Occupazione caposaldo della dignità. Il focus di Giuseppe Rocco

L’approccio di Marx all’economia parte dalla filosofia politica di Hegel, il quale vede nell’esistenza delle contraddizioni dei conflitti la genesi del superamento attraverso la sintesi degli elementi costitutivi. Infatti Hegel nega l’immutabilità della natura, ritenendo che questa subisce le trasformazioni della storia. Marx raccoglie il metodo e lo trasforma, adattandolo all’economia, giungendo al concetto di materialismo dialettico. Ogni forma di produzione comporta determinati rapporti sociali che costituiscono la struttura economica di un sistema, su cui si eleva una sovrastruttura politica, istituzionale, giuridica, ideologica. Pertanto il capitalismo viene caratterizzato da una contraddizione fondamentale: da un lato è organizzato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, dall’altro i suoi processi di produzione richiedono rapporti sociali di tipo cooperativo. La dicotomia tra capitale e lavoro prelude alla lotta di classe, che sfocia nella società socialista, caratterizzata dalla proprietà collettiva dei mezzi di produzione e dalla socializzazione dei rapporti di produzione.

Marx ritiene valida l’impostazione ricardiana del lavoro fondato sulla quantità di opera incorporata in una merce e specifica che il tempo di lavoro deve essere socialmente necessario, ossia speso in condizioni di produzione normale. Si constata lo sfruttamento della classe operaia da parte dei detentori di capitale, sfruttamento che Marx sintetizza nella teoria del plusvalore. Il capitalista non acquista lavoro ma forza lavoro, cioè la capacità di lavoro di un operaio. Le critiche alla teoria marxiana fanno presente che non vi è stata la fase transitoria del capitalismo, ma ha trovato spazio nel processo di globalizzazione, come in Russia e in Cina.

La scuola neoclassica era preoccupata di problemi di microeconomia, ossia del comportamento di singoli consumatori o singoli produttori; Keynes irrompe sulla scena studiando i grandi aggregati del sistema: il reddito nazionale, il risparmio globale e l’investimento totale; per questo viene ritenuto il fondatore della macroeconomia. Con l’intervento dello Stato si stimolano gli investimenti; l’effetto moltiplicativo cessa di operare appena si raggiunge un nuovo equilibrio fra investimenti e risparmi. Lo Stato può ottenere risorse necessarie all’investimento mediante un programma di disavanzo del bilancio con il ricorso al prestito, il cui onere e la cui restituzione saranno coperti grazie al maggior reddito prodotto, che accresce anche il gettito delle imposte. Va pure tenuto presente che durante una perturbazione dell’economia entrano in gioco fattori psicologici che frenano la domanda e aumentano il risparmio.

L’etica qui trattata ha una valenza generale di politica socio-economica e non squisitamente economica, altrimenti si finisce nelle maglie della letteratura accademica. Infatti a livello di studiosi l’etica può essere generale e speciale; quest’ultima può articolarsi in bioetica, neuroetica ed etica sociale. Infine l’etica sociale si esprime in tre filoni: utilitaristica, contrattualistica, deontologica, delle virtù.

Donald Trump ha predicato e agito per costituire un popolo prettamente americano, come desiderava la Germania nazista che invocava un popolo squisitamente tedesco, ma i quattro nonni di Trump non erano americani ma europei.

Cerchiamo di capire da dove arriva l’autoctonia.Questo concetto si rintraccia nel quinto secolo a.C. a Atene, secondo il quale gli abitanti dell’Attica sarebbero stati generati direttamente dalla terra su cui abitavano, senza alcuna mediazione. Questa razza ovviamente vantava i propri antenati e addirittura il Re aveva per metà corpo di serpente, l’animale più ctonio e più terrestre. Il mito tocca l’inverosimile, spiegando che i cittadini ateniesi di quel tempo si presentavano veraci per il semplice motivo che quella terra non era mai stata abitata da nessuno sino al momento in cui essa stessa, cioè la terra, si era decisa a partorire i propri abitanti.L’autoctonia ateniese era palesemente una favola, ma il mito viene abilmente propalato attraverso i mezzi mediatici di allora. Di conseguenza soltanto i figli di genitori entrambi ateniesi possono usufruire della qualifica di cittadino e accedere all’assemblea, luogo magico della democrazia ateniese.

Rimanendo nel campo dei miti, possiamo rammentare Roma. Si narra che Romolo, al momento di fondare la città, avesse accolto uomini provenienti da diverse regioni. Ciascuno degli stranieri portava con sé una zolla di terra da dove proveniva, zolla che veniva gettata nella fossa di fondazione e mescolata con le altre, facendo assumere il diritto di essere romani a tutti i partecipanti. Al contrario di Atene, il mito di Roma si regge sulla terra e non sugli uomini, anzi erano gli uomini a fabbricare la propria terra. Il mito dei romani forse merita di essere diffuso con tutti mezzi mediatici che abbiamo a disposizione, per annunciare un credo di solidarietà necessario a una società multietnica.

Ripercorriamo le gesta del capitalismo e tentiamo di scoprire la genesi. Nel dopoguerra soltanto gli Stati uniti d’America sono usciti indenni dal disastro bellico e dal collasso degli imperi coloniali. Le corporazioni statunitensi hanno individuato e spostato le loro strutture produttive nelle aree del mondo dove i salari risultavano più bassi. Mentre le aziende americane diventavano transnazionali e indirizzavano materiali e forza lavoro verso altri territori esteri, si è affermata l’ideologia liberistica per offrire peso intellettuale e attrattiva agli investimenti. Il dualismo composto dal dogma liberista e dalla riduzione del controllo sul capitalismo ha cominciato a assumere dimensioni consistenti e preoccupanti.

In tema di etica, non si registrano molte prese di posizione forti in Italia per la salvaguardia dell’ambiente. Si cita l’estrazione del petrolio lucano affidato a Corporazioni francesi (Total), inglesi (Shell) e nostrane (Eni), che operano in condizioni di spaventoso inquinamento per la popolazione, al punto da creare allarme sociale per l’incremento dei tumori. Sempre vivo il ricordo dell’Ilva di Taranto, fermata dalla magistratura per le testimonianze di morti sul lavoro, senza le rivendicazioni dei cittadini; anzi vi erano ovvie richieste di riapertura per conservare il posto di lavoro. Si potevano calibrare bene le due cose: lavorare in ambiente sano. I mass media ci ricordano quotidianamente con insistenza le perdite umane per lavori in presenza dell’amianto. Considerata la freddezza delle grosse imprese a modificare le tecniche di produzione, diventa necessario pretendere dal basso (meglio se controllata dallo Stato) una rinascita. Si registrano movimenti di ambientalisti per difendere acqua, aria e terra, ma per ora pare tutto impostato in chiave politica senza un attento esame incentrato sulla natura e sopravvivenza dell’uomo. Notiamo Paesi ricchi di sottosuolo e di risorse naturali (es. Messico) asserviti alle Corporazioni americane, nella totale indifferenza del WTO, della Banca mondiale, del Fondo monetario internazionale.

Con un accordo, giunto alla nona edizione, l’Unione europea ha firmato un’intesa nel senso sopraindicato con i Paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico (ACP).

Gli obiettivi dell’accordo proseguono nella direzione delle precedenti Convenzioni e tendono quindi a eliminare gli squilibri strutturali che esistono fra i settori degli Stati beneficiari. In particolare si vuole aumentare il benessere delle popolazioni, migliorare la situazione socio-economica degli Stati interessati e creare strutture con profilo endogeno, che consentano loro di proseguire il processo di elevamento del tenore di vita secondo le proprie tradizioni.

Ecco la sequenza:

  1. Convenzione firmata a Youndé (Camerun) il 1963 (Youndé I);
  2. Convenzione firmata a Youndé (Camerun) il 1969 (Youndé II);
  3. Convenzione firmata a Lomé (Togo) il 1975 (Lomé I);
  4. Convenzione firmata a Lomé (Togo) il 1979 (Lomé II);
  5. Convenzione firmata a Lomé (Togo) il 1986 (Lomé III);
  6. Convenzione firmata a Lomé (Togo) il 1989 (Lomé IV);
  7. Convenzione firmata a Cotonou (Benin) il 2000 (Cotonou I);
  8. Convenzione firmata a Cotonou (Benin) il 2005 (Cotonou II);
  9. Convenzione firmata a Cotonou (Benin il 2010 (Cotonou II).

Purtroppo questa Convenzione non ha soddisfatto le speranze, intese a elevare il tenore di vita dei Paesi sottosviluppati, soprattutto per la gestione dei fondi comunitari, anzi per lo sfruttamento dei fondi medesimi alla mercé di organizzazioni malavitose. In altri termini è successo che:

  1. i soggetti richiedenti la sovvenzione comunitaria per aprire imprese nei Paesi ACP erano spinti dalla voglia di utilizzare i fondi per ripianare il bilancio aziendale piuttosto che favorire i popoli sottosviluppati;
  2. altri soggetti erano costituiti da società a sfondo mafioso per lucrare i finanziamenti;
  3.  si è avvertita l’incapacità dell’Unione europea a stimolare il processo di integrazione degli ACP;
  4. si è constatata la miopia degli Stati sottosviluppati a favorire la nascita di attività produttive, a beneficio del popolo.

La conseguenza appare evidente per tutti: in mancanza di un’integrazione socio-economica, i popoli tentano l’esodo e addirittura una vistosa transumanza, favorita dai mass media e da organizzazioni malavitose internazionali, come accade nel mare mediterraneo in cui barconi cercano di approdare in Italia.

L’accordo non ha funzionato per gli egoismi micro e macroeconomici. Bisogna riscrivere la Convenzione ed assumere un atteggiamento di pronto e garantito intervento per realmente assicurare la produzione delle merci nei Paesi in via di sviluppo.

Con questa armonizzazione si possono raggiungere diversi obiettivi. Principalmente si consente alla popolazione di utilizzare le risorse endogene presso il proprio territorio e quindi poter attendere alle occupazioni senza spostarsi dal luogo natio con una grande affermazione dell’individuo. Tale innovazione consolida la personalità individuale, accresce il senso collettivo, favorisce forme democratiche di Governo, rende pregevole la Comunità, arricchisce di strutture il territorio.

Inoltre le popolazioni non devono evadere ed emigrare presso i Paesi occidentali, i quali peraltro – se offrono lavori – sono di infimo servizio e spesso umilianti. Nel contempo i Paesi industrializzati potrebbero vivere senza la palpabile sensazione di essere invasi, in forza di una transumanza continua e lacerante. L’arrivo di masse umane, unite da fede religiosa specifica, finisce col contrastare con la buona armonia. Il Paese ospitante male accetta riti e usanze straniere, che diventano persino fastidiose se ritenute arretrate nella loro gestione. Gli immigrati faticano a entrare nelle idee nuove ed accettare la legalità e i costumi della nuova Nazione, che li accoglie.

La riproposizione della convenzione di Lomé conta sulle energie vere e tradizionali dell’Africa, molto spesso declassata sul piano delle possibilità. Durante gli anni sessanta e settanta il reddito pro capite nell’Africa subsahariana era cresciuto al qualificante tasso dell’1,6 per cento, dato non paragonale a quello dei Paesi occidentali ma certamente di grande rilievo per attestare le potenzialità territoriali. Questo dato indica che i fattori strutturali non possono essere la spiegazione della mancanza di crescita. Le cause vanno puntate verso la mediocrità delle istituzioni ereditate dalla colonizzazione, dalla diversità etnica, dalla scarsa istruzione, da un cambiamento politico di adozione di liberalizzazione del commercio, sotto la spinta della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale e dei cosiddetti Structural Ajustment Programs (SAP). L’improvvisa esposizione di produttori impreparati alla concorrenza internazionale ha portato al collasso delle poche e deboli attività industriali. Come conseguenza i Paesi africani finiscono per esportare prodotti non lavorati, come caffè, cacao, fiori recisi, con un’offerta esagerata al punto da far crollare i prezzi. Le pressioni sui governi affinché pareggiassero i bilanci portano a tagli nelle spese, a cominciare dalle infrastrutture, aggravando le condizioni dei produttori. Analizzando le ragioni e convertendo le economie con l’ausilio dell’Unione europea e riassumendo le leve della convenzione di Lomé, si può incoraggiare l’attività economica con l’aggiunta di una vitalità favorita da risorse di giacimenti minerari. Trovarsi in zone senza lo sbocco sul mare non è una giustificazione. Basta l’esempio della Svizzera, che ha pure quattro lingue e due religioni a freno della crescita.

Questi concetti vanno a collocarsi nella dimensione culturale della dignità dei popoli in via di sviluppo, che devono crescere senza le elemosine. L’aiuto occidentale riguarda tutti i settori, che vanno dalla formazione in genere alla sensibilizzazione sulle norme igienico-sanitarie. La poliomielite è stata quasi completamente debellata, grazie all’apporto deciso del Rotary International, che ha posto al servizio dell’umanità energie finanziarie e uomini disposti al sacrificio. Resta adesso una necessità impellente, inerente all’acqua, che manca e ove si trova non garantisce la salubrità, in quanto i pozzi sono inquinati: dissetarsi può voler dire ammalarsi di malattie intestinali.

La necessità di collaborare con i popoli africani e asiatici incombe sull’uomo occidentale, per affermare i diritti umani e nell’organizzazione delle comunità, ove la gestione della cosa pubblica deve avvenire secondo i crismi di democrazia e nell’intento di favorire lo sviluppo territoriale. uindiQQqqqQQuindi le popolazioni devono acquisire coscienza per sfruttare degnamente i terreni, favorire la tecnologia pulita e poter creare le condizioni per uno sviluppo razionale e sostenibile, sia pure in concorrenza con le imprese industriali dell’occidente.

La mancata razionalizzazione delle regole e del recupero dell’occupazione, vera fonte di dignità e di sopravvivenza, costituisce un rischio che può generare ondate di contestazione, originando quei fenomeni, definiti populismi. Con la evoluzione tecnologica, la questione dell’occupazione assume un volto nuovo, che va gestito, in quanto calano gli operai e crescono (meno) i tecnici.

Una svolta nella produzione internazionale proviene dalla Cina che comincia a delocalizzare, proprio come hanno sempre fatto le imprese industriali occidentali e contenere i costi del lavoro. La sorpresa nella sorpresa sta nella scelta del Paese destinatario: non in india o Vietnam o Cambogia ma negli Stati Uniti di America. Infatti Tianyuan Garments ha annunciato che aprirà una fabbrica tessile in Arkansas, per produrre 23 milioni di t-shirts all’anno al prezzo medio di 33 centesimi di dollaro[1]. Le confezioni ovviamente potranno fregiarsi del made in Usa.

Dopo la prima meraviglia del committente cinese e la seconda della scelta del destinatario (USA), abbiamo una terza effervescente sorpresa, consistente nella futura fabbrica interamente gestita da robot, con una velocità di produzione calcolata in 26 secondi a pezzo.

L’impennata di tecnologia contiene un messaggio disastroso per l’occupazione, in quanto i lavoratori, ossia operatori delle macchine, saranno soltanto 400 impegnati a Little Rock, capitale dell’Arkansas. Inoltre la contea dove sorge l’impianto, pur di acquisire l’investimento, ha offerto incentivi diretti alla Tianyuan per 3,2 milioni di dollari e agevolazioni fiscali nell’ordine del 65% sull’imposta sui redditi.

Alle stupefacenti novità in relazione all’evento tecnologicamente semantico e alla grave caduta dell’occupazione, apprendiamo che la tecnologia appare fondamentale anche nei settori tradizionalmente ad alta intensità di manodopera che aveva resistito alla rivoluzione terziaria e quaternaria, come il confezionamento tessile. Altra constatazione appare la leva fiscale, la quale diventa essenziale per attrarre investimenti e creare spazi occupazionali duraturi. Questo ultimo messaggio deve interessare l’Italia, se vuole stare al passo coi tempi.

In tema di investimenti il pensiero vola ai colossi del Web company (Amazon, Facebook), i quali sottraggono all’Italia, secondo la Commissione Bilancio della Camera, un gettito di oltre cinque miliardi all’anno.

Mancando una legge specifica italiana e pure un Trattato internazionale, per la resistenza USA, nonostante le recenti affermazioni delle Holding, le regole si prestano all’inganno. Il riferimento è la cosiddetta “stabile organizzazione” per il pagamento delle imposte, nel senso di stabilire ove opera un certo numero di dipendenti, una organizzazione commerciale, uffici produttivi. Le imposte possono essere pagate ove si trova la sede legale e fiscale, che solitamente è collocata in Irlanda, Olanda o Lussemburgo, ove le aliquote sono dimezzate.  Di recente, ossia nel 2017, l’Unione europea – trainata da Italia, Germania, Francia e Spagna – pone la questione alla radice, indicando che le imposte si devono pagare ove si opera anche senza la sede fisica e le vendite di pubblicità vanno fatturate applicando l’IVA.

Per populismo si intende la relazione fra gli intellettuali e il popolo, relazione secondo la quale gli intellettuali scoprono il popolo, lo compiangono per la sua sorte e decidono di mettersi al suo servizio. Nel linguaggio politico contemporaneo, questo termine si usa nell’accezione di un comportamento demagogico sprezzante.

L’ideologia populista sfocia in una politica della rivalutazione delle risorse proprie del popolo e di sostegno delle dinamiche delle società locali; trattasi di una politica dell’educazione che permette una divulgazione delle conoscenze esterne a beneficio di popolazioni che non possono cavarsele da sole. Il populismo si esprime in diversi profili per contestare il potere. In questo fenomeno entrano una serie di componenti socio-economiche e aspetti politico-culturali. Alla base troviamo il senso di frustrazione di fronte alla percezione di perdita di controllo e di vera democrazia in grado d gestire la globalizzazione. Persino si pensa a governanti che operano in un sistema ingiusto per avvantaggiarsi truccando le regole del gioco a scapito della maggioranza dei cittadini.

Il populismo denuncia le debolezze del liberalismo, divenuto incapace di difendere il proprio patrimonio di valori allorché hanno accettato di condividere gli imperativi dell’economicismo neoliberalista a scapito della dimensione civica e solidale. Il messaggio vuole che si eviti la visione eccessiva del libero mercato, come la vede Milton Friedman, e si cerchi di pianificare le scelte economiche secondo progetti razionali e ben definiti, in quanto anche i sistemi capitalistici necessitano della pianificazione per non cadere negli arbitri distorsivi del feticismo del mercato finanziario. Per rendere comprensibile il concetto, l’obiettivo deve porre le condizioni per un’uguaglianza nelle opportunità e non nei profitti, i quali sono sempre legati alle capacità.


[1] Notizia riportata dal quotidiano “La Repubblica” – Affari e Finanza dell’11 settembre 2017, in prima pagina.

©Riproduzione riservata

Print Friendly, PDF & Email

About Giuseppe Rocco

Esperto di commercio estero. Vice Segretario generale della Camera di commercio di Bologna sino al 31.1.2007; Docente esterno presso l’Università di Bologna, Istituto Economico della Facoltà di Scienze politiche, in qualità di cultore dal 1990 al 2006, di “Istituzioni Economiche Internazionali” e in aggiunta dal 2002 al 2006 di “Diritti umani”; Pubblicista iscritto all’Albo dei Giornalisti dal 1985; 450 articoli per 23 testate nazionali; in particolare consulente del Il Resto del Carlino, in materia di Commercio internazionale, dal 1991 al 1995; Saggista ed autore di 53 libri scientifici ed economici; Membro del Consiglio di Amministrazione del Centergross dal 1993 al 2007;Membro del Collegio dei periti doganali regionali E. Romagna, per dirimere controverse fra Dogana ed operatori economici dal 1996 al 2000, con specificità sull’Origine della merce.