Graces. La “bellezza della bruttezza” al Teatro Nuovo di Napoli

Da Giovedì 11 gennaio, in scena al Teatro Nuovo di Napoli, ci sarà Graces, di Silvia Gribaudi (“autrice del corpo”) e Matteo Maffesanti (regista, formatore e videomaker). In un susseguirsi di danza, tableaux vivants e scene comiche, lo spettatore verrà coinvolto in un elogio dell’imperfezione e dell’individualità. Lo spettacolo è ispirato alla scultura delle tre Grazie di Antonio Canova, realizzata tra il 1812 e il 1817; l’opera raffigura le tre figlie di Zeus: Aglaia, Eufrosine e Talia, creature divine rappresentanti lo splendore, la gioia e la prosperità.
Attraverso l’incontro tra corpi, i quattro artisti in scena, Siro Guglielmi, Matteo Marchesi, Andrea Rampazzo e la stessa Silvia Gribaudi, portano il risultato di anni di esplorazione degli stereotipi di genere, che va ben oltre la danza, per aprirsi anche alle altre arti performative e mettere in scena un corpo libero.
La danza contemporanea permette di spaziare, lasciandosi andare alle rappresentazioni più varie e Silvia Gribaudi con la sua spiccata ironia, autoironia e il suo sarcasmo tratta il tema doppio della “bellezza della bruttezza” e della “bruttezza della bellezza”, che appassiona e alle volte quasi ossessiona la nostra società occidentale e social-medizzata.
«Il mio percorso – sottolinea la Gribaudi – si muove sul confine permeabile tra pubblico e performer, indagando lo spazio fertile e sottile tra il ridere e il dissacrare, tra poetica e politica. È una ricerca che avviene all’interno del corpo che danza, incontra temi sociali e si compone nell’opera coreografica».
L’umorismo viene quindi usato per destrutturare il concetto di ‘grazia’ e di ‘bellezza’ canonici, così ancorati allo sguardo di noi esseri umani, e creare una nuova prospettiva attraverso la danza e la parola. I protagonisti così rivelano una parte insita e fondamentale della nostra umanità e urlano il desiderio irrefrenabile del corpo che, senza forma e senza genere, vuole esprimersi nella sua interezza.
Graces si rivela dunque come un inno all’accettazione di sé senza badare ai rigidi canoni dominanti, tra autoironiche celebrazioni e intermezzi lirici. Lasciando dietro di sé la lampante consapevolezza che “bello è il luogo su cui si posa lo sguardo”.
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