San Fiore del Carso, maggio 1945 di Eleonora Davide

Un fetore immondo la svegliò dal torpore e lei tentò di turarsi il naso, ma non ci riuscì. Aveva le mani legate. Ricordò tutto.

Peppa si trovava nella sua fattoria a curare gli animali quando sentì un fruscio tra i cespugli che bordavano il muretto che delimitava la sua proprietà. Pensò a una serpe.

Amava prendersi cura delle sue cose ed era maniacale nella pulizia della masseria. Anche e soprattutto della stalla, in cui con le amiche di sera in inverno Peppa si riuniva perfino a mangiare e a trascorrere al caldo del quadretto presepiale, insieme agli altri amici del circondario, le ore che non si dedicavano al lavoro. Il prosciutto non mancava e neanche la polenta. In casa Cosidin tutti venivano ospitati con generosità. Peppa era stata sposata ma il marito era morto giovane a causa di una malattia e non avevano avuto figli. Ora era sola ma sapeva badare a se stessa, poi aveva amici che le facevano compagnia e ormai era vecchia. Più o meno ogni settimana scendeva a Trieste per andare a fare visita ai nipoti e agli altri parenti e scambiare quattro chiacchiere e Carlo le era affezionato.

«Giuseppa Cosidin!» le urlò la voce dall’accento slavo. «Vieni con noi!» le piombarono addosso in tre. Erano armati. Eppure non avrebbe saputo come opporre resistenza a un solo uomo. Che bisogno c’era di tanta violenza, pensò. «Lassateme star, che ve go fato?» Chiese spaventata. Nessuna risposta. La trascinarono via legandole insieme le mani con del filo di ferro. «Me fazo mal. Che modi?!» Nessuna risposta. Ora era terrorizzata. «Dove me te porti?» Disse all’uomo che le era più vicino. Era magro, portava una divisa gualcita e senza mostrine e aveva un velo di barba in faccia, non era vecchio ma segnato e soprattutto, si accorse, era ubriaco. «Verzin Santa gabi pietà de mi…», iniziò a sussurrare disperata. «Utihni!» (taci!) fu la risposta. Mentre si allontanavano dalla casa con la coda dell’occhio Peppa vide un’ombra infilarsi in casa. Le sembrava un’immagine familiare. Sperò che qualcuno fosse lì per aiutarla.

La mente era confusa e le ginocchia si erano ferite e sanguinavano perché era caduta due volte, strattonata da quegli uomini e non aveva potuto usare le mani legate strette a quel filo con cui la trascinavano dietro di loro. Dopo pochi chilometri si accorse che le mani le si erano gonfiate, non le sentiva quasi più. Ma dove stavano andando? Peppa fece di tutto per ritornare in sé, per ragionare. Lei quei posti li conosceva bene. Erano casa sua. Si sentiva anche il rumore del treno, erano vicini alla stazione di San Fiore. Finalmente si fermarono e si sentirono altre voci. Una speranza? No, solo i compagni di quei masnadieri che portavano con loro altre persone legate nello stesso modo, uno dietro l’altro. Li unirono tutti insieme in una lunga colonna, potevano essere una quindicina. Uno dietro l’altro senza potersi guardare, senza parlarsi. Due di loro – Peppa aveva notato – erano seminudi e portavano i segni delle percosse subite. Aveva fatto bene a non ribellarsi, pensò. Si guardò intorno e ad un tratto capì. L’altopiano del Carso si estendeva davanti a loro e questo non le diceva niente di buono. Si ricordò di aver notato la mancanza di qualche amico in paese, San Fiore era un centro piccolino e si conoscevano tutti. Peppa aveva pensato, ingenuamente, che fossero ammalati ma adesso iniziava a capire il perché di quelle scomparse e il terrore le strinse la gola, si sentì soffocare.

Si guardò di nuovo intorno disperata e poi ricordò che quando l’avevano rapita stava potando le siepi come faceva periodicamente. Il cervello ricominciò a funzionare e una lieve sensazione di calore le invase il petto.

Atri pesanti passi sotto il sole che ormai era alto li portarono in un campo, come quelli che i contadini chiamavano polje. Lo attraversarono in lungo e si fermarono in un punto in cui si apriva la terra: era una foiba.

Il pozzo era  conosciuto con il nome di Fovea Maledetta, e si raccontavano su questo luogo oscure leggende, più per dissuadere i bambini ad avventurarsi nel bosco che perché qualcuno ci credesse davvero. Si diceva che l’inghiottitoio fosse abitato dalle streghe che, sdentate, con lunghe zanne e capelli a forma di chiodi, rapivano i bambini che si avventuravano da soli.

Quelle storie di infoibati che qualcuno mormorava, invece, purtroppo erano vere, ora se ne rendeva conto Peppa e pensava a quegli amici scomparsi in paese. Li immaginò come lei, legati e spaventati. Non poteva finire così.

A quel punto cominciarono a chiamarli tutti per nome uno alla volta. Erano intorno alla foiba. Poi una mitragliata nella schiena del primo e tutti furono trascinati con lui nell’abisso.

Fu tutto buio. Un’esplosione. Poi niente.

Quando Peppa riprese i sensi si guardò intorno e vide i suoi compagni di disavventura. Ora le sembrò di riconoscere alcune di quelle facce nonostante le tumefazioni dovute alla caduta e ai rimbalzi che i corpi avevano subito all’impatto con la dura roccia e le ferite riportate in seguito all’esplosione che aveva sentito e che le aveva lasciato un forte acufene nelle orecchie. Ma veramente avevano fatto saltare il pozzo? Pensò. Quello lì non è il gerarca di Marsina? Non lo vedevo da tempo. Quell’altro assomiglia, non è possibile, a Santo, ha la masseria a Terratico. Mio Dio! Erano tutti morti. Anzi no. Un lamento le ridiede un po’ di coraggio. Lo chiamò «Sei vivo?» Un altro mugugno. Il poverino – lo vedeva perché un raggio di luce si era infilato chissà come in quell’abisso – era per metà nell’acqua del pozzo e non riusciva a muoversi. «Sono bloccato, c’è un morto attaccato alla mia gamba e le mani sono legate a questo maledetto filo di ferro del cavolo. Non riesco a muovermi».

Peppa di colpo ricordò che forse qualcosa l’aveva con sé. Infilò, non senza difficoltà, le mani, divenute quasi completamente insensibili, nel tascone del grembiule che non aveva neanche fatto in tempo a sfilarsi quando l’avevano presa. Sentì qualcosa di solido che le scivolava di mano, non aveva presa. Si concentrò con tutta la forza che la disperazione le dava e afferrò l’oggetto sperando di riuscire a usarlo. Si trattava delle cesoie con cui stava aggiustando le sue siepi quella mattina, o quell’altra ancora: non sapeva più quanto tempo fosse passato. Se le portò con lentezza estrema alla bocca. E, con i pochi denti che le erano rimasti sani, provò ad afferrane un’impugnatura. Poi infilò, con dolore, una delle lame sotto il filo che era penetrato nella carne del robusto polso della mano destra e serrò le cesoie con l’aiuto di tutto il corpo. Si era accorta che non sentiva più le gambe ma non voleva pensarci. Aveva bisogno della mani. L’uomo che le aveva parlato continuava a lamentarsi sempre più debolmente, chiedeva aiuto. Poi tacque.

La pelle, ferita e compressa nello sforzo, tendeva a cedere e la cesoia, penetrando più decisamente nello spazio creatosi, funzionò. Tac! Una mano era libera e il sangue ricominciò a fluire, sentì il formicolio e pian piano anche il dolore. L’articolò ripetutamente ed afferrò le cesoie con la mano libera. Le fu più facile liberarsi dall’altro laccio. Un lungo sospirò di sollievo si interruppe quando si ricordò di controllare la situazione delle sue gambe: temeva di scoprire di non averle più. Invece anche lei aveva un cadavere addosso che, col suo peso, impediva la circolazione del sangue e che era ben visibile ora che gli occhi si erano abituati all’oscurità.

Tentò di spostarlo ma pesava. Fece leva con il busto e riuscì a farlo scivolare più giù finché, come un sacco di letame, non si raccolse più in basso. «Ehi tu!» Gridò al superstite «sei ancora vivo?». «Non lo so» disse l’altro. La tendenza a ironizzare in ogni occasione le fece riconoscere nell’uomo un vero triestino. «Se riesco a muovermi vengo ad aiutarti, non disperare», disse lei divincolandosi.

Il duro lavoro di campagna aveva irrobustito le sue ossa e il buon nutrimento le aveva fatto mettere da parte un po’ di forza. «Grazie buon Dio!» Disse quando riuscì a liberarsi. Dovette scavalcare i corpi che la separavano dallo sconosciuto ma lo raggiunse. Lo guardò: era magro scavato. «Quanto xe che no te magni?» Gli chiese cercando un modo per liberarlo. «Una vida», rispose lui con un sorriso che mise in vista dei denti perfetti. Cacciò le cesoie e lo liberò, lui non emise neanche un gemito, nonostante il suo stato. Poi frugo sotto l’acqua per cercare di liberargli le gambe. «Aiutame no star lì impalado, ciò movite! Cusì te alzi anca ti». Lui si sforzò di sfilare via le gambe da quell’ingombro e, dopo immani e lunghi sforzi, fu libero.

Il fetore che l’aveva svegliata era ancora presente in tutta la sua potenza e, ora che era libera, si liberò lo stomaco in quell’acqua nera più della morte.

«Dovemo andar via de qui omo. No se pol morir de spusa». Il pozzo poteva essere profondo 100 metri o forse di più. Sulla parete di fronte a quella alla cui base, insieme a loro, erano ammassati i corpi degli sfortunati compagni, c’erano un paio di pianerottoli che l’acqua aveva modellato nei secoli. Nonostante la malagevole china fosse piuttosto ripida, riuscirono a raggiungere il primo di questi anfratti, facendosi forza l’uno con l’altro, aggrappandosi ad alcune colonne sporgenti dalla roccia.

Si fermarono quando videro apparire un pezzetto di cielo e si addormentarono in attesa che arrivasse la notte. Non avevano nessuna voglia di incontrare quei banditi di nuovo.

Quando scesero le tenebre, Peppa e Antonio, così diceva di chiamarsi l’uomo, tornarono in superficie attenti a non fare rumore.

Peppa aveva fatto nascere tanti bambini in paese, era una levatrice. Non lo faceva più da anni ma anche questa volta era riuscita a salvare una vita, anzi due. Era il suo lavoro in fondo.

Riuscirono a trovare un casolare disabitato, probabilmente abbandonato nello sesso modo che era capitato a lei, e vi si rintanarono cercando del cibo. Si vedeva che la casa era stata saccheggiata ma dovevano trovare qualcosa e, in effetti, qualcosa era sfuggito. Peppa sapeva che i contadini in quel periodo spesso nascondevano le riserve di cibo. Le cassapanche avevano alcune volte un doppio fondo in cui, avvolte in molti stracci immacolati, si conservavano le provviste di formaggi e di salumi. Furono fortunati a trovare anche una bottiglia di vino e si saziarono cercando di riprendere le forze per proseguire il viaggio verso casa. La mia casa, pensò Peppa. La mia casa sarà stata saccheggiata. I miei animali, poveri… Le mie oche. Che peccato. Ma poi: perché?

«Perché ci hanno catturato, Nini?» Disse al compagno di sventura che stava iniziando a mettere un po’ di colore su quella faccia sofferente. Lui era di Prosecco, le aveva raccontato, era un farmacista. Era stato catturato e tenuto per settimane in un casolare del Carso. Erano slavi, diceva, erano lì perché volevano indietro quello che i fascisti si erano presi. «Gli ho detto che io con i fascisti non c’entravo niente e che io non avevo fatto male a nessuno. Non mi hanno voluto credere, dicevano che ero una spia, un italiano e un fascista e che dovevo morire». Gli avevano saccheggiato la farmacia sotto i suoi occhi. Quanto lavoro, tutte le sue ricette… Quanto orrore! Aveva visto morire altri prigionieri come lui e aveva visto violentare una giovane donna. Aveva dovuto guardare mentre lo facevano, non riusciva più a dormire per il disgusto. Poi l’avevano ammazzata con un colpo di pistola in faccia. Gli avevano dato da mangiare solo i loro avanzi e lo avevano tenuto in condizioni igieniche degradanti. Quando lo avevano gettato nella foiba, ne era stato quasi contento.

«Perché?» Le rispose. «Perché sono degli animali, ecco perché!»

Peppa voleva tornare a casa per controllare i suoi di animali. Così si misero in viaggio di notte, cercando di evitare di farsi vedere. Dopo un’ora abbondante, in cui evitarono di fare rumore, giunsero nei pressi della masseria. Erano accese le candele. Dentro si poteva scorgere una figura che si muoveva. Lei era spaventata. Chi c’era dentro casa sua? Poi la porta si aprì e ne uscì un uomo, lo riconobbe: era Andrea, un vicino, uno degli amici che più degli altri frequentava casa sua. Era scapolo e poteva avere raggiunto già la quarantina. Il suo podere era piccolo e si lamentava sempre dello scarso prodotto dei sui campi. In verità, tutti lo prendevano in giro dandogli dello scansafatiche. Per cui ne nascevano polemiche infinite su cui si finiva sempre per bere e divertirsi. Era stato un Ardito nella Prima Guerra Mondiale e millantava di avere svolto missioni rischiosissime. Pare che avesse fatto fuori diversi crucchi, almeno a detta sua. Non ci credeva nessuno perché non pensavano che fosse capace neanche di prendersi la briga di imbracciare sul serio un fucile e di sparare. Dopo la guerra si era sentito emarginato, perché l’aria stava cambiando e gli eroi osannati durante il conflitto venivano accusati di interventismo dagli attivisti socialisti, da sempre contrari alla guerra, che in questa guerra vedevano un’ulteriore sottomissione dell’Italia, questa volta alle volontà degli alleati. La “vittoria mutilata”, priva della Dalmazia e di Fiume, proclamata da D’Annunzio, aveva ridimensionato l’euforia della vittoria e della liberazione dal giogo asburgico. Molti, come Andrea, aderirono al Partito Fascista, divenendone il braccio armato, per riscattare l’onore della Patria beffata e anche perché le brutture cui erano stati costretti li avevano segnati per sempre.

Ma il Partito aveva espulso Andrea perché doveva essersi macchiato di una qualche mancanza grave di cui nessuno conosceva la natura.

In ogni modo era un po’ che non lo si vedeva. Ma nel circondario si era diffuso l’implicito accordo di non farsi domande quando scompariva qualcuno.

«Andrea?» Gridò Peppa per farsi vedere. «Che te fa qui?» Lui lasciò cadere la bacinella che portava in mano per svuotarla fuori. Rimase di sasso e si sarebbe potuto vederlo sbiancare se non fosse stato che la luce era appena sufficiente per poterlo distinguere. «Peppa?» «Son mi, che te fa a casa mia?» «Son qui per curar le bestie, Peppa», rispose prontamente e allargò un sorriso. Poi, ricomponendosi: «Ma tu che fine avevi fatto?» «Sapessi, Andrea…..» Lei entrò in casa e fu felice di non vederla saccheggiata dai banditi. Si sentì risollevata potendosi sedere sulla sua amata poltrona. Le si scaldò il cuore. «Entra Nini», disse rivolgendosi al compagno rimasto titubante sulla soglia. «Ti presento un mio amico, Andrea Rizzoni». «Piacere»,disse il farmacista senza entusiasmo, rimanendo ancora in piedi e lasciando la porta aperta. Ci pensò Andrea a chiuderla. «Sedetevi, vi porto da mangiare», e andò in cucina. Antonio guardò Peppa, guardò il divano dove era gettata una giacca con una strana stella rossa e disse: «Un amico? Un comunista?» «Ma che dici, è un amico fidati, vedi come mi ha tenuto la fattoria, se non ci fosse stato lui me l’avrebbero saccheggiata». «Va bene Peppa, ti ringrazio di avermi salvato la vita. Se non ti dispiace però me ne vado ché non vedo l’ora di raggiungere Prosecco, lì troverò qualcuno che mi conosce e mi potrà ospitare» «Ma sei matto? Rimani Nini, qui sarai al sicuro». «Grazie ancora ma preferisco andarmene di notte, i miei cari saranno in pensiero per me a meno che non mi abbiano già fatto il funerale. Sei stata già così cara. Non ti scorderò mai. Ci vedremo dopo che mi sarò sistemato». E uscì!

«Il tuo amico?» Disse Andrea rientrando nella stanza. «Dov’è?» «Se ne è andato, doveva raggiungere i suoi». «Va bene ora vieni a rifocillarti, ti vedo provata. E raccontami che diavolo hai combinato». Lei iniziò a mangiare, sorseggiò il vino, quel buon Terrano che le sue vigne regalavano così copiosamente e di cui andava veramente fiera.

Poi prese il suo racconto, mentre Andrea si alzava a prendere il pane. Ma a quel punto una immagine si ripropose in tutta la sua violenza: quando i tre partigiani l’avevano condotta di forza via, lei aveva visto un uomo infilarsi in casa, ora lo vide chiaramente.

Non fece in tempo a terminare il suo pensiero che la lama di un coltello le recise la giugulare. Non lo aveva neanche visto arrivare alle sue spalle.

Andrea provò lo stesso intimo piacere che avvertiva quando tagliava la gola agli austriaci di guardia alle loro trincee, dove si infilava di notte insieme agli altri Arditi. Gli dava una sensazione eccitante sentire il rumore del sangue che sprizzava fuori dall’arteria appena recisa.

Domani si celebra il Giorno del ricordo per conservare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo degli istriani, dei fiumani e dei dalmati italiani dalle loro terre durante la seconda guerra mondiale e nell’immediato secondo.

A Trieste e in Istria successero cose atroci in due distinti periodi, prima nel settembre 1943 e poi da aprile a maggio 1945, ma di fatto il terrore non smise mai di opprimere i cuori delle persone che vivevano lì. Queste “cose” segnarono la Storia del nostro Paese che ne porta ancora oggi la vergogna. Questa vergogna va spiegata, studiata e superata con la costruzione di ponti di pace, nel rispetto dei morti innocenti che, nella loro quotidianità, avevano mostrato amore per l’Italia!

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About Eleonora Davide

IL DIRETTORE RESPONSABILE Giornalista pubblicista, è geologa (è stata assistente universitaria presso la cattedra di Urbanistica alla Federico II di Napoli), abilitata all’insegnamento delle scienze (insegna in istituti statali) e ha molteplici interessi sia in campo culturale (organizza, promuove e presenta eventi e manifestazioni e scrive libri di storia locale), che artistico (è corista in un coro polifonico, suona la chitarra e si è laureata in Discipline storiche della musica presso il Conservatorio Domenico Cimarosa di Avellino). Crede nelle diverse possibilità che offrono i mezzi di comunicazione di massa e che un buon lavoro dia sempre buoni risultati, soprattutto quando si lavora in gruppo. “Trovo entusiasmante il fatto di poter lavorare con persone motivate e capaci, che ora hanno la possibilità di dare colore e sapore alle notizie e di mettere il loro cuore in un’impresa corale come la gestione di un giornale online. Se questa finestra sarà ben utilizzata, il mondo ci apparirà più vicino e scopriremo che, oltre che dalle scelte che faremo ogni giorno, il risultato dipenderà proprio dall’interazione con quel mondo”.