Capitalismo distorto. Il focus di Giuseppe Rocco

Un grido di allarme è venuto dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che all’assemblea della Confindustria nel settembre del 2023 ha invocato di porre dei margini al capitalismo pirata, che cerca concentrazioni e tende ad aumentare il profitto. Parliamo del modello classico che eleva a divinità l’efficientismo selvaggio.

Questa distorsione è arrivata nel tempo, strumentalizzando la globalizzazione sfrenata, che ha portato seco due sciagurati fenomeni: il feticismo del mercato finanziario e l’efficientismo selvaggio.

Prima di esporre questi due pericolosi elementi, torniamo indietro nel tempo e verifichiamo la situazione in modo storico. Un embrione di capitalismo sorge con la piccola impresa, in particolare artigianale, quando gli artigiani erano girovaghi, quasi come i mercanti. Gli artigiani servivano a riparare e pure a costruire, come i calzolai, i quali in tempi appena passati (nel secondo dopoguerra) fabbricavano le scarpe su richiesta degli utenti. L’attività artigianale era utile alla società e serviva la popolazione, a seconda delle esigenze.

Oggi il capitalismo è un sistema economico nel quale la produzione si fonda sull’impiego di somme di denaro, dette capitali. Questi vengono usati per finanziare delle attività economiche, di varia natura, che dovranno far guadagnare una cifra maggiore o uguale al denaro investito. Quello che si ottiene in più rispetto al capitale iniziale è detto plusvalore. Di norma, il capitale iniziale resta nell’azienda mentre il plusvalore, in proporzioni variabili, può essere reinvestito o intascato dagli azionisti.

Il termine capitalismo fu coniato nell’800 dalle prime correnti di pensiero socialista ed entrò in poco tempo nel linguaggio comune ed accademico. In particolare, si metteva in risalto come, con un sistema produttivo basato su grandi capitali in costante crescita, la maggior parte della popolazione finiva a dover lavorare con mezzi non propri, in una condizione di dipendenza. Soprattutto, chi non disponeva di un capitale iniziale era di fatto escluso da qualsiasi ruolo attivo nel sistema economico, portando ad una situazione analoga ai vecchi monopoli delle famiglie nobiliari.   

Nel modello iniziale, il capitalismo assurge alla perfezione dell’individuo. Infatti il cattolico va in Chiesa per chiedere grazie sulla salute o sul lavoro; i protestanti calvinisti che hanno rappresentato la prima fase del capitalismo, andavano in Chiesa per ringraziare Dio degli apporti al fine di garantire e migliorare le proprie imprese. Sotto questo aspetto l’avvio del capitalismo offre lavoro e benessere alla popolazione. Tali concetti vengono espressi da Max Weber, economista, sociologo, filosofo e storico tedesco, che nel suo libro “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, riconduce all’etica della popolazione protestante, in particolare calvinista, lo spirito del capitalismo. In prima battuta si potrebbe pensare che il protestantesimo e in particolare il calvinismo, sia stato l’origine del capitalismo moderno; in realtà Max Weber non intende sostenere che un fenomeno economico possa essere generato da uno spirito religioso.

Egli mette invece in relazione due fenomeni omogenei: la mentalità religiosa calvinista e la mentalità capitalista, affermando che la prima fu una pre-condizione culturale insita nella popolazione europea assai utile al formarsi della seconda. Weber infatti, come chiarisce lo stesso titolo dell’opera, si riferisce allo “spirito” capitalistico, a quella disposizione socio-culturale che, correggendo la spontanea sete di guadagno, induce il calvinista a reinvestire i frutti della propria attività per generare nuove iniziative economiche. Max Weber notava come i popoli calvinisti, come i Paesi bassi, l’Inghilterra e la Scozia, erano arrivati primi al capitalismo rispetto a quelli  cattolici come la Spagna, il Portogallo e l’Italia.

Formalmente assistiamo alla rivoluzione industriale nell’anno che avrebbe avuto inizio intorno al 1760, con l’invenzione della macchina rotativa a vapore e di nuove tecnologie tessili e metallurgiche; seguì un periodo di industrializzazione intensiva, e il processo poteva dirsi concluso verso il 1850.

La rivoluzione industriale si articola in tre fasi: la prima con un potere industriale e politico che si afferma con una sovranità di colonie; la seconda penetra nell’anima attraverso immagini, cinema e giornali; la terza arriva nel XX secolo ed è quella nucleare ed elettronica, considerata terza cultura o cultura di massa; si annuncia pure una quarta rivoluzione industriale con l’avvento del terzo millennio, in cui le tecnologie sono convertenti con l’unione di robotica, genomica e intelligenza artificiale.

La prima rivoluzione industriale inizia in Inghilterra nella metà del XVIII secolo e si diffonde negli altri Paesi europei e negli Stati Uniti d’America. La rivoluzione industriale viene considerata il mutamento più radicale avvenuto dall’era neolitica. Nella fase primitiva, le attività manifatturiere sono sparse in campagna, per sfruttare l’energia delle acque correnti necessarie ad azionare i macchinari. Si lavora all’interno delle fabbriche, sostituendo le vecchie fonti (animali, vento ed acqua) con nuove fonti combustibili (carbone) che permettono l’introduzione delle macchine a vapore. Si inizia con il tessile e il siderurgico. Sul piano individuale, spicca la figura di James Watt, tecnico scozzese di grande ingegno che aveva lavorato come assistente di fisica all’Università di Glasgow, il quale costruisce un modello di macchina rotativa, regolarmente brevettato, e lo applica a un filatoio, compiendo così il primo passo della svolta produttiva.

La prima rivoluzione industriale trasforma l’economia e la società, avviando la crescita delle città con l’urbanizzazione. I fattori determinanti per questo cambiamento epocale non si rintracciano soltanto nell’incremento dei traffici commerciali e dell’artigianato, ma anche nello sconvolgimento agricolo, che porta a una riorganizzazione dei terreni inglesi. Con l’introduzione dei campi chiusi e recintati, la nobiltà di campagna si arricchisce e accumula capitale da investire. Con la nascita delle fabbriche i contadini abbandonano le campagne e si trasferiscono in città. Inoltre i ritmi di produzione imposti dalle macchine determinano una nuova organizzazione del lavoro, basata sulla suddivisione del ciclo di lavorazione. La rivoluzione industriale viene favorita dalla politica del credito e dalle leggi sul lavoro approvate dal Parlamento inglese, che rispecchiano il liberalismo teorizzato da Adam Smith.

La seconda rivoluzione industriale rientra in un tempo limitato, dal 1856 al 1900, ossia tra il Congresso di Parigi e quello di Berlino. Si fonda sulla superiorità nel campo scientifico e tecnologico e sulla potenza industriale e capitalistica, in virtù della scoperta di nuove fonti di energia, come petrolio ed elettricità, nonché con nuovi sistemi di comunicazione. Si sviluppa con l’utilizzo dell’acciaio e del petrolio. Si assiste alle conquiste coloniali; così i capitali eccedenti con la crescita dei profitti sono investiti al di fuori dei confini nazionali nella costruzione di opere colossali o con finanziamenti a Paesi sottosviluppati, condizionandone la politica interna ed estera, in cambio di materie prime e manodopera a buon mercato. Si rilevano numerose scoperte e invenzioni, soprattutto nel campo della chirurgia. Il 1873 è l’apice del periodo, anno in cui si constata la lunga depressione, i cui effetti mutano il carattere del capitalismo, l’atteggiamento dei lavoratori, la qualità e la quantità dei prodotti dell’industria e dell’agricoltura e il tentativo delle Nazioni industrializzate di conquistare territori asiatici e africani. Un ruolo fondamentale di questo periodo spetta alla chimica, che diventa una branca delle scienze naturali e viene applicata anche ai settori della produzione industriale.

La terza rivoluzione industriale va a individuare il periodo dopo il secondo dopoguerra, in cui avvengono processi di trasformazione della struttura produttiva e del tessuto socio-economico, favoriti dall’innovazione tecnologica e dall’elettronica digitale. La terza rivoluzione va al di là della manifattura, ormai divenuta estremamente sofisticata. Riguarda lo sfruttamento dell’atomo con la liberazione di un’energia immensa. Rappresenta pure l’atterraggio sulla luna da parte dell’uomo: dopo il lancio dello sputnik sovietico nel 1957 e l’approccio americano del 1960 con il lancio del primo satellite meteorologico (Tiros 1); Il primo uomo nello spazio è stato il sovietico Gagarin nella primavera del 1961; infine il 20 luglio 1969 due americani (Armstrong e Aldrin) passeggiano per due ore sulla luna, mentre un terzo (Collins) attende nello spazio all’interno della navicella spaziale. Nello stesso anno parte la rivoluzione tecnologica con Internet e tutta la gamma dei cellulari. La cultura di massa è nata con la seconda rivoluzione industriale; con la terza ha invaso tutto il pianeta.

Nel contesto dello Stato liberale, i Paesi in via di sviluppo (come l’Italia del 1879) accrescono l’estensione degli interventi pubblici, per contenere le difficoltà della borghesia che incontra tre ostacoli: la depressione latente, l’affermazione del movimento operaio, la concorrenza internazionale. Questo triplice ordine di fattori stimola la concentrazione monopolistica, l’imperialismo, il protezionismo doganale, le riforme sociali.

Nel modello del capitalismo anglosassone, la maggiore parte di finanziamento per le imprese sono i mercati finanziari. Le quote societarie sono divise nella modalità dell’azionariato diffuso, ovvero la maggioranza è divisa fra un gran numero di piccoli azionisti, che tendono a detenerle per un tempo limitato.  Nei sistemi di questo tipo, l’amministrazione è di solito affidata a professionisti che agiscono in autonomia ed hanno tutte le responsabilità legali. Quindi la proprietà dell’azienda è separata dall’amministrazione, con la maggior parte degli azionisti, i quali insieme rappresentano la maggior parte delle quote, che non partecipano al consiglio di amministrazione. Anche i partner più importanti e attivi, comunque, nel sistema Anglosassone tendono a non intromettersi nella governance interna

Fra i modelli di capitalismo quello Anglosassone è stato quello vincente. Sviluppatosi soprattutto in Olanda, Gran Bretagna e nord America, ha portato ottimi risultati in termini di crescita economica ed ha prodotto le aziende più competitive a livello globale. Il motivo è la dinamicità unica di questo sistema, che permette di allocare capitali, ovvero risorse, con estrema rapidità ed efficienza.

Le società sono obbligate ad essere molto trasparenti con gli investitori, dovendo pubblicare una vasta gamma di dati raccolti seguendo metodi ben definiti. In questo modo è più facile riconoscere realtà davvero promettenti, facendo sì che i capitali investiti abbiano più probabilità di fruttare e non andare sprecati. Inoltre, con un solido sistema legale a tutela di chi investe, molte più persone si avvicinano ai mercati finanziari, facendo girare al loro interno enormi flusso di denaro.   

Il maggior difetto del modello anglosassone deriva proprio dalla sua dinamicità. I mercati finanziari consentono di allocare risorse in modo rapido ed efficiente ma si basano su valori di fatto virtuali, fondati in larga parte su aspettative. Gli effetti di un evento economico avverso inaspettato sono amplificati e colpiscono un numero enorme di investitori, di ogni peso e tipo, generando una serie di reazioni a catena.   

 Il modello del capitalismo renano, che prende il nome dal fiume Reno che attraversa l’Europa centrale, prevede che siano i maggiori azionisti delle aziende a stanziare gran parte dei fondi necessari. La principale fonte di finanziamento, quindi, sono i capitali degli stessi proprietari, che sono soprattutto investitori istituzionali, come banche e fondi di investimento. I consigli d’amministrazione sono controllati da questi gruppi ristretti con quasi ogni membro che detiene quote di diverse importanti aziende. Per questa ragione il modello Renano è quello nel quale si verifica la maggiore e meglio gestita collaborazione fra imprese. L’amministrazione operativa è affidata a manager professionisti, affiancati da rappresentanti del cda. 

Il modello Renano non ha portato i risultati di quello anglosassone, ma ha permesso la formazione di economie molto solide, come quelle della Germania e del Giappone. Esso è molto efficiente nel far prosperare grandi aziende in settori tradizionali ma non è molto funzionale per le imprese innovative e, in generale, per la media impresa.

I piccoli investitori sono tutelati ed hanno diritto a meno informazioni sull’azienda rispetto al modello anglosassone. Quindi il pubblico che si avvicina ai mercati finanziari è più ristretto, ricoprendo un ruolo limitato. Il difetto più importante del modello Renano è probabilmente la sua natura chiusa, un sistema che tende ad essere poco elastico e difficile per le aziende emergenti.

Nel modello Latino sia il ruolo dei mercati finanziari sia quello degli investitori istituzionali è molto limitato. La maggiore fonte di finanziamento per le imprese sono i prestiti dalle banche e, per alcuni settori strategici o legati a servizi fondamentali, i finanziamenti pubblici. Il modello amministrativo più diffuso è quello di un unico grande azionista, che può essere una persona o un gruppo di privati con interessi comuni nella società. Il proprietario tende ad esercitare un controllo diretto sulla sua azienda con i ruoli gestionali spesso non definiti in modo rigido. Nel modello latino, al contrario di quello anglosassone, la proprietà ed il controllo coincidono.  

Il modello Latino, diffuso in Paesi come Spagna, Italia, Francia e Grecia, favorisce la nascita di un gran numero di imprese. Queste, tuttavia, faticano a trovare abbastanza finanziamenti per crescere in poco tempo. Il largo ricorso al credito costringe le aziende all’indebitamento, cosa che rende il sistema vulnerabili alle crisi, con una scarsa capacità di sopportare periodi negativi.

Ed eccoci al capitalismo odierno, digitalizzato e sofisticato, al punto da creare scompensi, favoriti da un modo globalizzato senza nessun controllo. Come si scriveva all’inizio il capitalismo si è deturpato con l’avvento delle multinazionali, in cui non si conosce il padrone e si lavora in un contesto complesso, a beneficio del profitto. L’obiettivo economico, senza alcun requisito etico, ha prodotto quel fenomeno intrigante del feticismo del mercato finanziario. La svolta ha creato una sproporzione fra finanza ed economia reale, in cui l’elemento ancillare (finanza) ha superato l’economia reale (produzione di beni e servizi), addirittura di sette volte superiore, secondo le stime ultime.

L’inversione delle dimensioni delle due componenti crea disfunzioni sul sistema, inducendo crisi economiche a ripetizione, dislivelli sociali, caduta dell’etica, riduzione della sovranità nazionale. Sino a quando non vi sarà un trattato internazionale che riduce o abbatte il feticismo avremmo sempre problemi. Vivere con i derivati, che sono contratti scritti in cui si stipula che, al verificarsi di una specifica previsione sul prezzo futuro di una certa attività finanziaria, la parte perdente si impegna a versare alla parte vincente una somma di denaro pattuita. Pertanto il contratto equivale a una promessa, in cui non esiste traccia di un bene reale, cui ancorarla. L’utilizzo dei derivati, strumenti di speculazione e di alterazione del mercato, esprime il principio edonistico prestato all’economia e in particolare alla finanza, nella realizzazione di un’efficienza contaminata.

Altro fenomeno di grande caduta etica è l’efficientismo selvaggio. Questo andazzo era stato rilevato da Karl Marx, quando è giunta la divisione del lavoro e l’operaio diveniva una pedina, a guisa di una merce. Nel tal modo scattava allora l’alienazione   Marx introduce il feticismo della merce, la quale viene prodotta per attrarre l’essenza dell’altro e cioè il suo denaro. Nel momento in cui i lavoratori si alienano da sé stessi e perdono il senso del proprio lavoro e della propria produzione, la merce diventa qualcosa più distante e non è più l’elemento che unisce il rapporto dialettico: la merce diventa un feticcio. In tale intreccio si perde l’identità tra soggetto e oggetto e quindi si avverte il carattere idolatrico. In altre parole l’uomo da soggetto diventa oggetto, avviando quel processo di alienazione e di suggello di “surrogazione della merce”.

Per completare la disamina va pure aggiunto che un’ideologia, che poteva contare su una validità nel 1800 non trova riscontro oggi alla luce di un’evoluzione economica sfrenata, certamente disordinata. Il lavoro, una volta ritenuto un atto penoso, si è evoluto lentamente. Le fabbriche tradizionali operavano con addetti in condizioni ignobili, ora il lavoro manuale viene svolto dai robot e l’addetto, meglio il tecnico, esplicita una propria attività con una certa autonomia e competenza. Nel generale tutte le attività lavorative sono cresciute: vi sono sempre più figure professionali di grande tecnicità ed esperienza, agili e determinate, che riescono a trovare sul posto di lavoro una serie di soddisfazioni che riempiono felicemente la giornata. In tal modo il lavoro diventa sempre meno penoso e più gioioso; in altri termini il lavoratore è sempre meno oggetto, come invece poteva configurarsi ai tempi di Marx, e sempre più soggetto: ricercatore, esperto di informatica, responsabile marketing, ecc. ciò è felicemente accaduto fra il1960 e il 200.

Purtroppo nel terzo millennio una nuova realtà sta alterando le condizioni migliorative della società: l’avvento delle multinazionali, enti impalpabili, cinici, spregiudicati, che possono rideterminare le sensazioni e le condizioni delineate da Karl Marx. Questa storia va riscritta, va oltre l’individuo e la società in quanto va a intaccare la sovranità nazionale e soprattutto a compromettere il mercato, reo di crisi economiche a catena.

©Riproduzione riservata

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About Giuseppe Rocco

Esperto di commercio estero. Vice Segretario generale della Camera di commercio di Bologna sino al 31.1.2007; Docente esterno presso l’Università di Bologna, Istituto Economico della Facoltà di Scienze politiche, in qualità di cultore dal 1990 al 2006, di “Istituzioni Economiche Internazionali” e in aggiunta dal 2002 al 2006 di “Diritti umani”; Pubblicista iscritto all’Albo dei Giornalisti dal 1985; 450 articoli per 23 testate nazionali; in particolare consulente del Il Resto del Carlino, in materia di Commercio internazionale, dal 1991 al 1995; Saggista ed autore di 53 libri scientifici ed economici; Membro del Consiglio di Amministrazione del Centergross dal 1993 al 2007;Membro del Collegio dei periti doganali regionali E. Romagna, per dirimere controverse fra Dogana ed operatori economici dal 1996 al 2000, con specificità sull’Origine della merce.