Le arance di nonna Elide. Autore: Angela Lonardo


Era inverno a Vitruvio. La nebbia, salendo pigra e vellutata, carezzava il viso dei passanti e rendeva il paesaggio malinconicamente sfumato.

Rita, col cappotto abbottonato fino al collo, il bavero alzato per difendersi dal freddo, cercava, tra i banchi di frutta, le arance da portare alla nonna, da qualche tempo, malata di febbre alta.

Nonna Elide, che non voleva medicine perché, diceva, intossicano il fegato e rovinano i reni.

 Nonna Elide che, tutte le mattine, sorseggiava un uovo frullato con lo zucchero, una tazzina di caffè ristretto e mezzo cucchiaio di brandy.

 

Era arrivata a novant’anni, così, senza avere mai preso un’aspirina, curando la febbre con il brodo di pollo e le arance premute insieme a un limone quasi acerbo.Non metteva zucchero nel succo di agrumi perché, sosteneva, toglie le vitamine.

Il suo vero balsamo, però, era la preghiera, incessante, perpetua, fatta sottovoce o solo col cuore. Anche quando parlava con qualcuno o ascoltava i discorsi della figlia, del genero o dei nipoti continuava a pregare, senza sosta.

Le sue mani creavano capolavori all’uncinetto, lavavano le stoviglie, stiravano montagne di biancheria ma le labbra erano sempre mosse dalle Ave Maria, dai Padrenostro, dai Salve Regina, implorando lunga vita e serenità per tutti, e un bravo ragazzo per Rita che aveva avuto una cocente delusione da Umberto, un suo ex compagno di liceo, che

l’aveva lasciata dopo averla tenuta sulla corda per anni.

L’orazione non si fermava mai, neanche quando, insonne, restava, con gli occhi aperti, nel buio della piccola stanza che la figlia Cristina aveva arredato, per lei, col letto di ottone brunito, il comodino semplice, abbinato a un piccolo settimino di legno scuro, in arte povera, la soffice coperta trapuntata, di un rosa antico che, da sola, dava vita a una calda atmosfera e col piccolo armadio contenente le poche cose necessarie a chi, come lei, passava il suo tempo prevalentemente fra le mura di casa.

Quella mattina, Rita esaminava la frutta sulla bancarella per individuare le arance più grosse e due o tre limoni da aggiungere alla spesa. Era uscita apposta lasciando, senza rimorso, il libro che stava leggendo avidamente. Non poteva sottrarsi al suo contributo nella guarigione della nonna.

Mentre, con i guanti di pelle imbottita, sceglieva la frutta, il suo sguardo si alzò, per un attimo, incontrando quello del giovane dietro il banchetto che, già da un po’, la osservava con ammirazione.

Rita, con il basco marrone da cui esplodevano, in una luce dorata, i capelli fluenti ereditati dalla madre, di un rosso tiziano, lucidi e fluttuanti come onde marine, si accorse, ben presto, di essere osservata con insistenza.

Mario non staccava gli occhi un solo istante da quel viso dolce, perfetto, con il naso piccolo e diritto, le labbra a cuore che, anche senza trucco, erano di un leggero rosa pesca. Gli occhi, un po’ allungati verso le tempie, avevano delle pagliuzze d’oro nel marrone chiaro dell’iride.

Un incanto che non permetteva a Mario di staccare lo sguardo da quella visione.

Rita cercò di sembrare indifferente, ma le tremò la voce nel chiedere di mettere, in una borsa di plastica riciclabile, dieci di quelle arance più grosse e tre limoni verdi che si notavano fra gli altri più gialli.

“Sono le medicine per mia nonna!” affermò, sorridendo timidamente.

Il giovane eseguì. Porse la busta a Rita, si presentò, la pregò di restare.

Rita arrossì. Pagò il dovuto e scappò via col viso in fiamme.

Il giovane porse i soldi all’uomo col grembiule che incassò, sorridendo, senza dire una parola, anche lui incantato dall’esile figura di Rita che si allontanava, lasciando un leggero profumo speziato dietro di sé.

Rita tornò a casa in fretta. Faceva freddo, la giornata umida non invitava a rimanere per strada. Aprendo la porta di casa, avvertì il tepore che s’irradiava dai termosifoni inondarle tutta la persona.

Appese il cappotto all’attaccapanni, entrò in cucina, distribuendo la frutta nella cesta al centro del tavolo.

Le risuonava, ancora, la voce di Mario che si presentava a lei, chiedendole di restare.

Che ci faceva quel ragazzo, così distinto, a vendere frutta in un mercatino di paese?

Con questi pensieri entrò in camera della nonna che sembrava sonnecchiare, con lo scialle appoggiato sulle spalle, ormai irrigidite dall’artrosi.

Rita si accostò al letto, rimboccò le coperte, abbassò leggermente la tapparella per creare quella penombra che permettesse alla nonna di riposare meglio.

Rimandò la preparazione della premuta di agrumi a quando nonna Elide si fosse svegliata e ritornò alla lettura del suo libro.

 Dalla finestra, udì il fischio flautato di un merlo poggiato sulla sommità dell’albero davanti casa che le ricordò di distribuire i semi, come ogni mattina, sul terreno delle aiuole sotto casa, affinché le povere bestiole, nel freddo inverno, avessero di che sfamarsi.

Riempì la piccola ciotola di granelli, infilò il cappotto, avvolse la sciarpa al collo e scese giù a versare quei chicchi nell’erba gelata.

Si divertiva, ogni volta, a guardare le schiere di merli, le coppie di tortore e alcuni piccioni che l’attendevano, dai tetti di fronte casa, in attesa di poter volare tra gli steli a beccare il loro cibo preferito.

Quando lei ritardava, per qualche motivo, il rituale, gli uccelli guardavano insistentemente verso la finestra di casa, con aria di rimprovero, passeggiando nervosi e impazienti, finché lei non decideva di scendere e compiere quel piccolo obbligo quotidiano.

Quando rientrò di nuovo in casa, Rita fece una capatina in camera della nonna, ma era tutto come prima. Un leggero ronfare si avvertiva distintamente.

E, così, tornò ancora al suo libro.

Passò più di un’ora prima che decidesse di tornare nella stanza da letto di nonna Elide.

La trovò con gli occhi socchiusi, lucidi di febbre, gli zigomi arrossati dalla temperatura che saliva, con le braccia tremanti per il freddo che lei sola avvertiva, perché la camera non era per niente gelata.

Rita ebbe paura che la situazione fosse peggiorata. Chiamò sua madre e, insieme, decisero di chiamare un medico.

Nonna Elide cercò, molto flebilmente, di protestare ma non ci fu verso di convincere Cristina e Rita che non aveva bisogno di cure.

“Mi basta un po’ di premuta e starò subito meglio”. La voce si era fatta quasi un sussurro. Svenne.

Rita stava per piangere. La paura che potesse accadere qualcosa d’irrimediabile attanagliava il suo cuore che cominciò a battere all’impazzata.

La madre corse al telefono per chiamare il medico di famiglia. Niente! Non rispondeva.

Pensò, allora, di chiamare la guardia medica. Con le mani che le tremavano, cercò la guida telefonica. Compose il numero. Dopo qualche secondo, le rispose la voce gentile del medico che chiedeva l’indirizzo al quale recarsi per la visita, e rincuorò Cristina, dicendo di non preoccuparsi perché, a una certa età, la febbre alta poteva portare un livello di disidratazione che, abbassando la pressione, provocava svenimento.

“Arrivo immediatamente!”

Con quelle parole si congedò, dandosi il tempo di chiudere la guardia medica, esporre il cartello: “Sono fuori per una visita. In caso di necessità, chiamare il numero….” e correre verso l’auto. Prima di salirvi, s’informò di dove fosse Via dei Mughetti, il numero cinque.

Era da pochi giorni a Vitruvio e non conosceva, ancora, le strade del paese.

Una signora anziana, con una busta della spesa appesa al braccio sinistro, si premurò di spiegargli, con dovizia di particolari, il percorso da seguire.

Poiché risultava, dalle spiegazioni, piuttosto vicino allo studio medico, il dottore s’incamminò, lasciando stare l’auto.

Rita, con il cuore in gola, cercò di rianimare la nonna mettendole, sotto il naso, la sua boccetta di profumo.

Mentre passava l’odorosa bottiglietta sotto il pallido viso della nonna, rincasarono dalla scuola i fratelli di Rita: Massimo e Giuseppe che percepirono, immediatamente, che le cose, in casa, non andavano bene.

Liberandosi in fretta dagli zaini e dai cappotti, si precipitarono, anch’essi, in camera della nonna che, nel frattempo, stava riprendendo conoscenza.

La paura forte era passata, ma la preoccupazione ancora mordeva lo stomaco a Rita e Cristina.

Sentirono bussare al portone di casa. Con delusione, udirono la voce del postino che chiedeva di aprire per lasciare la corrispondenza nelle cassette.

I minuti passavano, erano quasi le due quando anche Pio, il marito di Cristina, rincasò.

Del medico, invece, neppure l’ombra.

Il dottore, infatti, aveva sbagliato strada. Nell’imboccare un vialetto che, nelle spiegazioni, gli era sembrato fosse Viale dei Mille, aveva sbagliato completamente direzione.    

Tornò indietro per un tratto, poi, finalmente, si trovò di fronte Via dei Mughetti.

Per trovare il cinque non ci mise molto. Citofonò. Gli rispose la voce di Pio che lo invitò a salire al terzo piano di quel grazioso condominio, con il giardino ben curato e qualche albero distribuito qui e là.

Mentre il dottore saliva, Rita andò in cucina per bere un bicchier d’acqua. Aveva superato la paura, ma la gola era arida come il deserto.

Nel frattempo, il Dottor Meoli fece il suo ingresso nella camera dell’anziana paziente. “Cos’ha questa bella signora!” esclamò, rivolgendosi a Elide.

La nonna, però, aveva uno sguardo indispettito.

“Bastava una premuta di arance per curarmi. Che necessità c’era di farla venire fino a casa?”

Il dottore, divertito ma incurante della protesta, tastò il polso alla signora, misurò la pressione, prescrisse, con grande sollievo di Elide, qualche premuta di arance, baciò in fronte la sua paziente e le diede un pizzicotto affettuoso sulla guancia.

 Elide sorrise. Aveva dimenticato il suo risentimento. Le piaceva proprio quel ragazzo, così giovane e già così esperto, anche quel tantino“figlio di…..”che gli conferiva un’aria più simpatica.

Mentre riponeva lo stetoscopio nella borsa, lo sguardo del Dottor Meoli si posò sulla figura che apparve sulla soglia della stanza, anticipata da un profumo che gli sembrava familiare.

Il tempo si fermò in quell’istante.

Anche Pio, Cristina, Elide, Massimo e Giuseppe rimasero incantati, come nella fiaba della bella addormentata, nell’osservare il reciproco stupore di Rita e del Dottor Meoli.

 Quell’incantesimo non durò cento anni, ma sembrò, comunque, interminabile.

Rita a stento riuscì a chiudere la bocca che si era aperta in una Oh di stupore.

Mario era lì, in quella stanza. Il “ragazzo della frutta” era il nuovo medico di guardia e la fissava esattamente come quella mattina, dietro la bancarella della frutta, con ammirazione e adorazione.

Mario scoppiò in una risata fragorosa quando capì l’imbarazzo di Rita che aveva chiesto a un medico di venderle le arance.

Rita, rossa in viso per la vergogna, prima s’infuriò, pensando a come Mario le avesse venduto la frutta, prendendo anche il denaro senza dire nulla, poi si sciolse anche lei in una risata, il tutto nel breve spazio di un secondo.

Gli altri, non capendo nulla di ciò che avveniva sotto i loro occhi, si guardavano increduli.

Solo Elide sorrideva. Aveva capito: la sua preghiera si stava avverando.

Mario disse, rivolto a Rita:”Mi avevi chiesto le medicine per la nonna e io, in qualità di medico, ti ho accontentata!”

Rita sorrise, arrossendo. 

Da quel giorno, la famiglia di Rita si abituò alla costante presenza di Mario in quella casa.

Un merlo, col suo fischio flautato, si posò sul davanzale per esprimere il suo consenso.

Poi volò via, perdendosi nella nebbia.

 

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