Nuova alienazione nel lavoro. Il focus di Giuseppe Rocco

Il tema dell’alienazione nel mondo del lavoro sta tornando al centro dell’attenzione sociologica e filosofica. Le prime mosse partono dalla metà del 1800, quando Karl Marx indaga sulle leggi che regolano il mercato e l’industria e, contrariamente a quanto sosteneva Adam Smith, non si riscontra nulla di armonico e naturale nei rapporti di lavoro, bensì l’economia è un campo di conflitti da cui non si può astrarre. Per Marx l’economia politica aveva trascurato il rapporto fra operaio, il suo lavoro e la produzione, per celare l’alienazione, caratteristica nella società industriale moderna. L’alienazione, termine che Marx recupera da Hegel, è divenuto una cessione ad altri di ciò che è proprio.  Nella produzione capitalistica può assumere vari aspetti tra di essi legati in cui «l’operaio diviene tanto più povero quanto maggiore è la ricchezza che egli produce”. L’operaio diventa una merce tanto più vile quanto più grande la quantità di merce prodotta e viene a trovarsi rispetto all’oggetto del suo lavoro come a un oggetto estraneo. 

Marx introduce il feticismo della merce, la quale viene prodotta per attrarre l’essenza dell’altro e cioè il suo denaro. Nel momento in cui i lavoratori si alienano da sé stessi e perdono il senso del proprio lavoro e della propria produzione, la merce diventa qualcosa più distante e non è più l’elemento che unisce il rapporto dialettico: la merce diventa un feticcio. In tale intreccio si perde l’identità tra soggetto e oggetto e quindi si avverte il carattere idolatrico. In altre parole l’uomo da soggetto diventa oggetto, avviando quel processo di alienazione e di suggello di “surrogazione della merce”. La disumanizzazione, la parcellizzazione, la divisione del lavoro producono una nuova dimensione: lo stringere quel bullone ha un valore esprimibile in termini monetari ma non ha alcuna rilevanza che sia uno o l’altro a stringere il bullone; ciò trasforma quel lavoro in merce.

La classe operaia non può influenzare le decisioni su quali merci produrre, sulla quantità e sulle tecniche di produzione. In tal modo la forza lavoro diventa merce e si aliena: scatta la separazione tra il lavoratore e il prodotto del suo lavoro. Marx va oltre, precisando che la vera origine del plus valore non si trova in un atto di scambio, ma nel modo in cui è organizzato il processo di produzione. Egli presuppone che i prezzi delle merci siano determinati dalle quantità di lavoro incorporato nella loro produzione; nella sfera della circolazione delle merci i valori possono essere scambiati con valori di uguale dimensione, non è possibile aggiunta al valore. La forza lavoro viene intesa come una merce che rappresenta il potere produttivo medio del lavoro e il suo valore è determinato dal lavoro incorporato nei mezzi di sussistenza necessari per la riproduzione della forza lavoro medesima. La condizione subordinata non è dovuta alla loro riproduzione eccessiva, ma all’introduzione di speciali macchine e di nuove tecniche di produzione, in modo che i capitalisti ricreano continuamente una massa di persone disoccupate, che Marx definisce “esercito di riserva industriale”.

Questa esposizione serve a definire la situazione patologica del lavoratore dipendente in quel periodo. Nel tempo le cose si aggiustano, poiché il lavoro si evolve e la dimensione umana raggiunge livelli accettabili. Nel secondo dopoguerra, la qualità del lavoro riesce a valorizzare l’individuo, in quanto riesce a ridurre gli sforzi grazie alla tecnologia e conferire al lavoratore una forza nuova, con l’affermazione del movimento sindacale. Un salto di qualità, con cui il lavoratore si sente più autonomo, maggiormente qualificato (non più la raccolta dei bulloni), con una dignità accresciuta. Addirittura in Europa si espande il “modello renano”, tipica forma di organizzazione delle aziende in cui nel management vengono inserite figure di lavoratori, con una certa forma di cogestione. Ovviamente il sindacato è forte, soprattutto perché è calata la disoccupazione. Come enuncia la curva di Phillips, secondo la quale la forza sindacale aumenta con l’aumentare dell’occupazione; si tratta di un’analisi macroeconomica degli anni ’50 che, basandosi sui dati empirici dell’economia inglese negli anni ‘50 e ‘60, mette in relazione inversa il tasso d’inflazione dei prezzi e dei salari nominali con il tasso di disoccupazione. Quanto più è basso il tasso di disoccupazione (piena occupazione) tanto più è alto il tasso di crescita dei prezzi e dei salari.

Sembrava tutto procedesse bene e migliorasse con l’avvento dell’informatica. Così non è stato poiché nel terzo millennio sono sorte nuove patologie del lavoro contemporaneo. Il nuovo capitalismo digitale ha creato un esercito di precari, non protetti legalmente, che ripropongono forme acutizzate, casi di sfruttamento ottocentesco. La nuova tipologia di lavoro, basata sullo sfruttamento all’insegna dell’efficientismo selvaggio e sulla precarietà può originare la sindrome di Burnout, che dipende dalla risposta individuale ad una situazione professionale percepita come logorante dal punto di vista psicofisico. In tale contesto, l’individuo non dispone di risorse e strategie comportamentali o cognitive adeguate a fronteggiare questa sensazione di esaurimento fisico ed emotivo. Nel tempo, il burnout può condurre ad un distacco mentale dal proprio impiego, con atteggiamento di indifferenza, malevolenza e cinismo verso i destinatari dell’attività lavorativa. Il burnout non va sottovalutato, considerandone i sintomi passeggeri e poco importanti: la demoralizzazione e la negatività per il proprio contesto possono sfociare, talvolta, nella depressione e in altri disturbi più complessi da affrontare.

A parte i casi, soggetti alla sindrome di Burnot, nella generalità del lavoro si può riformulare una critica dell’alienazione per le nuove sofferenze sociali che attraversano la nostra società contemporanea, anzi si può rivisitare il concetto marxiano di alienazione. La fenomenologia viene determinata dalla ricorrente disoccupazione, dal lavoro precario o discontinuo, da un lavoro altamente professionalizzato in cui salta qualsiasi distinzione tra tempo di lavoro e tempo di vita. L’alienazione, certamente mascherata, si rivela nelle nuove forme di lavoro. Il ricordo all’alienazione che per un secolo e mezzo ha caratterizzato pesantemente le forme capitalistiche di produzione e di organizzazione del lavoro si trasla in alienazione moderna, regalataci dalle holding e dalle strutture aride e invisibili all’insegna dell’efficientismo selvaggio. L’alienazione non è scomparsa ma si è convertita: dopo aver automatizzato il fisico, oggi la tecnica ci sta portando all’automatizzazione del pensiero con tecnologie che si sostituiscono ai processi intellettivi umani, alienando gli uomini dalla propria libertà, analisi e decisione, con una metamorfosi di tecnica gestionale. Come affermava Karl Marx, l’alienazione non è soltanto lo stato psicologico indotto dalla ripetizione del movimento, ma anche la privazione del suo rapporto con l’attività formatrice e liberatrice del lavoro. Nella ripetizione non conta più la qualità ma la quantità, che viene sottoposta nella divisione del lavoro e quindi nella particolarizzazione, cioè all’astrazione e non all’universalità.

Nei tempi moderni la dimensione è ben mascherata dal tecno-capitalismo con l’avallo del rinascente populismo. Si pensi alla dinamica dei gestori telefonici: un contatto estenuante e stressante con l’apparecchio telefonico per parlare con un ente invisibile per il cittadino bisognoso di informazioni; nel contempo abbiamo pochi operatori che devono sforzarsi in un processo di affettata gentilezza a tentare di risolvere i problemi. Questi operatori vivono in uno stress costante e permanente, in quanto a quasi tutti i contatti, segue un messaggio di controllo attraverso la valutazione dell’utente. Siamo nel paradosso: operatori col fiato addosso dell’ente e utente alla ricerca dei tasti idonei per individuare il giusto percorso digitale. Si evince come l’accresciuta divisione del lavoro e le maggiori dimensioni sociali, costringono l’addetto a diventare una parte della macchina piuttosto che il padrone di se stesso.

In tal modo le forme di lavoro attuali sono integrate nella tecnica, come apparato di controllo e di comando, con l’attivazione di comportamenti individuali modellati. Le piattaforme di produzione merci e servizi passano per gli algoritmi, con la promessa di efficienza, lasciando l’uomo come pedina. Certamente sul piano strettamente economico, il profitto dell’azienda aumenta smisuratamente, ma sul piano umano, etico e sociale lascia la bocca amara. Il sistema tecno-capitalista si riproduce con una penetrazione infinita, poiché la sua grande abilità consiste nell’inserire l’essere umano nell’apparato e nel processo di accrescimento tecnico, assorbendo l’essere umano nell’accumulazione capitalistica. La gamma dei lavori digitali maschera la patologia; è compito della componente socio-economica svelare i domini del tecno-capitalismo, impegnandosi a costruire uno scenario umano ed ecologicamente responsabile, atto a scacciare l’alienazione mascherata.

Nello sciagurato scenario dell’alienazione rientra l’avvento penetrante del cellulare e ora dello smartphone. Siamo ossessionati da questo oggetto che teniamo addosso, quasi fosse l’angelo custode. Da una recente statistica, pare che in media ogni individuo controlla l’apparecchio 150 volte al giorno. Sorto come telefono, esso è divenuto l’informatore permanente. La panoramica all’interno di un autobus o di un treno è sempre la stessa, con passeggeri chini sullo smartphone per cercare messaggi ricevuti per poter rispondere prontamente, per individuare notizie sulla pagina Facebook, per visionare siti interessanti su Instagram. Siamo vittime della connessione digitale in modo solitario ma con l’impressione di essere in compagnia. Siamo caduti nell’aridità, che filtra lentamente il nostro essere regalandoci una finzione della collettività e che infine ci lascia nella tristezza. Non a caso negli ultimi 25 anni, il numero degli adolescenti affetti da depressione è salito del 70%.

La globalizzazione, l’indifferenza, il cinismo, il profitto esasperato, la mancanza di etica sono tutti concetti che da soli o in simbiosi riescono a cancellare la base dei diritti umani. L’avvento di meccanismi e di comportamenti stravaganti, se vogliamo abbandonarci a termini carichi di eufemismo, compromette il viver sani.

Siamo arrivati al punto in cui un collegamento via Zoom è diventato il preludio di un maxi-licenziamento collettivo. Questo quanto accaduto a diversi dipendenti che hanno appreso di aver perso il posto di lavoro durante un Seminario interattivo tenuto su Internet. L’inusuale, maldestra e arrogante modalità è stata utilizzata dall’amministratore delegato di Better com, Vishal Garg, che ha comunicato come la società attiva nell’erogazione dei mutui negli Stati Uniti avrebbe licenziato in tronco circa il 9% della sua forza lavoro, ossia circa 900 dipendenti. La balbettante difesa si è incentrata sulle tecniche del mercato immobiliare in radicale evoluzione, il quale esige interventi preventivi, anche come la riduzione del personale.

Ricordiamo pure lo scorso 9 luglio 2021, la GKN Driveline di Firenze, che produce componentistica per auto licenzia 442 dipendenti via e-mail per la chiusura dello stabilimento; la Logista Italia spa di Bologna, leader della distribuzione nel tabacco in Italia, ha licenziato 90 lavoratori lo scorso 31 luglio con un messaggio su WhatApp.

Queste modalità stanno prendendo forza nella totale indifferenza e nello spietato mondo delle aziende multinazionali, sempre più astratte e lontane dai lavoratori e dagli stessi utenti. Il 3 dicembre 2021 la multinazionale Yazaki ha licenziato Alessandra Cielidoni, con una telefonata via teams[1].Una donna di 50 anni, separata con due figli, in servizio da 18 anni, impegnata nella sede di Grugliasco (TO), si trova improvvisamente senza lavoro senza un minimo di decoro e di rispetto, almeno nelle modalità e nei rapporti di lavoro. Un’azienda che produce e commercializza cablaggi e sistemi di distribuzione elettrica per autoveicoli. Dalla telefonata, si evince che il management dell’azienda decide di chiudere il punto vendita con effetto immediato per trasferirne l’attività in Portogallo.

Altro che alienazione, Il lavoratore oggi è trattato come una bestia, una pedina, un robot. Assistiamo ad un rapporto senza anima e senza etica. Se questa prassi è il frutto del liberalismo selvaggio, fiorente con la globalizzazione, dobbiamo veramente preoccuparci. Il governo italiano sta approntando un decreto che impone la notizia almeno 90 giorni prima per iscritto al governo, sindacati e istituzioni. La eventuale nuova legge si rivolge ai datori di lavoro con almeno 250 dipendenti e coinvolga almeno 50 lavoratori. Come si nota si tratta di un intervento marginale, che non risolve il problema senza modificare il clima e la cultura imprenditoriale. Vi sono molti escamotage per aggirare ostacoli normativi e buonsenso. Ancora recente il ricordo del “Mercatone uno”. Nella dinamica sconvolgente dell’evoluzione aziendale, il 25 maggio 2019 i lavoratori della catena di grandi magazzini “Mercatone Uno” sono andati a lavorare ed hanno trovato chiuso i supermercati in tutt’Italia, apprendendo nello stesso giorno la chiusura e il conseguente licenziamento dagli organi di stampa. Il rapporto di lavoro ai tempi nostri rappresenta una nuova edizione dell’alienazione marxiana, aggiungendo lo scarso potere sindacale a difesa della classe operaia e in più il rischio continuo di licenziamenti senza precedenti accordi o comunicazioni.

L’andamento è peggiorato, introducendo il fattore di scarsa adesione del tessuto operaio non più organizzabile a livello sindacale, in quanto la frammentarietà delle postazioni e delle unità operative rendono difficile il collegamento. Ancor peggio oggi il rischio della chiusura dell’azienda o del trasferimento della stessa è alla portata di mano. I vertici sono mutevoli con passaggi di proprietà molto frequenti, proprio a causa della incessante globalizzazione, e le variazioni possono creare situazioni di insolvenza.

Dall’intreccio pericoloso scaturito dalla caduta dell’etica e dalla difficoltà a trovare un lavoro, il giovane può essere irretito dalla “sindrome dell’abulia”. Una fuga per alleggerire la tensione che rivendica il diritto all’astensione, al silenzio, all’indifferenza e all’irrilevanza. Ne aveva parlato negli anni addietro l’antropologo francese Davide Le Breton, docente all’università di Strasburgo negli a cavallo del 2000, evidenziando il fenomeno da una nuova apatia e una distanza che rivela il drammatico bisogno ad allontanarsi dal mondo e forse da se stesso.

Purtroppo l’epidemia Covid ha radicalizzato e moltiplicato questa sindrome. In molte scuole si segnalano casi di ragazzi che non frequentano più le lezioni, mentre i tanti centri di assistenza psicologica aperti in questi anni sono affollati di genitori che non sanno come trattare i figli, i quali non escono di casa. Un problema trasversale che tocca tutte le classi sociali e le diverse fasce di età, quasi tutti giovani che hanno introiettato una sorta di paura nei confronti del mondo esterno, perché intrappolati in un vuoto mentale da cui non riescono a liberarsi.

Queste nuove generazioni sono lontane dagli anni della contestazione, in cui si rivendicava il diritto di crescere e gestire le cose. Nel secondo dopoguerra abbiamo scoperto il desiderio di esplodere e lo abbiamo vissuto come una grande occasione, ma nel nuovo millennio i figli della società del benessere non cercano e non desiderano inseguire i sogni. Ha influito certamente il cambiamento culturale, nel quale l’ambiente è divenuto fortemente competitivo, ove bisogna sempre essere all’altezza sul lavoro e nei rapporti sociali. Il senso di inadeguatezza si rivela nell’ansia diffusa e nelle crisi di panico, sensazioni peggiorate col virus che, nell’interrompere le poche relazioni, ha sferrato il colpo di grazia.

Nelle distorsioni sociali, spesso il giovane si ritira come una difesa. Il ritiro appare come una soluzione in una situazione di benessere diffuso, proprio perché risolve i problemi di sopravvivenza immediata, creando una membrana in cui i ragazzi possono sopravvivere senza problemi. La famiglia, da cui si esce tardissimo, è una cuccia protettiva in cui ci si può accomodare rinviando le sfide a un domani. Ad aggravare la situazione, contribuisce l’avvento del digitale, il cui flusso comunicativo si trasforma in una fluidità personale che fatica a trovare un punto di consistenza. La comunicazione, peraltro spesso artefatta e irreale, contribuisce alla destrutturazione dei processi di individuazione, che diventano sempre più precari.

Freud insegnava che il desiderio, senza sublimazione, non raggiunge le mete. Ora abbiamo una generazione che non trova più nei rapporti col mondo circostante appigli per mettere in campo quella spinta, senza la quale la vita non decolla. Complice il computer che tiene uniti i ragazzi in modo simbolico, astratto e virtuale a differenza degli antenati che si incontravano di persona nelle piazze e vivevano momenti di grande e vera amicizia.

Certamente l’attuale insegnamento non aiuta. Sentirsi dire che solo i migliori ce la faranno può creare quelle paure sottocutanee che minano la forza di crescere e lottare. Dobbiamo invece insegnare sin dall’adolescenza a misurarsi con la vita, in modo diverso da quello che può insegnare un libretto o un videogioco. Tramettere il desiderio dei sogni senza contrapposizioni, contare sulla famiglia e giocare le partite giorno per giorno con moderazione.


[1] Teams è una piattaforma di comunicazione e comunicazione unificata del colosso Microsolft. Combina chat di lavoro persistente, teleconferenza, telefonate, condivisione di contenuti multimediali.

Print Friendly, PDF & Email

About Giuseppe Rocco

Esperto di commercio estero. Vice Segretario generale della Camera di commercio di Bologna sino al 31.1.2007; Docente esterno presso l’Università di Bologna, Istituto Economico della Facoltà di Scienze politiche, in qualità di cultore dal 1990 al 2006, di “Istituzioni Economiche Internazionali” e in aggiunta dal 2002 al 2006 di “Diritti umani”; Pubblicista iscritto all’Albo dei Giornalisti dal 1985; 450 articoli per 23 testate nazionali; in particolare consulente del Il Resto del Carlino, in materia di Commercio internazionale, dal 1991 al 1995; Saggista ed autore di 53 libri scientifici ed economici; Membro del Consiglio di Amministrazione del Centergross dal 1993 al 2007;Membro del Collegio dei periti doganali regionali E. Romagna, per dirimere controverse fra Dogana ed operatori economici dal 1996 al 2000, con specificità sull’Origine della merce.