Quando a Venezia la si faceva a cazzotti

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Castellani e Nicolotti

Il sestiere di Dorsoduro a Venezia resta affacciato a settentrione sul canale della Giudecca, isola una volta chiamata Spinalonga per la sua forma di pesce. Il cambio del nome era dovuto al fatto che il governo dell’antica Serenissima un bel giorno decise di confinare lì chi veniva condannato per reati minori contro lo stato, “zudecá” in lingua veneta, cioè “giudicato”. Invece recenti studi hanno smentito definitivamente la credenza popolare che vi fossero vissuti degli ebrei, cioè giudei. Infatti costoro erano confinati altrove, precisamente nei tre ghetti, quello Nuovo, quello Vecchio e infine quello Nuovissimo.

Barcaioli e pescatori per tradizione, gli abitanti di Dorsoduro erano chiamati Nicolotti, una delle due fazioni nelle quali era diviso il popolo veneziano. L’altra, quella dei Castellani, abitava prevalentemente la zona orientale della città, in particolare il sestiere di Castello, quello dell’Arsenale. Tra loro la maggioranza era costituita da marinai e da carpentieri addetti a quella che era considerata la più grande industria d’Europa. I Castellani portavano berretto e “fusciacca” rossa, mentre il copricapo e la fascia dei Nicolotti era di color nero. Ancora oggi le magliette dei gondolieri osservano la tradizione: righe bianche e rosse, oppure bianche e nere.

Un’altra suddivisione era costituita dai sestieri di qua e di là del canale rispetto Palazzo Ducale: Castello, San Marco e Cannaregio i tre “de çitra”, Dorsoduro, Santa Croce e San Polo quelli “de ultra”. A loro volta, per motivi fiscali, questi erano stati ripartiti in contrade che nel corso dei secoli aumenteranno fino a 69 per la città, più una per l’isola della Giudecca. Credo siano rimaste le stesse ancora oggi.

Il “Ponte di Pugni”

Tra Nicolotti e Castellani non correva buon sangue, frequenti le risse, un residuo delle antiche lotte civili. La tradizione voleva che si sfidassero in regate e altre gare di abilità fisica, ma i cimenti prediletti delle due fazioni erano ben più violenti, ancorché riconosciuti e addirittura codificati. Le più impegnative erano le cosiddette “guerre dei ponti”, cioè la conquista di certi ponti armati di canne o a mani nude, giochi brutali, ma ciò nonostante accettati comunemente e senza remore. Il più celebre di questi, sul rio Santa Barnaba nella parrocchia Carmini, aveva preso il nome di “Ponte dei Pugni”.

Sulle scazzottate tra le due fazioni si diceva aleggiasse la longa manu del potere, pronto a favorire e addirittura alimentare le contese come sfogo degli umori popolari, ma anche come esibizione di fierezza. Infatti una guerra dei pugni era stata offerta nel 1574 in onore di Enrico III di Francia in visita alla città.

Qualcuno sosteneva pure che nei tempi antichi la rivalità tra sestieri “de citra” e “de ultra”, quindi tra Castellani e Nicolotti, facesse comodo ai governanti che, in caso di sollevazione di una parte, avrebbero potuto contare sull’altra.

Il “Doge dei Nicolotti

Disgraziatamente Dorsoduro era un sestiere per nulla ricco. Più che barcaioli, in prevalenza era abitato da poveri pescatori che praticavano la minuta pesca lagunare senza che le reti fossero mai abbastanza gonfie da migliorare le loro condizioni. In particolare, era povera la gente della contrada di San Raffaele Arcangelo, ma anche quelli di Santa Marta e San Nicolò dei Mendicoli non se la cavavano meglio.

L’arte dei pescatori era costituita in confraternita, detta “fraglia”, dotata come tutte le altre corporazioni veneziane di uno statuto, detto “mariegola” approvato dal magistrato dei Giustizieri Vecchi e presieduta da un Gastaldo eletto alla presenza di un notaio ducale che raccoglieva il suo giuramento. Per antica tradizione quello dei pescatori era chiamato “Doge dei Nicolotti” o “Doge dei Pescatori”. Godeva di alcuni privilegi, come l’invito a pranzare con il doge, quello vero, una volta all’anno insieme a dodici dei suoi e al cancelliere dell’arte, e affiancare su una barchetta il Bucintoro con a bordo il collega più importante durante la cerimonia dello Sposalizio con il Mare nel giorno della “Sensa”, cioè la festa dell’Ascensione. Questi “privilegi” erano davvero poca cosa se paragonati alle prebende delle cariche di governo e dell’alta burocrazia, ma erano accettati con fierezza dalla gente di quelle contrade. Meglio poco che niente!

Dopo l’elezione il prescelto indossava calze, scarpe, toga e berretto rossi e percorreva l’intera città in corteo fino a Palazzo Ducale, accompagnato dai suoi pescatori al suono di trombe, tamburi e scoppi di mortaretti. Qui il Serenissimo Principe, cioè il doge, lo abbracciava e baciava come fosse un suo parigrado, ma quello era solo un povero pescatore che il giorno dopo sarebbe tornato a sfamarsi con i pesci della laguna.

Il Malcanton e i contrabbandieri

Anche Dorsoduro, come altri luoghi di Venezia, dal punto di vista storico aveva qualche scheletro nell’armadio. Per esempio, il rio e la fondamenta Malcanton, al confine con il sestiere di Santa Croce, dovevano il tristo nome alla cruenta fine del vescovo Ramperto Polo.

Il prelato si era recato in loco per intimare a don Bartolomeo Dandolo, parroco di San Pantalon, di versare le decime sui morti della parrocchia come d’uso ai tempi. Il parroco, invece, si era ritenuto esentato dal predecessore del Polo, ma costui non ne aveva voluto sapere. Così era stato affrontato da una folla schierata dalla parte del parroco, povera gente per la quale anche pochi soldi di decima avrebbero rappresentato un esborso gravoso. Per questo erano stati saggiamente esentati e per questo detta folla inferocita aveva linciato il vescovo.

Dopo il cruento episodio, fondamenta e canale avevano goduto della peggior fama, ma c’era dell’altro. A Dorsoduro, lungo le fondamenta delle Zattere affacciate sul canale della Giudecca, frammisti a navi e imbarcazioni di ogni tipo, era facile trovare nella baraonda degli attracchi “trabacoli” e “brazere”, imbarcazioni tradizionali della laguna e del piccolo cabotaggio. Per condurre questi piccoli navigli, adibiti di norma alla navigazione sotto costa, bastava un equipaggio di una mezza dozzina di uomini. Venivano utilizzati per la pesca, per il trasporto, ma anche per il contrabbando, più redditizio e meno faticoso del calar reti in mare o il carico e scarico di merci.

Non lontano c’erano i Saloni del Sale, emporio dov’era custodito il prezioso prodotto trasportato in città dalle navi tonde, le grosse imbarcazioni a vela adibite ai traffici commerciali e pesantemente tassato prima della vendita al pubblico. Quello illecito proveniva soprattutto dall’Istria o dalle saline di Cervia, ma anche da altrove. Il popolo, di norma fieramente veneziano e favorevole al governo, in questo caso e per ragioni di saccoccia stava, invece, dalla alla parte dei contrabbandieri: il loro sale costava meno! Una di queste imbarcazioni caricava circa 20 mila libbre grosse di sale per viaggio che fruttava attorno agli ottocento ducati, rivendendo il sale a cinque soldi la libbra e pagandola tre all’acquisto.

Queste notizie le ho apprese per scrivere il libro Il Signore di Notte, un giallo nella Venezia del 1605, che, pur essendo un thriller con tutte le caratteristiche del genere come omicidi, agguati, ecc. contiene anche brevi divagazioni su curiosità, usi, costumi, fatti e fatterelli dell’antica Repubblica di Venezia e dei suoi undici secoli di vita. Diciamo pure che mi è costato più tempo a documentarmi che non a scrivere, come testimonia la vasta bibliografia in coda al volume. Poi ci sono state le lunghe scarpinate per Venezia alla ricerca dei luoghi dove erano vissuti i principali personaggi nel 1605 e ambientare la trama che, al contrario, è di pura invenzione.

Nelle foto scattate dall’autore: uno scorcio del Rio de l’Anzolo Rafael e la chiesa omonima nel sestiere veneziano di Dorsoduro.

La citazione

“Non incontrarono anima viva, salvo un mendicante intento a vagabondare farfugliando a capo chino, un fagotto sulle spalle, trascinando i piedi alla ricerca di un posto dove riposare. Se ne avvide per tempo il capitano e si appiattì nell’oscurità contro un muro, subito imitato dal Barbarigo. L’uomo venne avanti senza scorgerli, anche se con quegli stracci addosso di sicuro li avrebbe scambiati per vagabondi come lui. Poi senza una ragione invertì il cammino allontanandosi con passo incerto.”

Il Signore di Notte. Un giallo nella Venezia del 1605, romanzo di Gustavo Vitali (2020)

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About Gustavo Vitali

Sono nato a Milano il 4 agosto. Non dico l’anno perché al riguardo sono un tantino ritrosetto ... Da oltre trent’anni vivo nella bergamasca. Ho due figli, Federico e Claudio. Istruzione: liceo scientifico e scienze politiche. Nessuna lode particolare: “È un ragazzo intelligente, ma non si applica abbastanza!” l’invariabile, ancorché poco appagante, giudizio dei miei insegnanti. Cosicché anni dopo la laurea è finita in soffitta, complice l’attività di famiglia, poi mia, dalla quale sono stato risucchiato. Ho anche fondato e diretto per una dozzina d’anni una rivista di settore. Passioni: il volo in parapendio ultima in ordine di tempo, cosa che mi ha portato a ricoprire da anni il ruolo di ufficio stampa nella FIVL (Associazione Nazionale Italiana Volo Libero – parapendio e deltaplano). Ovvio che non è stata la passione per il volo a spingermi a scrivere “Il Signore di Notte”, un giallo ambientato nella Venezia dei dogi! Lo è stata, invece, quella per la storia, da sempre. Ricordo che da ragazzino preferivo i sussidiari ai fumetti e leggevo la storia antica come fosse un romanzo d’avventura. Il vizio è rimasto in giovinezza e poi oltre, fino a oggi. Però come sia sorto l’interesse per la storia dell’antica Serenissima in particolare non saprei dire. Fatto sta che ho cominciato a leggere autori come Alvise Zorzi e altri storici che si sono occupati della sua storia lunga undici, forse tredici secoli. Quindi sono un lettore a senso unico: storia e ancora storia con qualche deviazione per la letteratura gialla. Congiunto alla passione per la storia, il vizio di non saper trattenere i ditini dalla tastiera. Prima la Olivetti “lettera 32” e poi il personal fin dagli anni ’70, quando costavano un botto. Anche la stilografica, prima di macchine da scrivere e computer, ha fatto il suo corso. Ecco perché “Il Signore di Notte” è insieme un racconto giallo con brevi riferimenti storici, una trama inventata, ma i personaggi sono reali, vissuti nel 1605, l’epoca dove l’ho ambientato. www.gustavovitali.it