Quando a Venezia fu inventato il ghetto. Seconda parte

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Allargamento del ghetto e nuovi accoglimenti

Il Ghetto Nuovo si era allargato e poi congiunto al Ghetto Vecchio, istituito su iniziativa dei Savi alla Mercanzia per far posto ai Levantini, ebrei espulsi dalla penisola iberica nel 1492.

Costoro erano così chiamati perché prima di emigrare a Venezia avevano trovato rifugio nell’Impero Ottomano. Il governo li aveva accettati nella prospettiva che rafforzassero il commercio con l’Oriente danneggiato da guerre e altri guai occorsi nella prima metà del Cinquecento. Ogni tanto c’era stata anche della tolleranza, soprattutto quando di mezzo c’erano fior di zecchini.

Alla fine del secolo ai Levantini si erano aggiunti i Ponentini, i discendenti degli ebrei spagnoli e portoghesi che avevano evitato la cacciata con il battesimo, ma erano finiti braccati dalla Santa Inquisizione per il sospetto di praticare il giudaismo in segreto, cioè di essere “vili marrani”. Come quelli di un secolo prima, se ne erano andati anche loro prima in terra turca e in altre città italiane, infine a Venezia.

L’urbanistica nei ghetti

L’istituzione dei ghetti aveva imposto anche una questione urbanistica. Gli spazi ristretti avevano spinto a innalzare immobili fino a otto piani. Per alleggerire il peso di tali costruzioni poggiate su infidi terreni sabbiosi le pareti esterne erano piuttosto sottili, quelle interne in legno, i soffitti molto bassi. Per sfruttare ogni spazio interno disponibile, le scale giravano all’esterno degli edifici con una disinvoltura che teneva conto solo del profitto, tanto che furono chiamate “scale matte”.

Al pianterreno erano posti i magazzini degli straccivendoli e i banchi dei pegni che prendevano nome dal colore delle ricevute rilasciate: banco rosso, banco verde, ecc. Ai tempi del primo insediamento degli ebrei tedeschi erano stati quantificati in una decina, poi erano cresciuti di numero dietro esborso di diecimila ducati per ottenere il permesso dalle autorità sempre pronte ad allungare le mani nelle scarselle dei giudei.

Poiché agli ebrei non era concesso possedere case, certuni avevano goduto di ampi vantaggi ad affittare loro alloggi infliggendo canoni superiori anche di un terzo rispetto a quelli di mercato.

La forza del ghetto

Il ghetto rinchiudeva, ma anche proteggeva. Venezia di notte per un ebreo poteva diventare pericolosa, una città che covava un rancore spesso manifesto nei confronti degli uccisori del Cristo, come ovunque nella cristianità. E se non era questo il motivo, c’era il risentimento di chi si era indebitato con qualche banchiere ebreo a interessi che non sempre rispettavano i limiti di legge.

Perfino la sepoltura dei defunti di fede ebraica non era rispettata dai cristiani: impensabile tumularli in terra consacrata, nel 1386 era stato concesso loro di acquistare un terreno a San Nicolò di Lido come cimitero, teatro peraltro di frequenti profanazioni. Per lo più le barche che traslavano le salme dal ghetto verso l’estrema dimora e i loro accompagnatori erano oggetto di insulti, scherni, minacce, lanci di immondizie, pitali e tutto un corollario di bravate con le quali il popolino sfogava il suo rancore nei confronti del popolo di Mosè. Proprio non si riusciva a dimenticare quella croce sul Calvario.

Solo nel 1668, a spese della comunità giudea, fu autorizzato l’escavo del “canale degli hebrei” per facilitare il transito dei cortei funebri verso il cimitero sottraendoli agli insulti della plebaglia.

Rinnovo delle “condotte”

Se quasi inesistenti agli inizi del Cinquecento, il numero totale degli ebrei residenti in città crebbe con gli accoglimenti di Levantini e Ponentini. Circa settecento nel 1516 all’apertura del primo ghetto, più che raddoppiato quindici anni dopo, sceso a 1043 per le pestilenze nella seconda metà del secolo, il numero si era impennato in 1694 nel 1586.

Al periodico rinnovo delle condotte si apriva puntualmente un capitolo doloroso per le borse dei giudei, con l’introduzione di clausole sempre più vessatorie che avevano finito con il soffocare i banchi dei prestiti su pegno. Per altro nel corso del Cinquecento non se l’erano cavata meglio le stesse banche dei cristiani travolte da difficoltà economiche. Si era così giunti alla revisione degli accordi con la comunità ebraica. Il gravoso tributo era stato abolito, ma in cambio gli ebrei si erano dovuti accollare una volta per tutte la gestione dei banchi dei pegni, un’attività inevitabilmente in perdita e che nascondeva sotto sotto della buona usura a dispetto del rigido controllo.

Invece avevano fatto un buon affare quei ricchi patrizi ai quali si rivolgevano gli ebrei quando restavano a secco di denaro, perché in questo caso era consentito ai cristiani percepire interessi da chi cristiano non era.

Da straccivendoli a ricchi mercanti

Nel contempo la “strazzaria” si era trasformata in un’attività ben più lucrosa di quanto il nome avrebbe lasciato intendere. Poi verso il 1590 erano stati ammessi al grande commercio con il Levante, attività tradizionalmente riservata a patrizi e cittadini. I capitali veneziani si andavano progressivamente ritirando dai commerci per essere investiti in terraferma, lasciando un vuoto assolutamente da colmare.

I risultati non si erano fatti attendere: sei anni dopo l’ambasciatore di Costantinopoli informava il governo che due terzi del commercio con la capitale turca era in mano a mercanti ebrei e Francesco Sansovino aveva annotato che essi “per il negotio sono opulentissimi”.

Le “nationi” e l’autogoverno della comunità

La comunità era retta da un “Capitolo”, o Consiglio degli Ebrei, una sorta di autogoverno dal quale, tuttavia, tutti tentavano di defilarsi e avevano le loro brave ragioni. Infatti, a questo consesso era stato affidato il fastidioso incarico di mantenere i rapporti con le autorità, incarico mai facile e dagli esiti spesso oggetto di lamentele da parte della comunità suddivisa in quattro “nationi”: tedesca, italiana, ponentina e levantina. Ciascuna aveva la propria assemblea per occuparsi degli affari religiosi e la propria sinagoga con funzioni celebrate secondo i rispettivi riti. Le questioni più delicate, come quella riguardante le imposte da versare allo stato, erano demandate a un’assemblea generale di circa ottanta membri.

Degli anni successivi al 1605 francamente so poco in quanto mi sono occupato degli ebrei veneziani e del ghetto in modo funzionale al giallo Il Signore di Notte, nome mutuato da una magistratura veneziana di sei membri incaricati di mantenere l’ordine pubblico in città. In pratica magistrati e insieme capi di una delle polizie che operavano nella Serenissima.

La citazione

Si chiamava Gigliola Alberghetti ed era nel fiore degli anni: figura slanciata e forme ben tornite, capelli biondi un poco tendenti al rosso raccolti in due trecce sul capo, due boccoli a formare due piccole corna. Quell’acconciatura imperversava tra le donne veneziane, ma i capelli folti e ramati di Gigliola erano un vero splendore. La carnagione levigata di un abbagliante biancore le donava un aspetto delicato nonostante il fisico sinuoso e in carne, il seno sapientemente scoperto e in parte trattenuto dal corpetto, un seno che si innalzava audace come una cuspide, attirando sguardi e scatenando voglie. Però più che dal fisico Francesco fu rapito dalla bocca, dalle labbra rosse e deliziosamente carnose messe in risalto da denti bianchissimi.

Il Signore di Notte. Un giallo nella Venezia del 1605, romanzo di Gustavo Vitali (2020)

articolo originale – https://www.ilsignoredinotte.it/ghetto.html

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About Gustavo Vitali

Sono nato a Milano il 4 agosto. Non dico l’anno perché al riguardo sono un tantino ritrosetto ... Da oltre trent’anni vivo nella bergamasca. Ho due figli, Federico e Claudio. Istruzione: liceo scientifico e scienze politiche. Nessuna lode particolare: “È un ragazzo intelligente, ma non si applica abbastanza!” l’invariabile, ancorché poco appagante, giudizio dei miei insegnanti. Cosicché anni dopo la laurea è finita in soffitta, complice l’attività di famiglia, poi mia, dalla quale sono stato risucchiato. Ho anche fondato e diretto per una dozzina d’anni una rivista di settore. Passioni: il volo in parapendio ultima in ordine di tempo, cosa che mi ha portato a ricoprire da anni il ruolo di ufficio stampa nella FIVL (Associazione Nazionale Italiana Volo Libero – parapendio e deltaplano). Ovvio che non è stata la passione per il volo a spingermi a scrivere “Il Signore di Notte”, un giallo ambientato nella Venezia dei dogi! Lo è stata, invece, quella per la storia, da sempre. Ricordo che da ragazzino preferivo i sussidiari ai fumetti e leggevo la storia antica come fosse un romanzo d’avventura. Il vizio è rimasto in giovinezza e poi oltre, fino a oggi. Però come sia sorto l’interesse per la storia dell’antica Serenissima in particolare non saprei dire. Fatto sta che ho cominciato a leggere autori come Alvise Zorzi e altri storici che si sono occupati della sua storia lunga undici, forse tredici secoli. Quindi sono un lettore a senso unico: storia e ancora storia con qualche deviazione per la letteratura gialla. Congiunto alla passione per la storia, il vizio di non saper trattenere i ditini dalla tastiera. Prima la Olivetti “lettera 32” e poi il personal fin dagli anni ’70, quando costavano un botto. Anche la stilografica, prima di macchine da scrivere e computer, ha fatto il suo corso. Ecco perché “Il Signore di Notte” è insieme un racconto giallo con brevi riferimenti storici, una trama inventata, ma i personaggi sono reali, vissuti nel 1605, l’epoca dove l’ho ambientato. www.gustavovitali.it