GIORNATA DELLA MEMORIA/1. CON L’ARMADIO DI ANTONIETTA URCIUOLI INIZIAMO IL PERCORSO DELLA MEMORIA
Con queste righe che aprono “L’armadio”, il libro dell’avellinese Antonietta Urciuoli, iniziamo il nostro cammino della memoria. L’autrice, nel descrivere con un linguaggio accessibile la semplicità della vita di una volta, rende viva nella nostra immaginazione quella immensa tragedia che fu la Shoah per le famiglie italiane di origine ebrea. Oggi proponiamo solo l’incipit dell’Armadio, invitando i nostri lettori a seguirci in questo percorso attraverso la lettura del libro, perché rimanga vivo il monito a non ripetere questi orrori e per trasmetterne l’impegno alle future generazioni.
da L’armadio di Antonietta Urciuoli
L’invito
Caro Gustavo,
ieri pomeriggio con mia moglie nei pressi del porto – conosci bene la mia passione che sin da piccolo ho avuto per le navi – mi sono fermato ad aspettare che la nave si avvicinasse sfrecciando nell’immenso mare. Ho aspettato che la gente scendesse: ho scrutato i loro volti, stanchi, stanchissimi.
Le donne portavano tra le braccia i piccoli, li stringevano forte forte come se avessero paura di perderli. Accanto c’erano gli uomini, stracarichi di bagagli e forse di speranze. C’erano intere famiglie, i vecchi camminavano lentamente credendo di affrettarsi. Si tenevano per mano, mi hanno fatto tanta tenerezza, mi hanno ricordato i miei, i loro volti, le loro lacrime quando mi lasciarono partire. Come le comprendo queste persone che hanno avuto il coraggio, la forza di lasciare tutto e venire qui nella grande America dove tutto è gigantesco.
Ogni volta che arriva una nave, rivivo il mio arrivo – è come se dentro di me ci fosse un richiamo – e ripercorro con la mente quelle ore, quei giorni, quell’agrodolce della mia vita. Tra migliaia di persone, non ci crederai, ho trovato, dopo venti anni, Giorgio. Te lo ricordi? Il nostro compagno di scuola di liceo ha lasciato l’Italia con tutta la famiglia. Sarà ospitato da un cugino paterno. Mi ha spiegato che ha preferito prendere questa decisione sollecitato dai parenti che l’hanno preceduto già da alcuni mesi. La situazione per voi Ebrei peggiora di giorno in giorno, Ascoltami, amico caro, prendi tuo figlio e la sua famiglia e vieni in America. Lasciate al più presto l’Italia. Vi aspetterò, metterò a vostra disposizione la mia casa. Non indugiare, ciò che sta accadendo non mi convince. Temo per te e per tutti gli Ebrei sparsi nel mondo. Hitler mi fa orrore. In nome della nostra amicizia, prepara i bagagli e lascia tempestivamente l’Italia.
Tuo affettuosissimo Alfred
Alfred
Il vecchio Gustav si tolse gli occhiali, ripiegò la lettera e, rivolgendosi al resto della famiglia, disse: «Alfred, Alfred, l’amico più caro che ho avuto, un vero tesoro. Dovete sapere che abbiamo studiato insieme sia al liceo che all’università. Abbiamo avuto in comune la passione per la medicina e l’astronomia. Il mio Alfred è diventato un noto ricercatore presso la Washington University di St. Louis. Ha dedicato tutta la sua vita alla ricerca. Dopo l’università fu costretto a prendere una decisione non facile: quella di lasciare i suoi affetti più cari e la sua terra, il cielo azzurro e il sole dell’Italia e recarsi oltre oceano per realizzare i suoi sogni. Quanto mi è caro! Mi ha sempre voluto bene, come se fossi stato suo fratello. Un giorno mi disse: «Ricordati, non mi sono mai sentito figlio unico perché ti ho considerato il mio vero fratello. Abbiamo condiviso le gioie della primavera della vita, siamo cresciuti insieme e non è stato facile superare l’età adolescenziale. Quando si arrabbiava con suo padre per divergenze genitoriali, bussava alla mia porta e veniva accolto calorosamente, trascorreva interi pomeriggi, pranzava spesso con noi e mio padre gli si era affezionato e attraverso le sue risposte riusciva a conoscermi meglio. Dobbiamo seguire il suo consiglio, lasciamo tutto e partiamo».
Mio padre guardò prima mia madre poi me. Un lungo silenzio si frappose tra le parole del nonno e quelle che avrebbe poi detto lui: «Parti prima tu e la mamma, noi ti raggiungeremo».
I preparativi
Il nonno preparò i documenti, ci vollero molti giorni. Certificati su certificati, richiesta di passaporti e soprattutto decisioni da prendere in poco tempo che sconvolsero la vita di tutti noi. Come se all’improvviso fosse stato preso da un’insolita smania di affrettare i tempi, lavorò sodo per tantissime ore. Lo aiutammo noi tutti ma in particolare mia nonna che, piangendo, continuava a ripetere: «dobbiamo partire tutti! Non voglio lasciare i miei cari qui. E’ troppo pericoloso! »
Chiudere la loro casa per poi venderla, disfarsi di tanti oggetti cari, regalare tutti quei libri che erano diventati i veri compagni di una vita. Videro un via vai di persone e soprattutto l’amarezza nel volto, non tanto di mio nonno quanto della nonna.
Il nonno sembrava il capitano di una nave che stava per affondare e dava ordini a tutti trasformando quell’ambiente in un ponte.
Insieme a mia madre strappammo per ore appunti di medicina, ricerche fatte a lume di candela. Ci fu ordinato di buttare tutto nel camino, così provocammo piccoli falò in quella bocca stracolma che, a fatica, riusciva a ingoiare tutto quello che gli davamo. In una ventina di giorni lavorando, con lena, di quella grande casa, arredata con cura, non restarono che pareti vuote. Poltrone, mobili antichi, tappeti, quadri, il grande orologio a pendolo e ciò che mi strinse di più il cuore fu la vista del pianoforte dal colore nero ebano che uscì per l’ultima volta dalla casa al terzo piano del grande palazzo antico al centro della città del sole. Tutto era stato venduto! Non era rimasto più niente. La casa vuota sembrava piangere, gridare ad alta voce: «perché tutto questo? Perché mi abbandonate? Perché mi lasciate così spoglia? Chi verrà dopo di voi? »
La partenza dei nonni
Mia nonna come sempre si sciolse in lacrime. Mi strinse forte, forte. Non voleva lasciarmi. Mio nonno cercò di farla ragionare, con la sua dolcezza le spiegò che tra un mese li avremmo raggiunti. Le sue parole non riuscivano ad allentare gli abbracci, baciando mio padre gli disse: «figlio mio, vieni presto in America, non farmi stare in pena».
Quelle scene le ricordo ancora: mia nonna che inizia a salire sulla scaletta per poi correre verso di noi. Mio nonno, imbarazzatissimo, corre verso di lei e insieme poi continuano a salire. La nave si allontana e quelle braccia che si agitano si vedono sempre più distanti, sopraffatte dai frastuoni dei motori che sembrano parlare al posto della gente, indifferenti come sempre a quelle lacrime copiose che scivolano sui visi, a quell’angoscia che ti assale quando devi lasciare le persone che ami.
Mio padre perde il lavoro
Sono giorni che non esce di casa. Le mura sono impregnate da uno strano silenzio. Non parla da ore, è in poltrona nascondendo il viso dietro quei due fogli di giornale che sono sempre gli stessi. Li tiene tra le dita da tempo. Dopo la partenza dei nonni, tutto è cambiato. Mi mancano i loro racconti, la vivacità ma soprattutto l’ottimismo di mio nonno, le carezze, i baci e i dolci della mia nonnina.
Quando venivano a pranzo, la prima cosa che facevano era quella di dialogare, di spaziare con le parole da un argomento all’altro. Il nonno mi parlava tanto dell’Italia.
Il pranzo durava di più. Grazie a loro ci doveva essere un po’ di tempo tra una pietanza e l’altra perché volevano godersi delle ore in nostra compagnia ed immancabili erano le risate.
La domestica conosceva le loro abitudini e serviva con pazienza, senza affrettarsi. Preparando piatti che ci piacevano tanto.
Da quando non ci sono, mio padre è tanto triste. Ha detto alla mamma di essere ammalato e si è assentato dal lavoro. È strano, è sempre andato a scuola, anche con la febbre eppure di febbre non ne ha.
Stamane la nostra lattaia ha detto a mamma: «Signora, mi dispiace per vostro marito. Sono stati mandati via medici dagli ospedali e maestri dalle scuole, impiegati. Mi dispiace, davvero… »
Così mia madre, senza rendersene conto, ha saputo dagli altri quello che mio padre non ha detto. Perché non ha detto la verità? Forse voleva proteggerei ma la verità viene sempre a galla. L’ha detto sempre lui.
Quanta tenerezza provo per lui. Il denaro non ci manca perché abbiamo i soldi della vendita della casa, ma vedere mio padre in quello stato mi rende malinconica, come se avessi qualcosa sul cuore che ha cacciato via il buon umore, la gioia, l’allegria. Mi sembra un cane bastonato. Come se avesse preso, veramente, tantissime botte.
Sono convinta che gli manca tanto il suo lavoro: la scuola, gli alunni, i colleghi, e soprattutto il ritmo di tutti i giorni, quello di anni.
La sua apatia, rendono infelice anche la mamma che all’improvviso, come impazzita ha gridato: «Sei un uomo, devi reagire! Fa qualcosa! »
– Che cosa posso fare? Lascia quella maledetta poltrona e reagisci!
Le donne, devo riconoscerlo, nei momenti difficili sono più energiche, reagiscono in modo diverso rispetto ad alcuni uomini. Mio padre ha ereditato parte del carattere di mia nonna, di fronte alle difficoltà resta disorientato, manca di spirito di iniziativa. Ha sempre amato la vita semplice, lineare, priva di ostacoli e soprattutto senza preoccupazioni. Trovarsi di fronte a un problema così grave significa per lui precipitare in un abisso. Intanto il nostro destino è legato alle sue decisioni. Le nostre vite sono nelle sue mani…
continua alla prossima puntata, venerdì 3 febbraio.
“L’armadio” nasce dalla collaborazione ad un progetto scolastico dell’Istituto Comprensivo “San Tommaso – F.tedesco” di Avellino – diretto dalla dottoressa immacolata Gargiulo – della Scuderi Editrice e da una idea della professoressa Antonietta Urciuoli. La favola è rivolta ai bambini e ai ragazzi del San Tommaso e a tutti coloro che vogliono ascoltare il racconto della Shoah, perché nessuno dimentichi.
Questo il profilo dell’autrice redatto da colei che aveva diretto per anni l’Istituto, in occasione della pubblicazione del libro:
“Una presenza silente, la dolcezza del sorriso, lo sguardo luminoso anche se, intriso, talvolta, di nascoste lacrime, la parola consolatrice, la fede in Dio, la capacità di esserci sempre per tutti e per ciascuno, è questa la biografia ‘vissuta’ di Antonietta Urciuoli, amica, collega, docente, attenta bibliotecaria. Antonella (così è chiamata da tutti) ha riscoperto, attraverso uno studio attento ed una riflessione costante, una nuova antropologia dell’apprendere, sapendo cogliere, nelle risonanze affettive, la necessità che si debba educare al presente: ecologia, ambiente, integrazione, rispetto degli altri, la solidarietà e il mondo dell’immaginario e del fantastico hanno invaso le dimensioni del suo vivere nella scuola e al di fuori di essa. Antonietta (Antonella) è nata ad Avellino nel 1952. La sua professione di insegnante prima e di non docente poi si è sviluppata essenzialmente presso l’I.C. di S. Tommaso di Avellino, istituzione che l’ha vista impegnata in una molteplicità di iniziative a sostegno del territorio e della Scuola stessa.
Costretta a lasciare l’amato insegnamento e la funzione di “vicaria’ del D.S., svolta presso numerose Istituzioni scolastiche della Provincia (nonché presso il carcere di Bellizzi Irpino), dal 1998 si è dedicata alla ‘costruzione’ della biblioteca scolastica dell’ I.C. San Tommaso, con competenza e passione. Le sue doti di ‘bibliotecaria’ scaturiscono da quella vena poetica che è linfa vitale del suo vivere. Antonella ha pubblicato numerose poesie e racconti per il “PONTE”, narrazioni attraverso la cui lettura ‘inciampa’ nella meraviglia e nello stupore, meraviglia e stupore che si intrecciano in valori quotidiani, arcaici e mai dimenticati…
Con il settimanale il “Ponte” collabora sistematicamente dall’anno 2010. La nostra scrittrice ha espresso il suo impegno civile, disinteressato e sincero, quale consigliere della 7^ Circoscrizione e nel 2003 è stata nominata madrina del Centro Culturale “Il Paese”.
Ricca di positive recensione critiche la pubblicazione della fiaba dal titolo L’albero comincia a sperare, ideato nell’ambito dell’educazione ambientale nell’anno scolastico 1999/2000.
Il sogno nel cassetto di Antonella che ama l’arte, la musica, le opere liriche e la scuola è quello di poter regalare sempre una speranza a chi le è accanto e di poter rivivere Avellino come una volta ma, soprattutto, rivedere… i cigni in Piazza Libertà!” D.S. Annamaria Imbriani
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