Aspettativa

È ormai già da un po’ che i negozi gridano “Natale!”, dando via al periodo dell’aspettare e dell’aspettarsi. Si attende con ansia l’arrivo delle feste, si aspetta l’anno nuovo, con un po’ di ansia per il tempo che passa e una penna in mano per trascrivere i buoni propositi; ci si aspetta dagli altri, che saranno tutti più buoni, che saranno tutti pronti ad alzare un calice, a essere felici e festeggiare, anche quando fuori c’è un mondo che sembra andare in pezzi. Mentre il tempo scorre e chi può si prepara a lasciarsi andare all’atmosfera magica e un po’ malinconica del Natale, esploriamo l’aspettativa.

Dal latino expectare, il termine è composto da ex, ‘fuori’ e spectare, ‘guardare’, ovvero l’attesa del verificarsi di qualcosa, un guardare al futuro attendendo che si compi. L’etimologia ricorda il sostantivo della lingua inuit iktsuarpok, che descrive quel senso di aspettativa che ti spinge a uscire ripetutamente per vedere se magari qualcuno sta arrivando. Possiamo quasi percepire sulla nostra stessa pelle quei sentimenti che avvolgono chi se ne sta in attesa, chi entra ed esce per vedere se la persona attesa all’improvviso compare in lontananza. Come Penelope, nell’Odissea, che tesse la sua tela e la disfa di notte, mentre attende di vedere ritornare Ulisse e, senza dubitare, fa di tutto pure di sfuggire alle nuove nozze. Anche Vladimiro ed Estragone, del celebre dramma associato al teatro dell’assurdo Aspettando Godot di Samuel Beckett, attendono qualcuno, attendono Godot, un’entità dai contorni poco chiari che, a seconda dell’interpretazione, può essere un vecchio amico, un padrone, o l’opportunità di una vita, quell’aspettare qualcosa che possa dare senso alla propria esistenza, salvandoci dalla disperazione.    
L’aspettativa, però, non è solo un guardare fuori in attesa che qualcosa si compia, è anche un guardarsi dall’esterno, come scrutare la propria anima riflessa in uno specchio, chiedendosi cosa vorremmo per noi e, in nome di quel disegno che abbiamo tracciato, lottare, come lotta James Gatz (Il grande Gatsby di F.S. Fitzgerlad) per cambiare la sua vita il suo status quo, lasciando la sua famiglia, cambiando il suo nome pur di costruirsi una vita all’altezza delle sue aspettative e di riconquistare la sua Daisy.       
Non sempre, però, siamo noi a dettare le aspettative, molto spesso arrivano dall’esterno e ci piovono addosso, diventando macigni. Lo sa bene Vitangelo Moscarda, protagonista di Uno, nessuno e centomila (Luigi Pirandello) che scopre quanto sia diversa la percezione di noi, a seconda di chi ci guarda, tanto da rendersi conto che in noi si celano una moltitudine di individui, costruiti dai pregiudizi e le aspettative che gli altri ci impongono.

Dolce, amara, leggera e fiduciosa, spaventosa e schiacciante, l’aspettativa che la impongano gli altri, o la imponiamo noi stessi, può assumere diverse forme.                                                           
Sembra quasi inevitabile, diventando, spesso, una sfida con noi stessi per essere all’altezza e non deludere. Luca Cantore D’Amore, nel suo romanzo L’estetica del decanter (Edizioni Il Papavero), si chiede se, per quanto i sogni siano sacrosanti, non valga la pena abbassare, di tanto in tanto, quell’asticella delle aspettative, accontentandosi per una volta e guardando scorrere la vita, in tutta la sua semplicità. Non è forse questa la chiave per cogliere la purezza che spesso abbiamo davanti agli occhi e che non siamo in grado di vedere?

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About Martina Bruno

Martina Bruno, laureata in Lingue e Letterature Moderne, classe 1996, fermamente convinta che la comunicazione e la cultura, in tutte le sue sfaccettature, siano elementi fondamentali per entrare in relazione con gli altri e con il mondo. Non posso smettere di essere curiosa e osservare, c’è troppo da scoprire, assaporare e raccontare.