Quando a Venezia ci si giocava la camicia. Parte prima
Un altro appuntamento con la rubrica IL SIGNORE DI NOTTE. Per leggere gli articoli precedenti basta cliccare QUI.
Dicono che tutto ebbe inizio nel 1172.
Un capo mastro di origine bergamasca, tale Nicolò Barattieri, riesce a rizzare due enormi colonne trasportate dall’Oriente come bottino di guerra. Erano rimaste abbandonate per decenni sul molo di San Marco perché nessuno sapeva come fare.
A lavori conclusi alle loro sommità svetteranno le statue di San Totaro, cioè San Teodoro, e del leone alato di San Marco, segnando per sempre l’accesso all’area marciana per chi proveniva dal mare. Ci sarebbe stata anche una terza colonna, ma andò perduta nel fango della laguna durante le operazioni di scarico.
Il Barattieri si era già segnalato per la realizzazione della cella del campanile di San Marco mettendo in campo tutto un marchingegno di casse di legno mosse da carrucole che agevolarono il trasporto dei materiali sino alla cima della torre. Resterà nella storia anche per aver costruito il primo Ponte di Rialto, tutto in legno. Anche nel caso delle colonne impiegò un ingegnoso e complicato sistema di corde bagnate, paranchi e zeppe.
Una zona franca per il gioco d’azzardo
A lavoro ultimato ebbe pure il suo bravo tornaconto: ottenne dal doge Sebastiano Ziani che attorno alle colonne fosse decretata una zona franca dove praticare il gioco d’azzardo fino ad allora proibito ovunque nella Serenissima. Pare fossero molto di moda i dadi, tanto che entreranno a far parte dello stemma di famiglia, fino che un discendente dell’ingegnoso bergamasco deciderà di abiurarli come simboli di un deprecabile passato connesso con il vizio. Infatti, con il tempo il termine “barattieri” era finito per designare i gestori di banchi per il gioco d’azzardo, una consorteria regolata da norme fisse, tacitamente riconosciute e accettate dai biscazzieri, cioè i padroni delle bische.
Barattieri, biscazzieri e allocchi
Cosicché il malaffare prese a dilagare ovunque. Il gioco era per lo più favorito dal calendario veneziano che segnava un’infinità di feste, numerose ricorrenze di santi protettori di parrocchie e corporazioni, sagre e altro, una manna per i barattieri di ogni parte che piovevano in città per svuotare le tasche agli allocchi. Nel 1487 era stato poco saggiamente permesso il gioco in occasione delle feste nuziali e durante il lungo periodo del carnevale quando tutta la città indossava la “bauta”, cioè la maschera, anche bari e truffatori. Il doge Andrea Gritti lo aveva revocato, ma il danno era fatto. Le colonne di piazza San Marco erano oramai diventate il ritrovo della peggior feccia. Ma carte e dadi sbucavano dappertutto, per strada, nelle case e nei cosiddetti “Casin dei Nobili”, case da gioco contrabbandate per salotti da conversazione.
Ci si rovinava anche nei “redutti”, ovvero bische clandestine, e più di un’attività nascondeva sotto vesti legali quella dell’azzardo. Biscazzieri per antonomasia erano i barbieri, poco importando loro dei pochi ducati di multa o di qualche settimana di carcere perché l’azzardo fruttava più del mestiere di “conzateste” o radere barbe. Famosa tra Rinascimento e Barocco la bisca nascosta nella bottega di barberia di Vincenzo Gobbo a San Stin nel sestiere di San Polo, in calle del Magazen. Il Gobbo era pure finito in carcere, ma la bisca aveva continuato a prosperare.
Continua alla prossima puntata con la seconda parte dell’articolo, mercoledì 11 maggio 2022.
Lo Stella non insistette e il Barbarigo, che era rimasto appartato in sdegnosa solitudine, evitò di intromettersi. Continuò a guardarsi intorno, ma questa volta la voce alta del capitano aveva attirato l’attenzione dei giocatori rintanati in fondo alla stanza. Egli li fissò con un rimescolamento di ripugnanza e boria insieme, sempre a testa alta e mento pronunciato che per lui era un atteggiamento consuetudinario. Avrebbe voluto incutere timore, ma non ci riuscì affatto, perché chi frequentava le bische era smaliziato a fiutare gli sgherri. Nessuno dei giocatori si preoccupò degli sconosciuti, ma si limitarono a guardarli di sottecchi e senza timore tanta era la loro abitudine a veder sbirri nelle bische, tanto raro che questi intervenissero per mettere giocatori e tenutari dietro le sbarre come pretendeva la legge. Incidenti come quello occorso al Gobbo non facevano testo e non disincentivavano nessuno. Infatti la bisca era ancora lì, aperta e funzionante.
Il Signore di Notte. Un giallo nella Venezia del 1605, romanzo di Gustavo Vitali (2020)
articolo originale – https://www.ilsignoredinotte.it/azzardo.html
Altri articoli di approfondimento su temi del libro Il Signore di Notte, un giallo nella Venezia del 1605 – https://www.ilsignoredinotte.it/approfondimenti.html
La foto in alto: Calle del Magazen a San Stin nel sestiere di San Polo, dove era nascosta la bisca nella bottega di barberia di Vincenzo Gobbo.
©Riproduzione riservata
- La storia del Ponte di Rialto - 16 Luglio 2023
- Una giornata particolare. Il “Meeting Nazionale dello Scrittore a Noale - 26 Ottobre 2022
- Quando a Venezia hanno inventato le prigioni - 21 Settembre 2022
- Quando a Venezia fu inventato il “bacalà” - 10 Agosto 2022
- La vita quotidiana a Venezia nel secolo di Tiziano. La recensione - 3 Agosto 2022
- Quando a Venezia otto secchi di acqua costavano un soldo - 27 Luglio 2022
- Quando a Venezia si remava sulle galee - 20 Luglio 2022
- Breve storia della gondola tra sfarzi e asimmetrie - 13 Luglio 2022
- Quando a Venezia ci si sposava per contratto - 6 Luglio 2022
- Quando a Venezia si praticava la tortura - 29 Giugno 2022