Silenzi assordanti a Trieste. Intervista a Fioretta Filippaz, profuga istriana

Lunghi silenzi per decenni hanno accompagnato una storia tutta italiana, ma dell’Italia taciuta, quella scomoda, quella al di là del confine, conteso, tracciato a occhi chiusi e poi concesso a Tito come bottino di guerra. Lunghi silenzi che ancora parlano, urlano dalle mura di quel che resta del CRP (Campo Raccolta Profughi) di Padriciano (TS), sul Carso, tra il mare e i boschi della Slovenia o dagli oggetti conservati nel Magazzino 18 al Porto Vecchio. Ma ogni tanto una voce si sente, coraggiosa, orgogliosa, incaponita a urlare «IO C’ERO!»

L’incontro con Fioretta Filippaz, profuga di Grisignana d’Istria, che conosco dal 2018 da quando svolgevo delle ricerche sulla storia dell’Esodo, apre una porta su un’altra realtà, chiusa dietro i cancelli campo profughi in cui visse per dodici anni. Fiore ci accompagna con il suo racconto in una visita virtuale, della memoria, tra costruzioni che erano adibite a uffici, mensa, scuole, presidio sanitario, e tra i vuoti lasciati dalle baracche ormai smantellate, perché contenenti eternit. Ci accompagna in questo viaggio nei suoi ricordi, dal tavolino dello storico Caffè San Marco, in centro città, con la voce segnata dall’emozione che si prova quando si ripercorre al contrario la propria vita. Ci racconta delle aule, dei bambini, illustra le storie delle persone presenti nelle foto, tutto il lavoro fatto con altri volontari insieme al direttore dell’IRCI, Piero Delbello, tra il 2004 e il 2005 per rendere visitabile quel luogo ed esporre le testimonianze di una vita vissuta così, in spazi condivisi e ristretti, dove fino a sedici famiglie occupavano una sola baracca.

Vista la disponibilità questo racconto continua con le risposte di Fioretta alle mie domande.

Le chiedo come si viveva laggiù.

Marinella

«L’inverno era ghiacciato, soprattutto quello che poco dopo l’arrivo della nostra famiglia a Trieste portò via la piccola Marinella, la mia sorellina di un anno, morta per il freddo. Le temperature arrivarono a -15 gradi. Della mia piccola sorella non rimasero che la cartella clinica, una foto e la copertina in cui era avvolta e soprattutto il grande dolore della mia famiglia.»

In quel dolore in cui si rispecchiano le tante perdite umane che segnarono questo enorme esodo. Lei mi mostra la foto della sorellina, che tiene conservata da tanti anni. Lo fa con la sollecitudine di chi non vuole che sia perso niente, né una parola, né un’immagine di questa storia vera, impressa sulla sua pelle come su quella di coloro che hanno condiviso la sua condizione.

«Vedi, le fu dedicata anche una targa al Campo di Padriciano, ma molti anni dopo, nel 2011.»

Tira fuori dalla borsa un ritaglio dell’Eco di Piram che ha immortalato l’evento, lo conserva come un cimelio, me lo mostra e mi invita a fotografarlo.

Le storie sono tante, si accavallano e mi sembra di vedere quelle donne serie e premurose, districarsi nei piccoli spazi riservati alle loro famiglie, 4 metri per 4 metri, separati da lenzuoli tesi su fili volanti, prendersi cura della famiglia, degli anziani, abbattuti dall’aver dovuto abbandonare tutto per fare la fila con una gavetta in mano.

«Alcuni di loro non ce l’hanno fatta e si sono lasciati morire. Dicevano di avere perso insieme alla loro casa anche la loro dignità. Ma una volta arrivati a Trieste noi profughi eravamo additati, separati, accusati di passare avanti agli altri nei sussidi che l’ECA riconosceva alle famiglie.»

Le affermazioni di questa donna raffinata ed elegante sono velate di malinconia. Tante le promesse fatte loro dai politici di turno, poche quelle mantenute. Di una si ricorda Fiore.

«Ci fu un ministro, senza portafogli, forse se ricorso bene il ministro Tramaglia. Ecco, lui pensò di far destinare dei fondi a far tornare le famiglie più bisognose dal Canada o dall’Argentina, dove si erano trasferite, per rivedere almeno una volta la loro patria. Questa sì fu una promessa mantenuta. Per il resto sui profughi negli anni cadde l’oblio, mentre nel CRP aumentava il degrado, fino alla chiusura alla fine degli anni 70.»

Ma voi da piccoli cosa avevate capito di ciò che stava succedendo a chi abitava in Istria e Dalmazia? Le ho chiesto.

«A noi ragazzini, costretti a partire con la famiglia, veniva raccontato che era per cercare una vita migliore, solo per nascondere ciò che i genitori avevano paura di raccontare.»

Ma di cosa avevano paura?

«Le minacce sopraggiunte dai titini all’indomani della liberazione dal nazifascismo, la spinta ad andarsene o ad abbracciare quell’altra dittatura, e infine il monito a parlarne una volta giunti in Italia avevano portato a tacere e ancora a tacere, finché qualcuno ha iniziato a chiedere e il musicista Simone Cristicchi ci ha messo il naso, rendendo l’esodo giuliano dalmata di dominio pubblico.»

Ma gli italiani residenti avevano capito chi avevano di fronte quando i profughi si presentarono alla frontiera?

«No, in effetti moti non capivano, ci percepivano come una minaccia, come il retaggio della dittatura. Vede questa è la mia Qualifica di profugo, il documento che dovevamo portare sempre con noi. Un marchio, insomma.»

E non si può neanche dare torto a chi vedeva giungere a frotte famiglie intere dall’Istria, dalla Dalmazia, alla fine, penso. Ma chi doveva spiegare loro cosa stava succedendo? Non certo gli Alleati, che occuparono Trieste fino al 1954, loro di spiegazioni non ne davano; e dopo, una volta che Trieste era tornata italiana, neanche il nostro governo volle chiarire la faccenda. La merce di scambio per non pagare i danni di guerra per l’Italia ebbe un costo, pagato col silenzio su ciò che stava succedendo, ed era meglio tacere.

Tuttavia, con la qualità che si riconosce ai resilienti, Fiore ha trasformato la rabbia per l’esclusione dalla comunità italiana, a cui sentiva di appartenere a pieno titolo, in impegno quotidiano, che prima ha svolto per dieci anni al Campo di Padriciano come guida per visitatori e scolaresche, tenendo contemporaneamente conferenze in giro per l’Italia, e poi oggi come volontaria attiva presso L’IRCI (Istituto Regionale per la Cultura Istriana Giuliano Dalmata) e il Magazzino 18, svolgendo lo stesso compito.

«Insegnare alle nuove generazioni queste verità storiche», ci tiene a sottolineare, «dovrebbe essere compito della scuola, attraverso docenti informati e preparati, ma noi siamo qui per raccontare, finché ci saranno testimoni diretti come me, cosa realmente successe.»

L’esodo, oggi lo sappiamo bene, si svolse in più fasi: iniziò all’indomani del Trattato di Pace che segnò una impietosa linea di demarcazione tra la zona A, a controllo alleato, e la zona B, sotto il controllo jugoslavo del maresciallo Tito, linea che non teneva conto né dell’etnia, né delle radici culturali, né della proprietà privata in alcuni casi divisa in due dal confine; poi dopo la strage di Vergarolla nel 1946, che decretò l’abbandono di Pola; poi nel 1954 al ritorno del possesso della zona A da parte dell’Italia, quando ormai la linea Morgan da provvisoria divenne uno stato di fatto da cui difficilmente si sarebbe tornati indietro; gli ultimi profughi lasciarono l’Istria nel 1975, dopo il trattato di Osimo che decretava il riconoscimento definitivo dello stato di fatto.

Come saperne di più. Chi visita oggi, grazie all’impegno dell’IRCI, il Magazzino 18 nel Porto Vecchio di Trieste, può ascoltare con le proprie orecchie la testimonianza completa sia di Fioretta Filippaz, protagonista dei fatti avvenuti, sia quella di Giovanna Penna, giovane nipote di esuli, che è testimone di quel silenzio che ha accompagnato la vita dei suoi nonni, chiusi nel dolore e nella paura di parlare.

Nel silenzio c’è molto da ascoltare, ma è bene andare preparati e munirsi di rispetto per farlo.

Quindi abbraccio Fioretta, ringraziandola per avere condiviso con me e con i nostri lettori la sua storia.

©Riproduzione riservata

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About Eleonora Davide

IL DIRETTORE RESPONSABILE Giornalista pubblicista, è geologa (è stata assistente universitaria presso la cattedra di Urbanistica alla Federico II di Napoli), abilitata all’insegnamento delle scienze (insegna in istituti statali) e ha molteplici interessi sia in campo culturale (organizza, promuove e presenta eventi e manifestazioni e scrive libri di storia locale), che artistico (è corista in un coro polifonico, suona la chitarra e si è laureata in Discipline storiche della musica presso il Conservatorio Domenico Cimarosa di Avellino). Crede nelle diverse possibilità che offrono i mezzi di comunicazione di massa e che un buon lavoro dia sempre buoni risultati, soprattutto quando si lavora in gruppo. “Trovo entusiasmante il fatto di poter lavorare con persone motivate e capaci, che ora hanno la possibilità di dare colore e sapore alle notizie e di mettere il loro cuore in un’impresa corale come la gestione di un giornale online. Se questa finestra sarà ben utilizzata, il mondo ci apparirà più vicino e scopriremo che, oltre che dalle scelte che faremo ogni giorno, il risultato dipenderà proprio dall’interazione con quel mondo”.