Luisa Menazzi Moretti presenta IO SONO

È stata inaugurata ieri pomeriggio presso il Palazzo delle Arti di Napoli la mostra fotografica Io sono di Luisa Menazzi Moretti.

La mostra, che arriva a Napoli dopo essere stata esposta a Matera, Potenza e Lecce e che farà la sua prossima tappa a Milano, è composta da venti ritratti fotografici di grandi dimensioni che hanno come soggetto rifugiati e richiedenti asilo sbarcati in Italia.

Le bellissime foto sono affiancate da testi che raccontano le drammatiche storie personali raccolte dalla stessa artista.

Davanti all’obiettivo della fotografa ciascun protagonista ha con sé un oggetto particolarmente evocativo che ha scelto come segno per rappresentare la sua vicenda unica e individuale. C’è, ad esempio, la storia di Trésor venuto dal Congo che racconta: “Ho due bambini, avevo un terzo figlio ma è scomparso nell’acqua durante la traversata, anche mia moglie è morta” o la storia di Adama che ha solo 18 anni e viene dal Senegal: “Mio zio mi ha promesso in sposa ad un suo amico, era molto vecchio. Avevo 14 anni e ho deciso di scappare da sola, sono stata costretta ad andare via. O mi sposavo o mio zio mi uccideva. Prima sono andata in Gambia, poi in Mali e Niger, fuggivo di continuo, dormivo per strada. È stato difficile. Ero terrorizzata che mio zio mi desse la caccia e mi trovasse. Infine dopo più di un anno sono arrivata in Libia. È l’inferno. Mi hanno umiliato molto… no, non me la sento di raccontare altro. Dopo alcuni mesi che ero lì sono stata portata sulla costa e messa in barca. Non conoscevo la destinazione. È così che, un anno fa, sono arrivata in Sicilia.”

Approfittando del vernissage e della presenza di Luisa Menazzi Moretti le ho rivolto alcune domande.

Il suo lavoro si ispira molto alle condizioni di vita delle persone. Ho letto che ha incontrato i soggetti delle foto esposte in mostra diverse volte. Sono persone che hanno sofferto molto e sanno cosa sia la disperazione, per cui vorrei sapere come ha fatto a far comprendere loro quali fossero gli obiettivi del suo lavoro e perché voleva fotografarli?

Innanzitutto ho voluto fotografarli per capire io stessa chi sono queste persone. Per capire una parte della storia che stiamo vivendo, che è fatta di questo genere di migrazioni, è importante non concentrarsi sulla generalizzazione ma proprio sul particolare. Quindi, io volevo da tempo conoscere proprio le persone singole, parlare con loro. Ovviamente sono state introdotte a me dalle persone che poi hanno deciso di appoggiare la mostra: dalla Città per la pace dei bambini in Basilicata, da Sicomoro, ARCI Basilicata che si occupano di progetti di integrazione all’interno dello Sprar e sono stati loro a spiegare qual era lo scopo del mio lavoro. I soggetti ritratti sono arrivati volontari, hanno voluto raccontare la propria storia, nessuno li ha costretti. Erano felici di raccontare la loro vita, non erano per nulla delle vittime ma delle persone con una personalità molto forte.  Io sento con loro più punti in comune piuttosto che distanza e questo mi è piaciuto molto. Io penso che tutti i ragazzi dovrebbero entrare in contatto per sapere cogliere questi punti in comune. Ovviamente hanno delle storie tragiche per cui ad, esempio, Mohamed che è il più piccolino, aveva 16 anni nel 2017 e lui ne ha passate di tutti i colori. Alla gente che lo osserva appare molto più grande di età. In realtà io, invece, che sono madre, di fronte a lui ho subito visto un ragazzino con una storia tragica alle spalle come tutti gli altri che partono da uno stato, arrivano in un altro, anche lì vengono bistrattati finché non arrivano quasi tutti in Libia dove vengono fatti prigionieri. Quindi: picchiati, torturati, affamati, arrivano sulla costa e solo alcuni vogliono arrivarci, altri vengono semplicemente “trasportati” perché il loro datore di lavoro, che li ha schiavizzati, ad un certo punto se ne vuole liberare. Così vengono messi in questi posti e poi imbarcati anche se non vogliono partire. Quindi hanno veramente delle storie incredibili.

Ci può raccontare qualcosa dell’esperienza nel centro? Come mai lì?

Volevo da tanto lavorare su questo tema ma non trovavo condizioni di fiducia reciproca, dato che non tutti lavorano bene con i rifugiati richiedenti asilo, quindi mi ero un po’ dispiaciuta di questo e anche allontanata dal progetto. Poi è capitato che io conoscessi queste persone in Basilicata, loro rappresentano un po’ un modello per la seconda integrazione, sono molto bravi e così, ad occhi chiusi, ho cominciato il mio progetto e poi ho fatto vedere le fotografie. Non era stato proprio deciso cosa avremmo fatto insieme ma, alla fine, hanno visto il progetto e hanno deciso di produrlo.

I protagonisti provengono da luoghi diversi del mondo e noi occidentali non sappiamo neanche che nei loro paesi c’è la guerra e la persecuzione. Pensa che la mancata informazione sia solo un problema mediatico o anche politico?

Io penso che sia innanzitutto politico ma credo che sia anche difficile sapere delle guerriglie continue che esistono in questi posti perché molto spesso non sono dichiarate. Ad esempio, uno di loro, Mohamed, stava per essere fatto a pezzi da un gruppo di feroci giovanissimi solo perché lui e suo fratello stavano facendo campagna elettorale per un personaggio politico. Il gruppo dei feroci, armati di machete, è andato a casa loro per cercare di ucciderli e lui e suo fratello sono riusciti a scappare. Quindi, tornando alla domanda, non sempre una guerra è dichiarata. Mohamed è un bel ragazzo, ha un fisico scolpito, non è certo deperito e alcune persone, guardandolo si chiedono cosa sia venuto a fare qui giacché non mostra segni di sofferenza né di denutrimento.

Dice bene quando afferma che per noi sono tutti uguali, non ne capiamo l’origine, né le differenze, né tantomeno le personalità. Oggi, fra l’altro, la questione immigrazione è diventata un fatto di scelte politiche e poco si considera la vita sia di chi ospita che di chi richiede asilo. Le migrazioni sono eventi storici, i paesi di provenienza dei rifugiati sono stati vittime dell’imperialismo, molti sono, come dicevamo prima, in guerre fratricide perenni e c’è chi fornisce loro le armi per uccidere. Detto questo come mai, secondo lei, oggi non riusciamo a comprendere e ad affrontare nel modo migliore tale fenomeno?

Io penso che semplicemente noi non vogliamo assolutamente né comprenderlo né affrontarlo, adesso soprattutto. Per quanto mi riguarda, è stato un lavoro molto naturale, perché così è accogliere queste persone, allo stesso modo di come siamo stati accolti noi, i nostri nonni e i nostri figli che verranno accolti in altri paesi. Così, essendo un discorso talmente naturale, non riesco a comprendere dove stiamo andando e cosa stiamo facendo. Penso che molto sia un fatto di convenienza.

La mostra non è solo ciò che vediamo esposto oggi; è un video, un libro e due menzioni all’ International Photography Awards di New York. Il tema trattato è forte, emozionante e non è la prima volta che lei tratta di vite distrutte. Ricordo che ci siamo conosciute in occasione della sua mostra Ten years and eighty-seven days. Penso, quindi, che lei abbia una sensibilità particolare verso la sofferenza, il rispetto della vita e dei diritti. Volerli ritrarre, dà valore a chi non ne ha mai avuto e penso che sia molto bello che un’artista dedichi la sua attenzione ai disadattati. È ispirata dai suoi sentimenti o dalla sua razionalità?

Io sono molto razionale e questo mi aiuta a portare a termine un lavoro, grazie o a causa anche della mia formazione americana perché lì, a scuola, tutto deve essere incanalato e da una parte questo è un pregio da un altro è un gran difetto. Non ho un’intelligenza vorticosa e così esplosiva tipica della mia generazione che, invece, ha sempre vissuto qua. Sono, quindi, molto razionale ma penso di avere una grande sensibilità rispetto a certe tematiche, soprattutto a considerarci veramente tutti diversi ma anche tutti uguali.

 

Alla mostra era presente anche Valerio Giambersio, direttore della Fondazione Città della Pace per i bambini, uno dei produttori della mostra insieme a Cooperativa il Sicomoro e Arci Basilicata.

Anche lui, gentilmente, si è prestato a rispondere ad alcune mie domande.

Diceva Luisa che avete scelto di appoggiare il suo progetto. Per quale motivo? Ci avete visto un modo per dimostrare ciò che è effettivamente la realtà?

In realtà i motivi sono diversi: ci è piaciuto il progetto di Luisa perché intercettava molte cose che noi volevamo fare. La prima era far conoscere queste storie, perché i ritratti sono tutti  volti a noi noti in quanto li vediamo ogni giorno. L’altro motivo era avere un materiale che si potesse utilizzare per gli studenti perché ogni anno facciamo la campagna scuole, che è a respiro nazionale, in cui coinvolgiamo circa due o tremila studenti a seconda degli anni. La facciamo sia in Basilicata che fuori. Siamo stati in Friuli recentemente, siamo andati a Bari, in Piemonte, a Roma e anche qui a Napoli verranno degli studenti a visitare la mostra. Ogni volta abbiamo bisogno di materiale nuovo e interessante che sia stimolante per i ragazzi. Infatti la cosa che ci ha colpito molto è che questo è stato anche un progetto multimediale, perché non ci sono solo le fotografie ma anche il video. In più, abbiamo fatto una guida didattica che, insieme al catalogo, viene distribuita alle scuole perché così gli insegnanti possono replicare le attività formative. L’ultima cosa molto importante è stato proprio l’incontro con Luisa, che è una persona dallo sguardo puro, che veniva da un ambiente completamente diverso e per la prima volta si è approcciata a questo mondo e ne accolto tutte le sfaccettature in maniera molto intuitiva ma efficace. Questo ci ha colpito molto per cui abbiamo pensato che se era riuscita lei, con la sua sensibilità, a tradurre queste cose, forse molti altri insieme a lei, avrebbero potuto comprendere meglio.

Come funziona un centro come il vostro?

Noi, come Fondazione città della Pace il cui presidente effettivo è il Premio Nobel per la pace  Betty Williams abbiamo sposato da sempre il progetto dell’ accoglienza diffusa anche se all’epoca, si parla del 2009, era un progetto del tutto visionario. Adesso, invece, è diventata una parola molto conosciuta. Noi, quindi, abbiamo piccoli centri nell’aria interna della Basilicata, in particolare 13 comuni, con i nostri partner. In ognuno dei centri ci sono poche persone, una ventina massimo trenta che vivono in appartamenti indipendenti e si occupano di tutto: spesa, pulizia, mandano i bimbi a scuola, molti di loro lavorano quando escono dal progetto.

Quindi il loro sostentamento dipende dal progetto?

Diciamo che il progetto li mette nelle condizioni di fare, ad esempio, i tirocini formativi per l’inserimento lavorativo dopodiché se, ad esempio, la persona dove loro vanno a lavorare, che può essere un piccolo artigiano, ha bisogno di mano d’opera può anche assumere. Ovviamente non è che per il 100% accade questo però ad esempio, proprio stamattina, il responsabile del centro minori, (dato che noi abbiamo anche 10 minori) mi ha riferito che cinque di loro, una volta diventati maggiorenni, hanno trovato lavoro e sono stati assunti. Alcuni si trasferiscono anche al Nord a lavorare dopo essersi formati. Questa è la nostra filosofia: dare opportunità alle persone, trattarli come esseri umani, conoscere le loro storie e comprendere qual è il loro progetto accompagnandoli nella realizzazione dei loro sogni. Alcuni di loro intercettano questa nostra disponibilità e decidono di rimanere presso i nostri paesi e noi siamo ben contenti di averli.

Ringrazio Luisa Menazzi Moretti e Valerio Giambersio per la disponibilità.

La mostra sarà aperta dal 25 ottobre al 23 novembre il lunedì, mercoledì, giovedì, venerdì e sabato dalle 9:30 alle 19:30 e la domenica dalle 9:30 alle 14:30 presso il PAN di Napoli.

Maria Paola Battista

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About Maria Paola Battista

Amo ascoltare, leggere, scrivere e raccontare. WWWITALIA mi dà tutto questo. Iniziata come un’avventura tra le mie passioni, oggi è un mezzo per sentirmi realizzata. Conoscere e trasmettere la conoscenza di attori, artisti, scrittori e benefattori, questo è il giornalismo per me. Riguardo ai miei studi, sono sociologa e appassionata della lingua inglese, non smetto mai di studiare perché credo che la cultura sia un valore. Mi piace confrontarmi con tutto ciò che è nuovo anche se mi costa fatica in più. Attualmente mi sto dedicando alla recensione di libri e all'editing. Ho scritto, inoltre, diverse prefazioni a romanzi. Grazie ai lettori di WWWITALIA per l’attenzione che riservano ai miei scritti e mi auguro di non deluderli mai. mariapaolabattista@wwwitalia.eu