Onirismo del divertimento. Il focus di Giuseppe Rocco

La parola divertimento spesso ingenera confusione non tanto sul significato ma sul mezzo attuato per raggiungerlo. Non è stato ancora definito con esattezza quali sono le attività che divertono. Intanto esiste un nutrito ventaglio di attività allettanti che rispecchiano generalmente tutti i periodi della vita. Nell’età infantile il gioco è senz’altro un passatempo e spesso diventa un lavoro e una necessità. Il gioco infantile, ricco di fantasia, ricama le trame più disparate e rientra in una gamma di espressioni difficilmente elencabili. Sovente questi giochi possono aver corso senza l’esistenza di giocattoli, e si ha quando consistono nel rincorrersi, nel nascondersi, ecc.

La problematica diventa più complicata allorché il gioco deve essere definito nell’età adulta, poiché non viene ad identificarsi col lavoro come avviene per i bambini. Il gioco per gli adulti rappresenta uno sfogo e spesso un rilassamento per i lavori, i sacrifici e le preoccupazioni quotidiane, al punto da regalare un effetto catartico. Ora viene correlato sempre con più insistenza al tempo libero. Tuttavia nonostante i luoghi comuni, il divertimento rientra in un ampio repertorio di espressioni difficilmente inquadrabile in una casistica esaustiva. Ciò che può essere ritenuto divertente per uno non lo è per un altro. Questo concetto essenzialmente realistico contrasta con le manifestazioni correntemente espresse dai mass media, che tendono ad incasellare tutto, compreso le forme di sfogo. I mass media propongono fra l’altro la gioia della stampa, della televisione e della radio, promettendo al pubblico uno sfogo-frustrazione in quanto unisce al relax quella impossibilità di vivere direttamente l’evento o l’episodio.

Il mezzo di comunicazione conferisce l’impressione di porgere allo spettatore o al lettore condizioni di coinvolgimento in un processo unilaterale, in cui si vive delle prodezze degli altri. Si partecipa così a manifestazioni continue e a caroselli inconsueti per rimanere alla fine amareggiati e inconsciamente insoddisfatti. La partecipazione passiva conduce ad un impoverimento delle comunicazioni concrete dell’uomo col suo ambiente. Una cultura che costituisce una sorte di sistema neuro- vegetativo da cui la vita reale dell’immaginario e l’immaginario della vita reale traggono linfa, secondo un duplice moto di proiezione e di identificazione.

Il divertimento non va confuso con l’ozio, che viene additato come quel complesso di momenti in cui l’inerzia prevale o assume dimensioni assolutistiche. L’ozio, che si differenzia dallo svago e dalla realtà, è una pianta che attecchisce lentamente ed ingenera i propri germi progressivamente. La capacità di “non fare” va inquadrata nella capacità di sfruttare le altrui opere per la fruizione e lo spreco in una poesia degenerativa. Ogni stagione ha il suo volto e una sua anima. La stagione ritorna puntuale e inesorabile, incurante del disordine dell’uomo, a rinnovare le sue speranze e a riproporre i temi. La volontà ad accettare la poesia dei ritorni e l’impegno ad introdurre nuovi spunti innovativi dettati dalla fantasia, se opportunamente stimolata, sono forieri di intuito del saper vivere.

Accostarsi al divertimento varia a seconda dell’età: dai giochi ludici del bambino, alle partite di calcio in gioventù, alla caccia ed ai viaggi nella età mediana, al gioco degli scacchi e della dama nell’età matura e infine al gioco delle carte e la lettura nell’epoca senile. Prescindendo dalla tipologia, occorre in noi uno stimolo a porci in un contesto di attività, ove alcuni lavori possono gratificare l’intelletto come l’esercizio ludico.

L’uomo viene integrato nelle società dei consumi al punto tale da accettare persino l’asfissiante pubblicità. Infatti questa viene rivestita con corollari divertenti e leggeri al punto che spesso diventa un mini spettacolo; ovviamente uno spettacolo per una società incanalata secondo presupposti di persuasori occulti.

Soprattutto il nuovo divertimento imposto dalla cultura di massa scaccia i valori, compresa la religione. Anzi la nuova religione diventa la felicità mondana o meglio l’assicurazione del welfare state, di un benessere che non è ricchezza di valori ma di comodità. In pratica La felicità non dipende dalle condizioni esterne, ma dal proprio stato interiore. Due persone possono trovarsi nello stesso identico posto e fare la medesima cosa; possono avere gli stessi soldi e lo stesso prestigio. Eppure uno può essere contento e l’altro infelice.

Traspare così la fatuità della cultura di massa, incapace a consentire la realizzazione del proprio “io” nel momento in cui l’uomo tende a scaricare i propri veleni del fisico, intossicato dalle fatiche quotidiane.

Un altro segno negativo dello spirito dei tempi, si evince dalla diffusa mentalità che circonda soprattutto i giovani quando si sentono “costretti” a divertirsi. La schiavitù del divertimento svuota il cervello, dilata le lacerazioni, debilita l’individuo. Un esempio tipico del genere ricorre nelle abituali festività (come ferragosto, Natale, Capodanno), nelle quali diviene quasi un obbligo trovarsi in compagnia o produrre allegria. Non potendo rimanere in casa la notte di Capodanno, perché la società dei consumi ci obbliga a uscire, spesso accade non solo di non provare divertimento ma addirittura di annoiarsi, o perché la comitiva non è l’ideale o per un’intervenuta imprevista delusione.

Il mancato divertimento è sbilanciato dal fenomeno psicologico dell’autoinganno, cioè del fatto di poter raccontare nei giorni seguenti di aver partecipato all’escursione, al ballo, alla gita, quasi a giustificare di aver ubbidito ai dettami dei mass- media. La ricerca esasperante del divertimento è causa di noia, mentre una disposizione più serena può consentire un’auspicata realizzazione del proprio “io”.

Si assiste ad una intollerante standardizzazione, infatti non tutti gli uomini di talento trovano spazio nella cultura di massa ma soltanto quelli che riescono a conciliare le proprie capacità e aspirazioni col modello standard che viene imposto. Come cercare allora il rilassamento fisico e psichico? Non è facile poter risolvere il quesito se non rifacendosi alle inclinazioni e idee personali.

Come in tutte le espressioni umane, la semplicità è l’elemento più sicuro a fornire la serenità e lo svago. In tema di semplicità un posto di rilievo spetta al contatto con la natura e con l’aria aperta. In una società come quella attuale vittima di contraddizioni laceranti e di ritmi frenetici, il verde e l’aria aperta rappresentano il segreto per colmare quelle profonde carenze create dal galoppante inquinamento. La riscoperta della natura, oltre ai benefici fisici, apporta una serenità e una carica morale tale da tonificare muscoli e arterie e rappresentare il volano dell’uomo, barbarizzato dal progresso.

Le recenti scoperte, accelerando i processi del progresso tecnico, tendono visibilmente ad apportare nel mondo dello sport e delle attività culturali i disaggreganti fenomeni connessi al rumore. La tendenza agli agi, al benessere, alla velocità hanno tradotto negli svaghi la mentalità delle macchine. Queste però finiscono col riprodurre la topografia industriale alle attività sportive, con l’apportare densi malesseri di inquinamento e di stress. L’uomo tradizionalmente ispirato da un ideale di rilassamento finisce col trovare nuovi elementi negativi che incidono sfavorevolmente sulla psiche e sulle capacità di resistenza. Soltanto con un pizzico di filosofia e sani accorgimenti naturalistici si può sopravvivere, ricorrendo cioè alla bontà della natura, ammesso che la società industriale lasci spazi di verde per respirare aria salubre e riduca rombi automobilistici e ronzii di macchinari.

Quando lo spirito si affievolisce, esso crea scompensi e offre nutrite possibilità di avvilimento. Questo ultimo diventa un grosso freno alle attività. Non a caso, medici e soprattutto psicologi curano con articolate attività del fisico forme di profonda depressione, che portano all’inerzia e alla debolezza del cervello, alla mercé di problemi spesso insignificanti. In omaggio a questa tesi, vengono rilevate apprezzate forme di psicastenia momentanea che colpiscono coloro che sono costretti ad osservare forzati periodi di convalescenza a seguito di malattie.

Effetto secondario della globalizzazione resta il tempo libero. L’otium latino era qualcosa di più del dolce far niente, una raffinata occupazione intellettuale, non a caso riservata alle classi superiori, distinta dalla materialità del negotium (la gestione economica). A sancire una netta divisione fra tempo libero e tempo di lavoro è la società industriale, che con l’introduzione delle macchine, razionalizza l’attività umana e le impone ritmi nuovi, concentrando lo sforzo produttivo. Ma la separazione fra dovere e piacere, per cui il lavoro ripetitivo, faticoso e insoddisfacente è slegato dall’aspetto ludico, spinge a desiderare maggior spazio da dedicare allo svago e agli interessi personali. Addirittura il tempo libero diventa improduttivo e inutile. Non c’è più differenza reale fra tempo libero e lavoro: fusi nella travolgente rapidità della vita moderna, annullati dall’ansia del vuoto che spinge a riempire ogni spazio della giornata, i due momenti si confondono in un assillante attivismo, condizionato dall’invadenza delle nuove tecnologie. La smaterializzazione del lavoro e l’assunzione in prima persona di una serie di microattività che prima erano svolte da altri, nell’illusione di risparmiare e godere di maggiore autonomia, hanno cancellato i confini di ciò che si fa per altri e ciò che si fa per sé. L’otium e negotium sono la stessa cosa. Quando c’è troppo tempo libero, questo viene a scomparire.

Una vita breve e preziosa come quella umana non si può dissipare nell’ozio, altrimenti diventa inutile. L’attività si manifesta nelle espressioni più disparate che interessano il lavoro, lo svago, la preghiera, ecc. e si articolano sia nello spirito che nel corpo. Evidentemente se disponiamo di strumenti sofisticati, congegni meccanici ed opere d’arte vuol dire che il genere umano che ha popolato la terra prima di noi è stato rappresentato da esseri attivi e laboriosi. Anzi, maggiore è la carica che rende ad operare e maggiore è il grado di progresso riscontrabile in un popolo. Anche l’estro e la fantasia devono essere tradotti in opere e a loro volta le opere ispirano lo spirito di immaginazione in un intreccio sublime che rendono fecondo l’uomo.

Il detto “di riposo non è mai morto nessuno” trova sempre meno riscontro nella realtà, non solo per i riflessi morali suesposti ma anche per le conseguenze fisiche. Il pigro, restio al movimento, non potrà pretendere di essere dotato di forti muscoli ma dovrà accontentarsi di un fisico scadente, senz’altro più facilmente disponibile ai traumi e alle malattie.

Riprendendo il senso morale dell’argomento, non va tralasciato precisare che la pigrizia è contraria a tutti gli obblighi sociali che esigono un certo apporto all’umanità. Questo conta sul contributo di tutti per continuare la soave poesia del progresso e per tonificare la normale attività di sopravvivenza.

Il capitalismo ha elevato il lavoro ad una religione. La tendenza è stata raccolta dai socialisti che puntano sulla piena occupazione per conferire dignità all’individuo: le risorse economiche consentono al cittadino di acquisire una vera autonomia e un menage senza sudditanza, proprio al contrario di quanto promettono gli oziosi.

Quindi l’ozio sotto un certo profilo può essere utile, come nella passeggiata. Altra attività dei non attivi può essere la pesca. Catturare pesci richiede l’uso di attrezzature (ami, lenze, esche), ma l’anima della pesca consiste nel star fermo e in perfetta calma; concilia l’armonizzazione fra due atteggiamenti: il fare e non fare. Non è facile comprendere se prevale la contemplazione o l’azione.

Forse il posto ideale per l’ozioso è il pub o la birreria, ove vengono macinate chiacchiere e non lavoro. Questi luoghi fanno dimenticare le premure quotidiane ed elevano l’indipendenza temporanea con momenti di onnipotenza. Forse il pub, l’ex osteria, sfugge alla nuova autorità del capitalismo consumistico e agli amministratori delegati delle aziende globali che sfruttano il mondo per il profitto.

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About Giuseppe Rocco

Esperto di commercio estero. Vice Segretario generale della Camera di commercio di Bologna sino al 31.1.2007; Docente esterno presso l’Università di Bologna, Istituto Economico della Facoltà di Scienze politiche, in qualità di cultore dal 1990 al 2006, di “Istituzioni Economiche Internazionali” e in aggiunta dal 2002 al 2006 di “Diritti umani”; Pubblicista iscritto all’Albo dei Giornalisti dal 1985; 450 articoli per 23 testate nazionali; in particolare consulente del Il Resto del Carlino, in materia di Commercio internazionale, dal 1991 al 1995; Saggista ed autore di 53 libri scientifici ed economici; Membro del Consiglio di Amministrazione del Centergross dal 1993 al 2007;Membro del Collegio dei periti doganali regionali E. Romagna, per dirimere controverse fra Dogana ed operatori economici dal 1996 al 2000, con specificità sull’Origine della merce.