Quando a Venezia si andava a cavallo

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Visitando Venezia sembrano mancare gli spazi verdi, o almeno questo appare camminando per le calli. Credo che l’area più estesa siano i giardini pubblici napoleonici, detti anche della Biennale, cioè la Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, ubicati nel sestiere di Castello. Per il resto la città appare come tutta case e palazzi … e che palazzi! Ma non è sempre stato così.

Le origini di Venezia tra evangelisti, apostoli, carpentieri e consoli

Per la tradizione, probabilmente basata su una leggenda, la nascita di Venezia sarebbe avvenuta il 25 marzo 421 d.C. con la consacrazione della Chiesa di San Giacomo, da parte di quattro famiglie patrizie definite dalla storia “Evangeliste”: Giustinian, Corner, Bragadin e Bembo. Queste, insieme a dodici cosiddette “Apostoliche” e altre otto “Tribunizie”, avrebbero formato il ristretto gruppo delle “case vecchie”, o “longhi”, cioè i casati di più antica nobiltà. È evidente l’accostamento alla storia della Chiesa, fondata su dodici apostoli e propugnata da quattro evangelisti.

C’è anche chi sostiene che la chiesa di San Giacomo sia stata principiata per il voto di un carpentiere, tale Candioto o Eutinopo, che si sarebbe rivolto al santo per domare un grave incendio. Secondo un’altra tradizione, invece, la città sarebbe nata quando tre consoli padovani avrebbero guidato la popolazione, in fuga davanti ad Attila, sull’isola detta Rivus Altus o Riva Alta, nel senso di “canale profondo”, quella che sarebbe diventata poi Rialto.

Tradizione e leggende a parte, possiamo immaginare come costoro, insieme alla vita, abbiano messo in salvo anche i propri beni, ivi compresi gli animali, trovando nella laguna un habitat verdeggiante adatto ad allevarli.

Il capodanno veneziano

Tuttavia studi approfonditi hanno stabilito che San Giacomo è di epoca più tarda ed è storicamente provato che, insieme ai fuggiaschi su Rivo Alto, altri gruppi provenienti da diverse città si sarebbero messi al sicuro su altre isole, creando nuovi nuclei, come la vicina Olivòlo, cosiddetta forse per le coltivazioni di ulivi o per la forma dell’isolotto. Non erano i primi perché la laguna, sebbene in modo sparso, era stata abitata da sempre. Allora, più che Rialto, erano importanti gli insediamenti di Torcélo, Ammiana, Grado, Eracliana, Equilio, Chioggia, Metamaucum, oggi Malamocco, identificata poi come sede vescovile e residenza dei primi dogi.

Fatto sta che quel 25 marzo era rimasto come il natale di Venezia, marzo il primo mese dell’anno nel calendario veneziano e le date sui documenti erano seguite dall’abbreviazione m.v., “more veneto”, cioè secondo il costume dei Veneti. 

“Campi”, “campielli” e cavalli colorati

Quindi per secoli tra un insediamento e l’altro la laguna aveva conservato ampi spazi verdi. Fino al Medioevo si erano coltivati orti e campi, bestiame grosso e minuto era stato allevato in stalle e corti, si era vendemmiato, andati a caccia e a cavallo. Poi gli spostamenti in barca, più agevoli rispetto a quelli terrestri, prenderanno il sopravvento, soprattutto nel centro urbano che era andato via via formandosi. Non a caso le piazze di Venezia secondo la grandezza sono state chiamate “campi” o “campielli” perché nei tempi antichi erano destinati a pascolo per gli animali più grossi, al razzolare di polli e altri pennuti, o coltivate a ortaglie.

Per lungi anni i patrizi in occasione delle riunioni del Maggior Consiglio raggiungevano Palazzo Ducale in sella ai propri destrieri, convocati da suono di una campana del campanile di San Marco, la “trottiera”, un nome che dice tutto. Cavalcare in città era per lo più favorito da calli e campi non selciati, ponti senza scalini, molto simili a passerelle di “tole”, cioè tavole di legno che venivano rimosse all’occorrenza per favorire il transito delle imbarcazioni.

Il litorale a nord della laguna aveva ospitato allevamenti equini, tanto da affibbiargli il nome di Cavallino, mentre il Ponte della Paglia, tra i sestieri di San Marco e di Castello, deve il suo nome allo scarico di questa utilizzata per le stalle all’interno della corte di Palazzo Ducale, ma anche per i giacigli delle prigioni poste fino al 1605 sotto il palazzo medesimo. Dalle parti di Campo SS. Giovanni e Paolo fino al ‘700 resistette un maneggio coperto, la Cavallerizza.

Era in voga l’usanza di dipingere i quadrupedi con colori vivaci, in particolare di arancione grazie ai pigmenti di una pianta proveniente dall’isola di Cipro, mentre la rifinitura delle bardature costituiva un vanto per gli aristocratici. Il Petrarca nel 1362 aveva definito i veneziani “cavalieri”, ma in seguito “cavalcare alla veneziana” era rimasto a indicare una persona poco pratica di maneggio, visto che gli abitanti della Serenissima non avevano spazi per esercitarsi.

Divieto di circolazione

Nel frattempo, oltre al lezzo e alla sporcizia, era diventato talmente caotico e pericoloso spostarsi in groppa ad animali in una città dagli spazi sempre più ristretti che si era dovuto correre ai ripari.

Nel 1287 era stato proibito cavalcare dalle Mercerie fino a piazza San Marco, esentando dal divieto i forestieri per facilitare i mercanti venuti da fuori a raggiungere il cuore commerciale della città. Si dice che l’ultimo “cavaliere” sia stato un funzionario disonesto, condannato a passare in quella zona su un asino e con un paio di corna in testa, alla berlina un po’ come si usava allora con gli eretici.

Quattro anni dopo si era ingiunto a chi provenisse da Rialto di legare gli animali a un legno da stallo in campo San Salvator e proseguire a piedi verso la piazza. Si dice ci fosse pure una tassa da pagare.

Proibito in tutta la città l’uso di cavalcature prive di sonagli, asini e muli compresi. In seguito l’uso degli animali da soma cesserà nel corso del Rinascimento anche per l’aumento del numero dei ponti ad arco, quindi con scalini, e delle calli selciate.


La verdeggiante Corte Ca’ Dario nel sestiere di Santa Croce, dove nella trama del libro giallo Il Signore di Notte è stata posta la residenza di una bella dama

Il “brolo”

Ancora nel Rinascimento il verde era abbastanza diffuso grazie alle ortaglie dei conventi e ai giardini privati che resisteranno fino ai nostri giorni. In piazza San Marco erano sopravvissuti avanzi di vigne insieme a un deposito di immondizie e a una latrina pubblica, tutto spazzato via nel 1504.

A una zona di questa che è l’unica piazza di Venezia a fregiarsi di tale titolo, era rimasto cucito il nome di “brolo”, termine derivante dal latino “brolus”, vale a dire orto, giardino, retaggio di quando era occupata dagli orti delle suore del convento di San Zaccaria.

Il “brolo” era diventato un luogo simbolico della politica veneziana: qui si presentavano i candidati alle varie cariche, i giovani che entravano per la prima volta nel Maggior Consiglio, le famiglie stringevano alleanze politiche, accordi economici, matrimoniali e altro ancora. Qui i voti dei patrizi poveracci, i cosiddetti “barnabotti” dal nome della contrada di San Barnaba dove lo stato assegnava loro delle casette per levarli dalla strada, trovavano compratori in altri patrizi più agiati che si garantivano così il sostegno per una carica o per una proposta di legge. Cosicché da “brolo”, quale luogo di mercimonio del voto, deriva l’odierno “broglio” nel senso di broglio elettorale.

La resa

Insieme alla scomparsa dei quadrupedi e all’incalzare dell’edilizia per dare alloggio a una popolazione in forte crescita, piano piano gli spazi verdi si erano andati assottigliando.

Giusto per fare un esempio, nel 1563 Venezia con i suoi 170 mila abitanti era la terza città d’Europa dopo Parigi e Napoli che alla fine del secolo ne contavano oltre 200 mila. Poi la peste, tra il 1575 e il 1577, aveva ridotto drasticamente il numero, tanto che una decina d’anni dopo si erano censiti 148.627 abitanti.

Il verde aveva resistito strenuamente nelle vicinanze dell’Arsenale, dov’era proibito costruire per ragioni di sicurezza, e nei “terreni vacui”, cioè liberi, come quelli sulla sponda detta “rovescio della Giudecca”. Anche attorno alle aree adibite a depositi di legname, ai campi per il gioco della palla e della racchetta e nei pressi dei poligoni di tiro, con l’arco e la balestra prima, con archibugi e pistole dopo.

Poi pian piano la resa era stato il mesto destino per la gran parte di questi ultimi baluardi ecologici, per non dire tutti quelli nei pressi e dentro l’agglomerato urbano. È andata meglio ai giardini privati.

“Francesco ricordava le date del sacco di Roma nel 410 e della caduta di Aquileia nel 452. Ancora meglio quella del 25 marzo 421, giorno in cui la tradizione collocava la nascita di Venezia allora circoscritta al piccolo nucleo di Rialto. Infatti all’inizio con il nome di “Venexia” si era indicato tutto un territorio di isole dove per secoli si era andati a cavallo, a caccia e coltivata la vite. Francesco non avrebbe voluto vivere a quei tempi, in quelle terre ancora poco abitate e con case scomode, poco più che capanne.”

Il Signore di Notte. Un giallo nella Venezia del 1605, romanzo di Gustavo Vitali (2020)

Nella foto in alto il Campiello Zen (già Ceresa) a Cannaregio, in tempi antichi uno dei tanti spazi sfruttati per allevare animali grandi e piccoli. (foto dell’autore)

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About Gustavo Vitali

Sono nato a Milano il 4 agosto. Non dico l’anno perché al riguardo sono un tantino ritrosetto ... Da oltre trent’anni vivo nella bergamasca. Ho due figli, Federico e Claudio. Istruzione: liceo scientifico e scienze politiche. Nessuna lode particolare: “È un ragazzo intelligente, ma non si applica abbastanza!” l’invariabile, ancorché poco appagante, giudizio dei miei insegnanti. Cosicché anni dopo la laurea è finita in soffitta, complice l’attività di famiglia, poi mia, dalla quale sono stato risucchiato. Ho anche fondato e diretto per una dozzina d’anni una rivista di settore. Passioni: il volo in parapendio ultima in ordine di tempo, cosa che mi ha portato a ricoprire da anni il ruolo di ufficio stampa nella FIVL (Associazione Nazionale Italiana Volo Libero – parapendio e deltaplano). Ovvio che non è stata la passione per il volo a spingermi a scrivere “Il Signore di Notte”, un giallo ambientato nella Venezia dei dogi! Lo è stata, invece, quella per la storia, da sempre. Ricordo che da ragazzino preferivo i sussidiari ai fumetti e leggevo la storia antica come fosse un romanzo d’avventura. Il vizio è rimasto in giovinezza e poi oltre, fino a oggi. Però come sia sorto l’interesse per la storia dell’antica Serenissima in particolare non saprei dire. Fatto sta che ho cominciato a leggere autori come Alvise Zorzi e altri storici che si sono occupati della sua storia lunga undici, forse tredici secoli. Quindi sono un lettore a senso unico: storia e ancora storia con qualche deviazione per la letteratura gialla. Congiunto alla passione per la storia, il vizio di non saper trattenere i ditini dalla tastiera. Prima la Olivetti “lettera 32” e poi il personal fin dagli anni ’70, quando costavano un botto. Anche la stilografica, prima di macchine da scrivere e computer, ha fatto il suo corso. Ecco perché “Il Signore di Notte” è insieme un racconto giallo con brevi riferimenti storici, una trama inventata, ma i personaggi sono reali, vissuti nel 1605, l’epoca dove l’ho ambientato. www.gustavovitali.it