Il Sentiero dei figli orfani, di Giovanni Capurso
Recensione e intervista all’autore
Il Sentiero dei figli orfani di Giovanni Capurso, pp.197, ed. alterego, 14,00 €
Il Sentiero dei figli orfani scritto da Giovanni Capurso è un libro in cui, sin dall’inizio, si avverte la capacità del suo scrittore di condurre il lettore nel percorso di vita del protagonista senza far scorrere necessariamente il tempo.
Tutto è basato sul luogo, in particolare il luogo in cui il protagonista nasce e vive da ragazzo.
“Il sentiero” è il filo conduttore del libro. Nelle vicende narrate il lettore diventa sapiente e, come se leggesse un libro di geografia, entra nella morfologia del territorio lucano. Un luogo quasi dimenticato, dove la mano dell’uomo non ha saputo ben lavorare per sfruttarne tutte le ricchezze.
In un’estate, un giovane adolescente prova nuovi sentimenti ed emozioni, vive appieno avventure e delusioni, interrogando sé stesso sul presente e sul futuro. È una confessione intima, non confidata e molto introspettiva. I suoi pensieri sono spesso turbati e si ritroverà ad essere coinvolto anche in una storia inquietante.
Di seguito l’intervista all’autore
Sebbene si provi nostalgia quando si è lasciato perdutamente qualcosa, nel suo racconto questo sentimento si avverte da subito. Prima che avvenga il distacco. A suo parere si prova nostalgia nel lasciare i luoghi di origine anche oggigiorno, quando la vita impone rapide scelte di cambiamento?
Beh, oggi viviamo in una società fortemente consumistica, appiattita sul presente. Molti uomini sono in fuga da se stessi, non sanno cosa vogliono dalla vita, perché sono attratti da una miriade di cose inutili o superficiali. Non si rendono conto neanche delle loro priorità.
Ma, alla fin fine, arrivati a un certo punto della nostra esistenza, ciò che fa la differenza sono le nostre radici, cioè i legami stabili che abbiamo saputo costruire. Ecco perché le nostre nostalgie vengono a cercarci, ci chiamano dal passato e vengono a trovarci come bisogni profondi.
Nel testo sono particolarmente significative le rappresentazioni del paesaggio. Molto vivide e precise. I ricordi, la memoria, tornano a volte improvvisamente e fanno visualizzare quello stesso paesaggio allo stesso modo di come è stato in passato mentre, invece, tutto è cambiato e l’antropizzazione ha preso il sopravvento. Quanto si sarebbe potuto fare per l’entroterra del Sud Italia?
Talvolta i ricordi, soprattutto quelli dell’infanzia, si fissano dentro di noi e non ci lasciano più. Talvolta ci cullano e ci consolano in momenti particolarmente difficili della nostra esistenza.
Forse sarò un po’ romantico ma, secondo me, non necessariamente questi posti andrebbero stravolti in nome della modernità. Si può anche trovare un giusto equilibrio tra le esigenze del progresso, come la costruzione di infrastrutture adeguate, e la conservazione del patrimonio culturale e storico. Anzi, proprio tale conservazione, in moti luoghi, è stato un valore aggiunto per la prosperità o il rilancio di quel territorio.
Lei è anche giornalista per cui le chiedo se le descrizioni così accurate dipendono da una sua qualità analitica o dal voler rendere il lettore un partecipante attivo del luogo e del tempo del racconto? O entrambi?
Ci sono cose che vengono naturali e altre meno. Forse avere un occhio analitico è una mia propensione. Tuttavia credo che una storia è viva se aderisce alla realtà di un luogo: agli aspetti paesaggistici, culturali, linguistici e religiosi. Solo in questo modo il lettore può identificarsi e affezionarsi con quanto viene narrato. Per questa storia, per esempio, ho dovuto impegnarmi in un non indifferente studio filologico, considerando che parliamo di un paesino, San Fele, che oggi conta tremila abitanti.
Il suo libro esprime sentimenti e legami. Senza svelarne niente, potremmo dire che sebbene essi sembrino perduti, ad un certo punto, nelle ultime pagine, ci sono fatti e immagini tangibili (la madre e il fratello, i bambini che corrono) che riportano il protagonista al tempo bello della sua vita. Le persone cambiano fino in fondo?
Credo che, in fondo, lo scopo della vita sia quello di cercare se stessi. “Diventa ciò che sei” diceva Friedrich Nietzsche. Io distinguo il “cambiamento” dalla “trasformazione”. Il cambiamento sta ad indicare semplicemente il passaggio da uno stato all’altro. Invece la trasformazione prevede un processo di crescita, di umanizzazione. Il fine della trasformazione è diventare sempre più noi stessi. Ora c’è una parte che è costitutiva della nostra esperienza, data da quell’insieme di valori che abbiamo ereditato. Partendo da essa si tratta di capire cosa cerchiamo, cosa vogliamo dalla vita. È una convinzione che cerco di trasferire nei miei personaggi, almeno i principali: sono tutti protesi, nei loro conflitti interiori, verso la ricerca della verità di se stessi.
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Maria Paola Battista
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