MAEL, LA GUERRA E STICK di Maria Paola Battista

Mi chiamo Mael e sono nato dove c’è la guerra.

Quel giorno mamma mi disse: “Quando sentirai il mio grido, scappa dove sai. Ci sono tre sassi, un pezzo di pane e dell’acqua nel secchio. Ogni volta che non riuscirai a vedere nulla sposta un sasso e quando li avrai spostati tutti e sarà giorno potrai uscire”.

Ebbi giusto il tempo di capire e memorizzare che gli spari si fecero più vicini. Un rumore forte come una grossa auto che avanzava diventava sempre più intenso. Fu allora che mamma gridò: “Vai”.

Corsi dietro la nostra casa dove c’era una buca coperta dall’erba, vi entrai facilmente come quando giocavo a nascondino con i miei fratelli.

Quando ne uscii, tre giorni dopo, entrai in casa. Tutto era sottosopra e vidi mia madre a terra. Il suo corpo era bello come sempre, il volto sereno, gli occhi chiusi. Era fredda e anche io avevo freddo, molto freddo. Sebbene quella fosse casa mia non cercai nulla, mi accovacciai vicino alla mia mamma. Non c’erano più spari né urla ma solo un mortale silenzio.

Un mattino sentii delle voci e poco dopo due persone, un ragazzo e una donna che indossavano un giubbotto bianco e rosso ed un caschetto, entrarono in casa.

Non mi mossi. Dove sarei potuto andare?

La donna disse: “Guarda, c’è un bambino, presto”.

Così si avvicinarono a me, iniziarono a riscaldarmi, dai miei occhi scendevano lacrime.

La donna mi parlava con dolcezza, quasi come faceva la mia mamma. Si chiamava Rosa ed era italiana. Prestava servizio per la Croce Rossa e avevano allestito nella zona un campo, con un piccolo ospedale e una mensa.

Lì tutti lavoravano velocemente per curare e salvare vite mentre i guerriglieri, in un attimo, saccheggiavano e uccidevano.

Ben presto fui fuori pericolo perché, rifugiandomi nel nascondiglio, gli assassini di mia madre non avevano potuto farmi del male.

Nel campo stavo bene, c’erano molti altri bambini e, se non fosse stato per i fragori delle bombe, sembrava che la guerra fosse lontana. Era bello condividere le gioie e i dolori, se c’era cibo si mangiava, poco ma tutti; se si era ammalati ognuno si dava da fare per alleviare le sofferenze; se si era tristi c’era sempre qualcuno pronto a dare sollievo.

La vita era semplice ma era uguale per tutti nel nome della libertà e del rispetto.

Spesso, in serata, io me ne stavo con Rosa a parlare o a guardare le stelle. A volte capitava che per intere giornate non la vedessi. Quando era in missione a salvare vite o anche quando si dava da fare ad operare non aveva tempo, ma qualche volta mi chiamava e io l’accompagnavo in infermeria a visitare gli ammalati meno gravi.

Mi piaceva ascoltare le sue domande e le sue spiegazioni, mi piaceva il suo modo di parlare.

Nel campo c’era anche un’unità cinofila: quattro cani con i loro soldati. Ci proteggevano e uscivano in avanscoperta  per salvare i loro compagni uomini.

Poi, quando i soccorritori tornavano, finalmente sani e salvi, le loro escursioni si trasformavano in racconti avventurosi per incoraggiare noi bambini.

Nel campo i cani erano liberi perché erano così buoni e fedeli che sarebbe stata una grande crudeltà tenerli nei recinti o legati.

Non si allontanavano mai dai loro compagni ma se sentivano gridare o piangere noi bambini, arrivavano subito a controllare.

Penso che avrebbero volentieri giocato anche con la nostra palla di pezza o a rincorrerci ma non potevano.

Anche loro erano in guerra.

Uno di loro si chiamava Stick, era un pastore tedesco e eravamo diventati molto amici, al punto che spesso lui dormiva davanti la mia tenda, quando riposava e non faceva la ronda! Gli parlavo qualche volta e lo accarezzavo e, quando non c’era, speravo con tutto me stesso che tornasse presto sano e salvo. Non avrei potuto stare senza di lui.

Stick mi ha insegnato molte cose, come il rispetto per le regole e per la vita, mi ha insegnato che dalla cattiveria bisogna difendersi con la virtù e l’amore. Come fanno quasi sempre gli animali.

Una volta un uomo armato di coltellaccio riuscì a entrare nel villaggio e a prendere in ostaggio l’infermiere Stefano.

Presto fu allarme: chiedeva soldi, che nessuno aveva. Stick, strisciando al buio gli arrivò alle spalle, lo fece cadere e presto gli fu alla gola. Quando i soldati gli furono vicini mancava poco che Stick lo finisse ma, al richiamo, il cane lasciò la presa.

“Volevo solo soldi”, disse il ladro.

Il coraggio di Stick, la sua forza e la sua obbedienza mi investirono come una furia, feci un passo avanti e dissi a quell’uomo: “Come hai potuto aggredire chi si adopera per salvare vite umane? Non pensi di essere un vigliacco e un traditore della vita? Il nostro cane non ha voluto ucciderti, tu forse l’avresti fatto se non ti avesse fermato.”

Rosa venne a prendermi, mi diede la mano e mi portò via.

Qualche volta le chiedevo se avessi potuto avere Stick con me. Ma lei rispondeva che bisognava avere pazienza, forse, chissà, un giorno, terminata la guerra.

Altre volte le chiedevo cosa ne sarebbe stato di noi quando la guerra sarebbe terminata e lei mi rispondeva con molta dolcezza: “Purtroppo non lo so, mio piccolo amico, non lo so. Mi piacerebbe poterti fare grandi promesse ma non è il momento, non ancora.”

I giorni trascorrevano, pensavo a mio padre in guerra e ai miei fratelli.

Spesso mi rifugiavo sull’unico albero del villaggio e da lì potevo guardare fuori di esso. Quante volte ho aspettato Rosa da lassù.

Anche nel giardino di casa mia avevo un albero e quello era il mio rifugio. Chiedevo a mamma: “Perché, se dovessi avere necessità, non posso rifugiarmi sul mio albero?”

E lei mi rispondeva: “Perché lì ti vedrebbero, di notte farebbe freddo e non potresti né bere né mangiare.”

Quando Rosa mi vedeva sull’albero, mi chiamava e mi diceva: “Pensieri tristi? Vieni,  ti racconto una storia.”

Così mi raccontava di qualche volta che aveva salvato un ferito o anche qualcosa di Roma, la città in cui era nata e aveva studiato medicina. I pensieri tristi passavano e prendeva posto la speranza di poter vivere un giorno anche io in un luogo normale, dove non suonassero sirene, non si vedesse gente armata e in fuga e non ci fossero morti dovunque.

Un giorno arrivò a Rosa una comunicazione in cui le si chiedeva di tornare in Italia. Chiamò tutti e ci disse che di lì a un mese sarebbe dovuta partire ma promise che sarebbe tornata presto, perché il villaggio era la sua vita.

Mi arrampicai sull’albero, Stick mi aveva seguito e seduto, in attenzione, mi guardava ma non abbaiava.

Rispettava il mio dolore, il mio silenzio, il mio pianto sommesso…

Un mese sarebbe passato in fretta ma non riuscivo a pensare a nulla di positivo, la tristezza stava di nuovo impossessandosi di me, il fantasma della solitudine mi ossessionava nuovamente.

Nonostante tutto il suo impegno, Rosa si era accorta della mia sofferenza e una settimana prima della sua partenza mi chiamò in disparte e mi disse: “Sono riuscita ad avere il permesso di portarti con me a Roma, ti farebbe piacere venire? Lì è tutto molto diverso e forse quando torneremo qui ti sembrerà di aver vissuto un sogno e soffrirai ancora di più, ma sei forte e sono certa che tutto andrà per il meglio. Anche a Roma dovrai stare un po’ da solo quando io lavorerò e poche volte potrai venire in ospedale con me dove c’è una biblioteca per bambini e una piccola aula scolastica. Potresti approfittare per migliorare il tuo italiano. Che ne dici?”

Non ricordo bene quel momento perché fu tanta la mia emozione che il cervello forse smise di funzionare per dare posto al cuore. Non riuscii a fare altro che saltare e abbracciare Rosa che mi stringeva forte.

Il giorno della partenza ero felice, salutai tutti ma c’era qualcuno che discretamente, come sempre, mi osservava e dal quale non avrei mai voluto staccarmi.

Era Stick, che questa volta non avrebbe potuto farmi da angelo custode. A lui non era permesso di realizzare sogni: era solo un cane. Un meraviglioso, coraggioso e splendido cane. Più volte avevo chiesto a Rosa di portarlo con noi ma non era stato possibile.

Andai da lui, lo accarezzai e lo strinsi forte a me: era una cane addestrato a difendere, avrebbe potuto diventare una macchina da guerra eppure nel mio abbraccio era un dolce cucciolone. Gli promisi che sarei tornato a prenderlo e lui mi leccò.

Il viaggio fu lungo e fino a un certo punto anche pericoloso. Una volta, poi, nell’aereo, fummo al sicuro.

Arrivammo a Roma di sera e nel tragitto verso casa potei vedere le luci di una grande città, le automobili che sfrecciavano veloci e la gente che passeggiava. Mi sembrava un sogno, uno spettacolo che non avrei neanche potuto immaginare.

Il giorno dopo andai in ospedale con Rosa e attesi dove lei mi aveva detto. Pativo il fuso orario e avevo nostalgia di Stick; chissà mentre io ero al riparo, lui come e dove stava. E se gli avessero sparato? E se fosse rimasto ferito?

Dalla base arrivavano notizie per Rosa e io chiedevo sempre di Stick. Mi facevano sapere che stava bene. A Roma vidi dei posti bellissimi e conobbi tante persone.

Quando tornammo al campo erano trascorsi sei mesi, lo scenario era lo stesso e anche il campo, qualche bambino con la sua mamma non c’era più perché era guarito, qualcun altro aveva ripreso la guerra ma Stick era lì e il giorno in cui arrivammo ebbi la sensazione che lui mi stesse aspettando perché sedeva davanti alla mia tenda come sempre. Il suo soldato mi confermò che quando erano al campo Stick era stato sempre lì ad aspettarmi.

Per altre urgenze fu stabilito che il campo dovesse trasferirsi in un’altra località così Rosa doveva tornare nuovamente a Roma.

Le pratiche per la mia adozione erano tutte state avviate ma non avevamo ancora avuto risposta. Nel frattempo Stick era stato ferito e aveva un problema all’orecchio, così anche per lui si preparava il ritorno in patria e, probabilmente, non avrebbe potuto più svolgere il suo lavoro.

Rosa mi promise che piuttosto che mandarlo in un canile avremmo portato con noi Stick a patto che io me ne fossi occupato. Avevo tredici anni, Stick era bravissimo e non avrei avuto nessuna difficoltà. Poi eravamo amici per la pelle e ci saremmo divertiti molto. Immaginavo, dal mio albero, quelli di Villa Borghese e mi sorprendevo a sorridere.

Da allora sono trascorsi molti anni, Stick e io abbiamo vissuto insieme una lunga vita. Ora sono medico anche io come Rosa, ho un cognome italiano e vado in giro per il mondo a salvare persone e bambini.

I miei colleghi mi dicono che ho un caratteraccio quando sbatto le porte di fronte alla burocrazia e ai bilanci o anche quando inveisco contro le ingiustizie e i soprusi. Se non sono su un campo, non guardo quasi mai i telegiornali perché so cosa significa la guerra. Ogni tanto penso ai miei due alberi e a come mi salvai la vita.

Vorrei, allora, fare anche io i miracoli per salvare chi soffre ma sono solo Mael, nato dove c’è la guerra.

 Maria Paola Battista

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