Magazzino n.18. Un esodo che non finisce mai

È difficile trattenere l’emozione quando si varca la soglia del Magazzino 18. Settant’anni di storia in un luogo dove tutto è fermo al prima, dove tutto odora di speranze disilluse, sono custoditi in quegli stanzoni. Grazie al cantautore romano Simone Cristicchi il Magazzino 18 è divenuto simbolo dell’esodo istriano fiumano e dalmata che iniziò nel 1943, il giorno dopo dell’armistizio, riprese impulso dopo il Trattato di Pace del 1947 e terminò nominalmente nel 1979, con l’ultimo appello pubblico delle autorità agli esuli per rivendicare le masserizie conservate nei depositi.

L’Istria, la Dalmazia e Fiume erano Italia perché abitate da italiani e, sebbene l’Italia fosse entrata in possesso di parte di quelle terre solo dopo la prima guerra mondiale –  tranne che per Fiume, a causa della vittoria mutilata di dannunziana memoria -, furono però escluse dal territorio italiano all’indomani del secondo conflitto mondiale, prima in modo provvisorio con gli Accordi di Belgrado nel 1945 poi definitivo con il Trattato di Osimo (1975).

Il modo in cui le popolazioni italiane che abitavano quei territori dovettero abbandonare case, averi, amici, le loro storie, le loro tradizioni per giungere in Italia ha del tragico e la Legge del 30 marzo 2004 n. 92 ha riconosciuto inequivocabilmente gli avvenimenti di cui sono state vittime “al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”, invitando istituzioni e associazioni culturali a promuovere iniziative perché la memoria di tali cose sia conservata e trasmessa. Quando si parla di esuli, bisogna comprendere il significato del termine, mentre può scegliere solo chi emigra per trovare condizioni di vita migliori, sottolinea il direttore dell’Irci Piero Delbello, accompagnandoci alla visita in questo luogo della memoria, gli esuli non hanno scelta perché vengono obbligati a lasciare la propria casa e una volta fuori dalla loro terra lo sono per sempre.

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Il Magazzino 18 è parte del vecchio porto mercantile di Trieste, attualmente ancora sotto l’autorità portuale che consente, attraverso l’Istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata (Irci), la visita di quello che è diventato di fatto un museo della memoria. In questi locali venivano stoccate le merci e tra queste arrivarono, all’indomani del primo sbarco di profughi provenienti dall’Istria, le prime masserizie di coloro che fuggivano da Pirano, Parenzo, Pola e da tutte quelle cittadine un tempo vanto della Repubblica di Venezia e poi di una Italia produttiva e laboriosa. (vedi articolo)

Il magazzino cui vennero indirizzate era un altro, e poi furono trasferite nel n.26 e lasciate lì per un’infinità di tempo insieme alle masserizie non rivendicate dagli esuli, portate qui da tutta Italia, dopo il quale la necessità di lavori di restauro portarono alla luce questa storia ormai dimenticata. Sì, perché non tutti i 300 000 esuli ebbero la possibilità di riprendere le proprie cose, non disponendo di una casa altrettanto capiente o addirittura per tanto tempo non disponendone affatto, visto il numero di anni in cui parecchi di loro furono ospitati nei centri di raccolta come quello di Padriciano nella parte alta della città di Trieste o in quelli che furono gestiti dalle prefetture in tutto il Paese. Altri emigrarono all’estero. Proprio grazie a quel restauro, però, le masserizie tornarono alla luce e vennero trasferite nel Magazzino n. 18.

La nostra visita, ha avvertito Delbello, è una delle ultime che si farà qui perché il materiale verrà nuovamente trasferito in un magazzino restaurato nella parte del porto che è stata aperta al pubblico negli ultimi anni per creare l’area Expo.

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Sentire i racconti dalla voce di chi ha vissuto quei momenti è però dura. Un drago a tre teste per Giovanna, nipote 23enne di profughi che le hanno nascosto queste vicende finché non le ha scoperte da sola vedendo lo spettacolo di Cristicchi e interrogando i nonni, per poi diventare una divulgatrice attiva dell’Irci. La prima testa del Drago è quella della paura, dell’intimidazione, della violenza e della morte: quella che costrinse alla fuga, la paura di quella bussata alla porta di notte per essere portati via, rischiando di finire in una foiba. La seconda testa è quella dell’esodo, della perdita della propria casa e della propria identità, pur di rimanere italiani. La terza, la peggiore, è quella dei campi profughi, che rappresenta la morte di una società, di un popolo, l’oblio, la solitudine e la dimenticanza; soli tra tanti profughi, gli italiani dell’Istria cadono in depressione, isolati dall’esterno come appestati, alcuni si suicidano o si lasciano morire di fame; altri muoiono per il freddo e per le malattie. Ci racconta di questo la signora Fiore, un’altra testimone, diretta questa volta.

Con la voce tremante e le lacrime agli occhi, 72 anni, da 62 vive questo tormento, ma lo racconta perché la gente conosca e faccia memoria. Lo fa con trasporto come se avesse ancora sotto gli occhi la morte della sorellina, di poco più di un anno, andata via per il freddo che avvolgeva quelle baracche. Fiore racconta la sua vita da profuga, la conclusione precoce degli studi, poi il collegio, gli abusi sui ragazzi e le ragazze da parte gestori della struttura, tra i quali religiosi e religiose; poi il lavoro alla Modiano e la scelta di non mettere al mondo dei bambini per la paura, che ancora sente viva, di non potere proteggerli da cose brutte come questa. Un vuoto enorme che Fiore riempie con la sua opera di testimonianza nelle scuole, raccontando la sua vita e rivivendo ogni volta lo strazio.

E poi mobili, tanti, uno sull’altro, intrecciati, che si susseguono in lunghi filari negli stanzoni stracolmi del Magazzino, e le bambole, le bottiglie, gli oggetti poveri di uso comune, le stoviglie, nessuna ricchezza, solo la vita di ogni giorno di gente semplice, in tempi in cui c’era solo l’essenziale in una casa. E le sedie, tante, accatastate in modo disordinato, un caos di sede che rappresentano il posto a tavola degli uomini e delle donne che hanno lasciato la loro vita dietro di sé, forse convinti che un giorno avrebbero rivisto la loro casa, forse neanche. Il silenzio delle speranze chiuse negli armadi allineati è forse ciò che fa più rumore tra quei filari; diventa assordante e pesante camminare nel Magazzino 18.

Anche nel paese in cui vivo sono stati accolti in quegli anni alcuni profughi istriani. Se ne hanno ancora tracce nella biblioteca comunale che conserva le loro lettere al comune. In una si fa richiesta di un ombrello per ripararsi dalla pioggia. Ma di loro nessuno sapeva nulla, le loro storie si confondevano con quelle di chi li aveva preceduti nell’ex orfanotrofio Loffredo – oggi sede del Comune di Monteforte Irpino – con quelle degli internati politici al tempo in cui lo stabile veniva utilizzato come campo di concentramento nel periodo fascista. E a Napoli esistevano delle baracche nel Reale Bosco di Capodimonte per tanti anni dopo l’esodo e ai ragazzini che ci andavano a giocare veniva spiegato che si trattava delle baracche degli jugoslavi. Italiani, questo erano e chi di loro si è sentito chiamare “traditore” una volta sbarcato dalla nave Toscana che faceva avanti e dietro da Pola, ci è rimasto parecchio male. Non avevano capito allora e forse molti non lo hanno capito neanche adesso cosa ci facevano là quegli italiani.

Quelli che si trovano nel Magazzino 18 sono solo oggetti, ma rappresentano le tante persone che hanno vissuto questo esodo.

La pubblicazione delle foto da parte di WWWITALIA è autorizzata dal direttore dell’Irci, Piero Delbello che ringraziamo per la disponibilità e per la visita.

©Riproduzione riservata WWWITALIA

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About Eleonora Davide

IL DIRETTORE RESPONSABILE Giornalista pubblicista, è geologa (è stata assistente universitaria presso la cattedra di Urbanistica alla Federico II di Napoli), abilitata all’insegnamento delle scienze (insegna in istituti statali) e ha molteplici interessi sia in campo culturale (organizza, promuove e presenta eventi e manifestazioni e scrive libri di storia locale), che artistico (è corista in un coro polifonico, suona la chitarra e si è laureata in Discipline storiche della musica presso il Conservatorio Domenico Cimarosa di Avellino). Crede nelle diverse possibilità che offrono i mezzi di comunicazione di massa e che un buon lavoro dia sempre buoni risultati, soprattutto quando si lavora in gruppo. “Trovo entusiasmante il fatto di poter lavorare con persone motivate e capaci, che ora hanno la possibilità di dare colore e sapore alle notizie e di mettere il loro cuore in un’impresa corale come la gestione di un giornale online. Se questa finestra sarà ben utilizzata, il mondo ci apparirà più vicino e scopriremo che, oltre che dalle scelte che faremo ogni giorno, il risultato dipenderà proprio dall’interazione con quel mondo”.