Te Deum: “… non saremo confusi in eterno”

Per tutto ciò che vivo mi viene ancora da ringraziare

“…voglio vivere ogni giorno con ottimismo e bontà, chiudi le mie orecchie a ogni falsità, le mie labbra alle parole bugiarde ed egoiste o in grado di ferire, apri invece il mio essere a tutto quello che è buono, così che il mio spirito si riempia solo di benedizioni e lo sparga ad ogni mio passo”. (Arley Tuberqui contadino sudamericano).

Nel Te Deum è contenuta una saggezza non più riconosciuta, ormai fuori moda; quella saggezza che ci fa dire che, nonostante tutto, c’è del bene nel mondo, e questo bene è destinato a vincere grazie a Dio. Ringraziare, dire semplicemente “grazie” non ha, oggi, alcun senso. Piegarsi, abbassarsi, chiedere scusa è roba da deboli, da gente con poco spessore.  Non lo si fa con gli amici, a stento lo si fa con i genitori, figuriamoci con Dio. Certo, a volte è difficile cogliere questa profonda beltà poiché il male fa più rumore del bene. Nella permanenza in uno stato di precarietà dove gravi ingiustizie fanno tremendamente notizia, i gesti di amore e di servizio, la fatica quotidiana sopportata con fedeltà e pazienza, rimangono spesso in ombra. È come se non emergesse mai un positivo. Soprattutto in questi ultimi anni si sono moltiplicati gesti e opere di generosità, aperture e nuove considerazioni dell’altro in difficoltà, dell’altro in crisi, … dell’altro.

Recitare il Te Deum a fine anno è la forma più alta di consapevolezza di ciò che è accaduto in un anno. Si ha la percezione sottile ma allo stesso tempo potente di ciò che è trascorso, di ciò che è successo; non tanto per ciò che si è fatto. Una percezione che il tempo, la vita, inesorabilmente passano e ti accorgi che, oltre le tue ansie e preoccupazioni nelle cose fatte, c’è qualcosa o qualcuno che guida e custodisce le trame del tuo essere. Una percezione sottile e potente che per quanto ti possa sforzare a condurre le cose a tuo piacimento, tutto si svolge secondo un disegno che tu non sai. Una forma di impotenza docile che rende sereni. Ti puoi ingarbugliare quanto vuoi ma ti ritrovi quasi inerme a progettare dettagli che vanno per lidi non tuoi. Gli ultimi versi del “Te Deum” recitano così:

Degnati oggi, Signore,

di custodirci senza peccato.

Sia sempre con noi la tua misericordia:

in te abbiamo sperato.

Pietà di noi, Signore,

pietà di noi.

Tu sei la nostra speranza,

non saremo confusi in eterno.

Se cominciamo a percepire che c’è una speranza, cioè se crediamo in un positivo, in una certezza fatta di carne e ossa, una compagnia di persone che ti sostiene, che ama il tuo destino a cui, nonostante la tua e la sua debolezza dare credito, sempre, allora si potrà essere meno confusi in eterno.

Ma come si fa a ringraziare quando tutto sembra tramare contro di noi, contro una ricerca continua di un bene che non si riconosce? Come si fa a rimanere desti di fronte ad una realtà che non suggerisce, almeno in apparenza, qualcosa di positivo? I rapporti preclusi, una guerra che non lascia spazi a tregue o a dialoghi di pace, il rischio addirittura che, ora che sembrava tutto riprendersi, si strapiombi in un baratro di sfiducia nei rapporti umani. Solo la percezione di un Bene più grande permette di essere lieti altrimenti si corre il rischio di volersi ribellare ad un evolversi delle cose in cui credi di esserne l’autore e il pilota. Di fatto, oltre ogni perplessità riduzionistica, solo la gratitudine per ciò che è dato come punto sorgente di una gratuità verso l’altro, trasforma uno sguardo da figlio lieto.

In una lettera di qualche tempo fa don Luigi Giussani scriveva: «In questi giorni tutto sta rinascendo ma se un uomo non avesse mai visto la primavera e fosse nato e vissuto e conoscesse soltanto l’aridità dell’inverno, potrebbe immaginare come, dal di dentro, da questo “di dentro” strano e misterioso tutte le cose possono cambiare? Non riuscirebbe a immaginarlo».

Senza la speranza di un “per sempre”, tutto nella vita appare più breve e, ultimamente, più insopportabile e tragico. Ma c’è qualcosa o qualcuno che ci permette di resistere? Qualcosa che sostiene il nostro vivere? Come dice il Papa nella sua Enciclica Fratelli tutti: “… Nessuno può affrontare la vita in modo isolato. C’è bisogno di una comunità che ci sostenga, che ci aiuti e nella quale ci aiutiamo a vicenda a guardare avanti”.

Nella speranza che il bene della nostra vita emerga, nella certezza che arrivi una nuova primavera, nella consapevolezza, in fondo, di uno sguardo e di un’attenzione primordiale ricevuta, per tutto questo mi viene ancora da ringraziare.

©Riproduzione riservata

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About Innocenzo Calzone

Giornalista pubblicista, architetto e insegnante di Arte e Immagine nella scuola Secondaria di I grado, è caporedattore di un giornale d'Istituto con ragazzi della scuola Primaria e Secondaria. Appassionato di calcio, arte e musica, vive a Napoli. Ha pubblicato diversi articoli in riviste di architettura e in ambito educativo-scolastico.