MOZART E METASTASIO AL COSPETTO DI TITO

LA CLEMENZA DI TITO

La trasformazione sociale del Settecento tra Metastasio e Mozart

La Clemenza di Tito fu composta da Mozart nel 1791 su libretto di Caterino Mazzolà perché fosse eseguita nel teatro di Praga per i festeggiamenti legati all’incoronazione di Leopoldo II d’Asburgo a Re di Boemia succeduto al fratello Giuseppe II alla guida dell’impero asburgico. Cosa che avvenne il 6 settembre.

Il soggetto era stato scelto dagli Stati Boemi ed era il libretto della Clemenza di Tito di Pietro Metastasio, che aveva riscosso molto successo fino al 1780, dopo la prima rappresentazione avvenuta a Vienna nel 1734 su musiche di Antonio Caldara. A convocare Mozart fu l’impresario teatrale Domenico Guardasoni. Molti furono i compositori che avevano messo mano al libretto del poeta Cesareo, ma Mozart operò modifiche più profonde al libretto per ridurlo ad “opera vera” come annotò il compositore nel catalogo autografo delle sue opere. Di certo Mozart non avrebbe scelto di dedicarsi alla Clemenza per diversi motivi plausibili. Per prima cosa l’ultima opera seria cui si era dedicato era stata l’Idomeneo su libretto di Giovan Battista Varesco nel 1781 e poi si era dedicato alla trilogia di commedie per musica Nozze di Figaro (1787), Don Giovanni (1788)e Così fan tutte (1790). Poi, anche prima di comporre queste opere era alla ricerca di un libretto interessante ma non era capace di trovarlo perché riteneva che fossero troppe le modifiche da fare a quelli che gli avevano sottoposto e che non ne sarebbe valsa la pena: piuttosto era meglio farne uno nuovo secondo le sue indicazioni. Fu l’incontro con Lorenzo Da Ponte, che costruì il soggetto a partire da un lavoro di Beaumarchais (Le mariage de Figaro) a fargli intraprendere l’avventura delle Nozze senza avere neanche un contratto. Dopo il grande successo di questa commedia furono stipulati i contratti per le altre due.  Ciò conferma che il nostro non avrebbe scelto un libretto inadatto da modificare così tanto. E comunque si era dedicato a sperimentare un altro genere di opera con il Flauto Magico nello stesso periodo, un’opera di ambientazione fantastica e tutta tedesca (un Singspiel), che venne eseguito per la prima volta proprio il 30 settembre 1791.

In effetti l’opera di riduzione fatta da Caterino Mazzolà, poeta provvisorio di corte a Vienna in sostituzione di Da Ponte che era andato via, dovette procedere con diversi tagli sotto la supervisione di Mozart.

Il libretto fu ridotto a due atti, tagliando una parte importante ed eliminando situazioni che Mozart probabilmente non riteneva adatte all’opera seria, come la sostituzione di persona e l’equivoco che portò all’arresto di Annio. Salta però nella versione mozartiana anche la spiegazione data a Tito da Servilia nella versione di Metastasio riguardo alla sostituzione dell’imperatore con Lentulo; è strano che a un elemento così importante per il fallimento della congiura, non sia data una grande spiegazione, per cui alcuni elementi della trama non trovano soluzione.

La riduzione ad opera seria per Mozart non riguardava però il libretto sui quali fece operare dei tagli per rientrare nel gusto dell’opera seria di fine Settecento, ma  l’uso della musica, dei numeri di insieme e dei cori. In Metastasio le arie sono 25 e i recitativi occupano più spazio. In Mozart le arie sono 11 di cui solo sette di Metastasio e quattro di Mazzolà. Vengono eliminate tutte le arie di paragone, che stavano tanto a cuore a Metastasio. Viene aggiunto un coro ai primi due. Vengono aggiunti 3 duetti, 3 terzetti, 2 finali di accumulazione. Mentre Metastasio si preoccupava che le ragioni del dramma non fossero sottomesse alla musica, entrando in una questione che occupava dal ‘500 gli intellettuali sul primato della musica o della parola, Mozart elabora una musica capace di raccontare il dramma come le parole e trasforma in terzetto (N.18) quello che era un recitativo in Metastasio, per narrare l’imbarazzo di Sesto e di Tito che si incontrano dopo l’attentato. Sullo stesso finale del primo atto si è scritto tanto: qui, abbattendo i recitativi, vengono condensate le scene finali del primo atto di Metastasio e una parte del secondo per ricostruire un piccolo dramma nel dramma in cui, mentre i personaggi si allarmano sulla scena, su un secondo binario viene compiuto l’attentato, in cui il fragore dell’incendio viene raccontato contemporaneamente con l’intervento del coro a distanza. Il coro viene spostato in lontananza nella scena finale, quella in tempo da marcia funebre in cui il popolo-coro e i protagonisti si uniscono in un piccolo requiem. Anche la dimensione spaziale fa così di questo un numero teatrale completo, con entrate e uscite dei personaggi che alla fine si accumulano tutti (tranne Tito) sul palcoscenico. E la chiusura non svela che Tito è ancora vivo, creando in questo modo l’aspettativa anche in chi conosce in libretto. In Metastasio il primo atto si conclude, invece, prima del recitativo di Sesto. Nel secondo atto della versione integrale si svolge l’azione drammatica, la rivelazione del fallimento della congiura e la seconda pista dell’accusa di Annio fino alla conclusione con l’arresto di Sesto a causa della confessione di Lentulo. Un’altra trasformazione riguarda proprio il finale del secondo atto, la fine dell’opera. Qui Metastasio aveva previsto una, seppur forzata, riconciliazione imposta da Tito a Sesto e Vitellia, ma in Mozart questo non accade e Tito non fa menzione alla coppia, affermando con una frase ad effetto quello che è il succo di tutta l’opera: “Sia noto a Roma ch’io son lo stesso e ch’io tutto so, tutti assolvo e tutto obblio” e che precede di fatto il sestetto finale.

Perché il vero e unico protagonista dell’opera è Tito, il granitico, buono per vocazione, colpito dalle tentazioni e vincitore delle passioni umane per il bene della Patria e del suo popolo: il sovrano ideale. Del resto, l’opera da questo punto di vista è rimasta celebrativa, con un linguaggio più nuovo certo, più inclusivo, ma senza mai perdere di vista l’obiettivo che è quello di gratificare il sovrano appena insediatosi.

Tito non cambia dall’inizio alla fine dell’opera e il finale è, in effetti, annunciato in modo palese nel titolo. Anche su di lui, però, qualcosa si può dire perché sembra strano che oltre a non sapere della relazione tra Annio e Servilia, sia all’oscuro anche di quella tra Sesto e Vitellia. In tal caso non sarebbe stato un bel gesto verso l’amico sottrarle la compagna e, per averlo fatto, avrebbe potuto attribuire a questo il motivo dell’attentato. Ma lui che tutto sa è all’oscuro di ciò che gli accade sotto gli occhi (se non glielo spiega Servilia). Comunque alla fine la tragedia sta proprio nella solitudine del re, che vive solo in funzione del popolo e di Roma sopportando il tomento e la servitù che questo comporta.

Anche le altre figure svolgono le stesse funzioni previste da Metastasio a conferma che la trasformazione di Mozart voleva riguardare solo il modo di raccontare il dramma, non tanto il soggetto.

Vitellia è incentrata su se stessa e il suo orgoglio, rafforzata dalla malleabilità di Sesto e sicura della sua avvenenza. Secondo me, c’è la possibilità che questa manipolatrice a suo modo sia pentita, vuoi perché ha aperto gli occhi, vuoi perché ha paura. In ogni modo, il pentimento in Mozart appare più formale (nella prima rappresentazione era il soprano Maria Marchetti Fantozzi).

Sesto è amico fino a un certo punto di Tito perché è ottenebrato dal desiderio di Vitellia, non vedendo la contraddizione nelle richieste di lei di sopprimere un mancato marito e accettando le di lei argomentazioni (Aria N.2) usate per allontanare i sospetti, soggiacendo ai continui cambi di umore e alle richieste contrastanti in cambio di uno sguardo appena. Ma poi decide di sopprimere il possibile rivale che finalmente ha riconosciuto in Tito ed è per questo che agisce, sebbene titubando, e infine costretto dal precipitare degli eventi (nella prima rappresentazione era il soprano castrato Domenico Bedini).

Il perno della tragedia che si compie però è proprio, suo malgrado, Servilia, (cui tocca da solista solo l’aria N. 21) con il suo atteggiamento nei confronti di Vitellia. Per dispetto Servilia, infatti, non le rivela che ha rifiutato le nozze e mente, unica volta nel dramma, scatenando l’impossibile. La tragedia sarebbe finita lì e tutti sarebbero vissuti felici e contenti. Ma Servilia è anche quella informata più di tutti dei fatti, è al corrente di tutto e, soprattutto nella versione integrale, ciò è evidente: è il personaggio che spiega cosa sta succedendo. La sua lealtà, oltre che nell’opzione offerta a Tito di farla ugualmente sua sposa per il bene della Patria e dell’Imperatore che la rappresenta, si rivela ancora più visibile nella versione metastasiana,  nella rapidità in cui nega il suo amore ad Annio quando viene accusato (ingiustamente) di  aver compiuto l’attentato. Non nega il suo appoggio al fratello, però, chiedendo la grazia (nella prima rappresentazione era il soprano Antonina Campi).

Annio è fedele a Tito ma forse di più al cognato-amico Sesto e, pur non avendo capito il motivo dell’attentato, non esita ad aiutarlo (nella prima rappresentazione era il soprano Carolina Perini).

Publio è il prefetto del Pretorio che usa rivolgersi a tutti con schiettezza, anche all’imperatore rispondendogli forse in modo un tantino inappropriato, nel secondo atto: “Ma Signor! Non han tutti il cor di Tito”. E poi ancora “Nol diss’io?” Non lo so: sorprende l’audacia!

NEL QUADRO GENERALE

Questa opera non ha importanza in sé ma rappresenta una tappa della trasformazione che il teatro del Settecento sta attraversando, in risposta alle mutate condizioni socio-politiche in cui le opere si sviluppano. Sebbene si dica che Mozart non sia interessato a fare politica e a portare avanti una ideologia attraverso il suo teatro, sarebbe impossibile non vedere nelle trasformazioni che fece al libretto di Metastasio, concepito e messo in opera secondo il gusto e la visione della società propria dell’ancient regime, una operazione di adeguamento ai tempi. L’abbondanza di cori e l’opera di smontaggio della solida architettura sociale costruita  dalla sequenza gerarchica delle arie metastasiane, sono i segnali di una società che cambia, di un monarca che cambia in rapporto al popolo. Già con le Nozze Mozart ha condotto una operazione che già era stata sgradita al re di Francia nella versione di Beaumarchais, e poi aveva messo in difficoltà anche Giuseppe II. In quella commedia l’aristocrazia ci fa una figura magra e la servitù ne esce a testa alta. A Mozart ciò costò il riserbo dell’aristocrazia viennese ed è storia che questa si rivolse ad altri per sottoscrivere gli abbonamenti ai concerti che al salisburghese davano da campare nella grande capitale. Ma il teatro era la sua passione o, probabilmente, con il teatro poteva raccontare la società a modo suo. È perciò che la visione di un musicista che rompe con gli schemi per inaugurare la libera professione non mi convince molto. Mozart non riusciva a soggiacere al volere del potente perché era convinto, sin da piccolo, di meritare molto più rispetto, denaro e attenzione e di potersi permettere in piena libertà di sbeffeggiare l’aristocrazia. Un rivoluzionario? Non credo. Un istrione sì!

Eleonora Davide

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