QUALCOSA DI PIU’- Liberi pensieri in una sera di mezza estate, ascoltando Claudio Lolli

Dopo la nostra pubblicazione dell’intervista a Claudio Lolli, abbiamo ricevuto una lettera a lui indirizzata da uno stimato collega giornalista con cui il cantautore ha condiviso alcuni piacevoli momenti in passato e che oggi vuole dedicargli un pensiero, offrendoci una dimensione intima di Lolli e della sua ispirazione.

Nello stereo di casa ho inserito una vecchia audiocassetta, caro Claudio, una di quelle che fino a quindici o vent’anni fa si ascoltavano nell’autoradio della macchina; e, se si ingarbugliava il nastro, toccava infilare la penna bic nella rotella di avvolgimento, sperando che quella sottile striscia magnetica non si spezzasse, che fosse possibile ritornare alla musica che ci stava accompagnando lungo il viaggio, che non fosse  definitivamente svanito l’incanto. E già allora tutto questo appariva una metafora dell’esistenza, della nostra storia che sentivamo al confine tra la luce della giovinezza, tutta “amore e rabbia”, e le penombre indecifrabili dei tempi a venire. Ascolto “Aspettando Godot”, quello scrigno di perle cantate con il quale ti presentasti al pubblico, nel 1972. Finalmente il crepuscolo comincia a calare sulla luce troppo abbagliante di questa giornata estiva, che sembrava non avere mai fine. Si attenua la calura implacabile che appariva ormai sul punto di bruciare tutto su questa terra, la vita, i pensieri, le cose, ed il sole che incendiava il cielo sterminato, diafano, senza rondini, troppo silenzioso, è reclinato oltre le colline. Mentre la tua voce sta cantando “Quello che mi resta”, il mondo torna a respirare, lentamente. In uno stato di sospensione indefinibile, senza tristezza né gioia, senza serenità né ansia, sono qui in casa, seduto, molto stanco, solo. E mi sorprende ancora una volta “Quello che mi resta”, affresco delicatissimo di nostalgia, amore, malinconia, di senso della fine, una prodigiosa “coincidenza di opposti” tra parole strazianti intarsiate a linee melodiche di soavità eterea, che si conclude con un accordo in tonalità maggiore, luminoso e dolcissimo. Un’ultima porta, inconcepibile, che si apre sul silenzio.

Penso d’un tratto ad una notte sannita di molti anni fa, trascorsa insieme a Luigi Grechi e Goran Kuzminac – che avevano appena finito di cantare con te a S. Angelo a Cupolo –  e a Paolo Visconti, ed altri amici che avevano organizzato l’evento. Fette di pane, cotto nel forno paesano, e salsiccia, birra, chitarra e canzoni, pensieri, battute, risate, fino quando il primo chiarore dell’aurora non accarezzò la notte che stava svanendo.

Penso a “Rumore rosa”, il tuo libro di  poesie appena dato alle stampe, che mi donasti, forse in un paesino d’Abruzzo, appena prima di un tuo concerto, mentre Paolo Capodacqua, il musicista virtuoso e raffinato che ti accompagna sul palco, era intento ad accordare le chitarre e mi salutava con il suo sorriso gentile. E’ vero, ci conoscevamo già da qualche tempo, ti avevo incontrato in occasione di vari concerti, avevo scritto alcuni articoli, avevamo parlato ed anche bevuto qualche birra insieme: roba che però, agli occhi di chi pesa i rapporti umani col bilancino del farmacista, coi numeri del ragioniere o con la grammatura della convenienza e dell’interesse, conta nulla o quasi. Ma il tuo libro, come ogni dono vero, era un dono senza perchè. Sorgeva semplice, spontaneo, da  quella specie di rapporto che germoglia sulle affinità culturali, etiche, interiori, senza bisogno di lunghe frequentazioni,  e soprattutto senza la necessità di essere conclamato. Amicizia? Non so: amicizia è una parola importante e, come tutte le parole che pesano realmente, si riferisce ad un’idea complessa, di bellezza profonda ma difficile, alle volte sfuggente. Chissà, forse in certo modo potrebbe esserlo. Perché in fondo, caro Claudio, mi rimane una sensazione: non ci vediamo né ci sentiamo da almeno dieci anni (se non per l’interposta, oltreché splendida, persona di Flavio Carretta), eppure credo che, se ci capitasse di incontrarci casualmente per strada, ci riabbracceremmo come se il tempo, tanto tempo, non fosse trascorso, e magari si andrebbe insieme a bere una birra, chiacchierando di inezie o di massimi sistemi, tra un sorso ed una risata, come quando ci si vedeva ai tuoi concerti, in quegli anni ormai lontani.

Ed ora penso proprio ai tuoi concerti, a quegli imprevedibili “miracoli” dell’Italia dalle mille piazze, dei mille comuni, dell’Italia profonda, quel cuore antico del nostro folle Paese che serba ancora memoria, gelosamente, anche se gli archivi ufficiali del potere mediatico hanno affondato nei recessi più remoti ciò che, invece, in quel cuore di popolo (sì, lasciamelo scrivere, di popolo) ancora batte forte. Così, quando la piazza si riempiva, e sotto il palco qualcuno si chiedeva “Ma chi è Claudio Lolli?”, tanti, ma davvero tanti altri – ed io, lo confesso, ne gioivo un po’ sorpreso – ti aspettavano come un amico carissimo che non si vedeva da tanto, troppo tempo. Ed in tanti, davvero in tanti, si ritrovavano a cantare con te, e con le tue parole, le meschinità della vecchia, piccola borghesia e gli zingari felici, ubriachi di luna.

Non so, caro Claudio, scrivo seguendo un flusso di pensieri che scorre senza una logica definita, rivoli di parole, immagini, ricordi cui mi riportano le tue canzoni. Ora che dallo stereo sento la tua voce cantare “l’isola verde, che tinge i miei occhi di festa”, l’isola di un’utopia che in tanti abbiamo amato e maledetto, sprofondata in un oceano incolore, senza nome, mi sovviene il tuo volto durante i concerti, un volto scavato dal pensiero e dalla vita, alle volte quasi sofferente davanti al microfono. Mi sembra quasi di vederla, la tua figura che, pur essendo sul palco, al centro dell’attenzione di tutti, riesce a mantenere qualcosa di riservato, di “segreto”, e sembra emanare persino qualcosa di sciamanico. Uno sciamano senza dei, nel suo viaggiare verso dimensioni solo ed assolutamente umane, innalzando fiaccole di pensieri sonori che fanno palpitare le loro fiamme potenti, delicate, invisibili, dentro di noi. Ed ogni volta, il pensiero e il cuore di chi ascolta, alla luce di quel fuoco, si alimentano di nuova, poetica vita.

Mentre scrutiamo l’orizzonte nebuloso del mondo, cercando di capire, di decrittare segni sparsi, forse senza senso, tutto intorno sembra affievolirsi sempre più la coscienza del presente. Il passato è già dissolto nel caleidoscopio artificiale delle false memorie, seducenti futilità lisergiche spacciate dai media e dai poteri, ed il sogno del futuro è un miraggio, forse non è mai nato. Qualche voce isolata, talvolta al limite del delirio, ne grida le assenze, qualche sensibilità ormai straziata ne sente l’insostenibile vuoto. Disperazione? Forse no, forse è qualcosa che invece prorompe dagli abissi infiniti della vita, troppo belli, misteriosi, profondi, perché qualcuno possa opporvi barriere. “E da un’uscita di una galleria / col cuore in gola, ti ritrovi in faccia il sole (…) la voglia di vivere / forse ti salverà / all’uscita di una galleria”.

Mentre termina “Aspettando Godot”, ed anche questa strana, misteriosa serata volge alla fine, la stanchezza sembra essere scomparsa. Forse sarà per il “vento del sud” che sta spirando sul mio volto, non so dirlo, ma sento il cuore battere forte nel petto, e dentro me un’energia indefinibile che nasce chissà come, chissà da dove. Sento il desiderio di vedere negli occhi la notte che ormai sta scendendo, qualunque notte essa sia, qualsiasi stella o demone porti con sé. Forse, come canteresti tu, caro Claudio, caro Maestro di ieri e di sempre, “non è proprio una questione d’amore, è qualcosa di più”.

Armin Viglione

 

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About Eleonora Davide

IL DIRETTORE RESPONSABILE Giornalista pubblicista, è geologa (è stata assistente universitaria presso la cattedra di Urbanistica alla Federico II di Napoli), abilitata all’insegnamento delle scienze (insegna in istituti statali) e ha molteplici interessi sia in campo culturale (organizza, promuove e presenta eventi e manifestazioni e scrive libri di storia locale), che artistico (è corista in un coro polifonico, suona la chitarra e si è laureata in Discipline storiche della musica presso il Conservatorio Domenico Cimarosa di Avellino). Crede nelle diverse possibilità che offrono i mezzi di comunicazione di massa e che un buon lavoro dia sempre buoni risultati, soprattutto quando si lavora in gruppo. “Trovo entusiasmante il fatto di poter lavorare con persone motivate e capaci, che ora hanno la possibilità di dare colore e sapore alle notizie e di mettere il loro cuore in un’impresa corale come la gestione di un giornale online. Se questa finestra sarà ben utilizzata, il mondo ci apparirà più vicino e scopriremo che, oltre che dalle scelte che faremo ogni giorno, il risultato dipenderà proprio dall’interazione con quel mondo”.

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