Un libro per l’estate. ‘Le luci nelle case degli altri’: il romanzo di Chiara Gamberale oltre le finestre, dentro i desideri
Forse vi sarà capitato, come a me, di osservare le luci nelle case degli altri. Camminare di sera per strada guardando le finestre illuminate e chiedersi chi animi le stanze dietro quei vetri chiusi, quelle tendine accostate. Per molti è solo curiosità, ma chi non ha una famiglia propria può sviluppare un desiderio di entrare, di penetrare nella casa e nella quotidianità delle famiglie sconosciute, che gli appaiono così serene e normali. Ma le luci nelle case degli altri, spesso, nascondono ombre.
Ci si innamora subito sia del titolo che della copertina di questo libro di Chiara Gamberale (Mondadori, 2010). Il senso di solitudine, di esclusione, e, allo stesso tempo, di condivisione, che trasmettono, non lasciano indifferenti. Poi si apre il libro e si scopre una storia raccontata forse con un eccesso di linearità e semplicità, ma originale e ben costruita, che si segue con interesse fino alla fine, e che lancia un messaggio ben preciso: ci mette in guardia dalla cultura del sottacere, del non indagare, del mantenere il segreto, che attualmente è così in voga. Nella vita di Mandorla, la protagonista, così come in quella di chi la circonda, le tragedie scoppiano proprio per abuso di segretezza, per una malintesa riservatezza.
Il condominio di via Grotta Perfetta 315 è un contenitore per cinque tipi diversi di famiglie: quella unipersonale di Tina Polidoro, zitella; quella gay di Michelangelo e Paolo; quella basata sulla convivenza di Lorenzo e Lidia; quella giovane e con figlio unico di Samuele e Caterina, con il piccolo Lars; e infine quella tradizionalissima dell’Ingegner Barilla, con la moglie Carmela e i due figli Giulia e Matteo. Quando l’amministratrice di condominio, la giovane e carismatica Maria, muore improvvisamente lasciando sola la figlia Mandorla, appare una lettera nella quale si afferma che il padre di Mandorla è proprio uno degli uomini domiciliati in quel condominio. Le compagne (o i compagni, nel caso di Paolo: Michelangelo era il miglior amico di Maria), ognuna terrorizzata dall’idea di scoprire che proprio il suo uomo è il colpevole, preferiscono, alla certezza del test del DNA, una situazione di comodo che protegga le loro famiglie: Tina adotterà Mandorla, e la bambina passerà una parte della sua infanzia e adolescenza con ciascuno dei nuclei familiari.
Sembra tutto perfetto: l’amore di molte famiglie invece di una sola. E allora perché Mandorla si sente sempre estranea, diversa dai suoi coetanei? Perché è ossessionata dalla paura di Porcomondo, il drogato del quartiere, che nessuno riesce a fugare? Perché l’adolescente Mandorla si ritrova in prigione, assistita dall’Avvocato che è il nuovo compagno di Caterina? Forse perché avere molte famiglie equivale a non averne neppure una, ma ora che l’Avvocato insiste affinché Mandorla abbia quello che le spetta di diritto, cioè il test del DNA, la stessa Mandorla non è sicura di volerlo, invischiata lei stessa nella cultura del non sapere. E forse è stata la stessa Maria a confondere deliberatamente le acque, per nascondere una verità che sarebbe risultata troppo scomoda.
Lo stile è colloquiale, semplice, ripartito fra il racconto e le riflessioni di Mandorla (in prima persona) e le scene di vita degli altri (in terza), diviso in capitoli generalmente brevi, inframezzato dalle preghiere create da Mandorla, nelle quali chiede sempre di sostituirsi a qualche cosa di concreto o astratto. Disagio giovanile, egoismo adulto, ma anche tanto amore, spesso inespresso.
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