma. Un esempio eloquente, quelli della cittadina di Hershey, sul finire del 2002, che scese in piazza contro la Hershey Foods Corporation (produttrice di quasi la metà dei cioccolatini americani) costringendola a rifiutare la proposta di acquisto della multinazionale chewing gum Wrigley, per evitare la perdita d’identità dell’impresa. L’azienda sarebbe divenuta lontana dai cittadini, avrebbe poi smesso di offrire iniziative sociali per il paese (scuole, parchi, biblioteche).

I sogni notturni rispecchiano in modo allusivo, criptico e traslato una realtà parziale surreale, ma i sogni per il benessere devono far affidamento su basi reali, con traiettorie di consistente sviluppo, mettendo da parte le spinte attrattive finanziare di breve periodo.

Un riferimento all’Italia, caduta nella trappola della finanza, soprattutto per una gestione allegra e finalizzata al guadagno a tutti i costi. Casi frequenti di aziende nostrane, spesso veri gioielli industriali italiani, hanno trasferito la produzione all’estero, pur di accrescere il profitto. Con la delocalizzazione, l’impresa sopporta spese irrisorie sul personale, in zone ove non esistono contratti di lavoro e rispetto per l’incolumità del lavoratore; in tal modo si sposta la produzione per il solo fine personale, nonostante vengano gettate sulla strada migliaia di lavoratori; viene pure ignorato lo spirito patriottico che dovrebbe essere insito in tutti i sentimenti personale, e sottrare un marchio qualificato, cresciuto e alimentato nella nostra Penisola. Lo spopolamento delle attività economiche è avvenuto nel silenzio e nel torpore dei governi. Soltanto a fine anno 2021 si è pensato ad una sanzione pari al doppio del contributo di licenziamento per l’azienda che delocalizza senza un piano e non rispetta i passaggi previsti degli esuberi. Finalmente una norma che frena il triste fenomeno della localizzazione, favorito dai nuovi mercati asiatici e in particolare della Cina.


[1] Quanto racconta Francesco Maggio nel libro “Economia inceppata”.

[2] Per approfondimenti si rinvia all’opera “Efficientismo selvaggio come icona” dello stesso autore.

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About Giuseppe Rocco

Esperto di commercio estero. Vice Segretario generale della Camera di commercio di Bologna sino al 31.1.2007; Docente esterno presso l’Università di Bologna, Istituto Economico della Facoltà di Scienze politiche, in qualità di cultore dal 1990 al 2006, di “Istituzioni Economiche Internazionali” e in aggiunta dal 2002 al 2006 di “Diritti umani”; Pubblicista iscritto all’Albo dei Giornalisti dal 1985; 450 articoli per 23 testate nazionali; in particolare consulente del Il Resto del Carlino, in materia di Commercio internazionale, dal 1991 al 1995; Saggista ed autore di 53 libri scientifici ed economici; Membro del Consiglio di Amministrazione del Centergross dal 1993 al 2007;Membro del Collegio dei periti doganali regionali E. Romagna, per dirimere controverse fra Dogana ed operatori economici dal 1996 al 2000, con specificità sull’Origine della merce.