Perturbazioni nella scuola. Il focus di Giuseppe Rocco

La cultura conferisce la sensazione di una testa di ponte che porta sulla spiaggia dell’immortalità. L’asse portante della cultura è la scuola, che è sorta per allevare le future generazioni alle conoscenze generali e specifiche.

In via prioritaria il pensiero va alla storia, che ci racconta l’evoluzione dell’uomo, le sofferenze e le vittorie per potere acquisire un tenore di vita normale. La storia ci fa conoscere i grandi uomini, i condottieri dell’umanità, gli ispiratori, gli eroi, gli artefici delle opere prestigiose. Tutto quello che vediamo stabilmente formato nel mondo è il risultato materiale, la realizzazione pratica e l’incarnazione dei pensieri dei nostri abili predecessori; la storia riflette la creatività e la vivacità dei geni, che hanno applicato la loro forza spirituale come potenza animatrice.

Nella civiltà occidentale e mediterranea, la scuola ha cercato di rappresentare la formazione della persona e del cittadino, oltre a una semplice trasmissione di conoscenze fondamentali. Una primissima reminiscenza risale ai poemi omerici, composti verosimilmente tra l’850 e il 750 a.C., in cui si legge che il centauro Chirone insegna ad Achille sport ed esercizi cavallereschi e il vecchio Fenice l’arte della guerra e del parlare.

Storicamente le prime scuole attengono alla filosofia e alla medicina; la scuola nasce dall’alto insegnando la dialettica e la retorica. Il modello platonico è l’espressione massima della progettualità pedagogica greca. Come Platone, Aristotele ribadisce che il compito educativo tocca allo Stato. Una situazione non dissimile si registra nell’antica Roma, ove si incontrano scuole pubbliche in baracche, ma l’educazione resta essenzialmente privata e familiare.

In effetti i romani hanno un forte senso della cosa pubblica. L’istruzione diventa un’esigenza sempre più diffusa: accanto alle scuole private di alta formazione cominciano a svilupparsi in vari municipi le scuole pubbliche, al cui finanziamento contribuiscono in parte i privati. Il modello greco-romano ha il vanto di avviare un processo di civilizzazione dell’intero Occidente europeo, attraverso la filosofia e il diritto.

Affermandosi il cristianesimo in condizioni di evidenti persecuzioni, l’insegnamento laico assume un carattere umanistico e l’insegnamento religioso si caratterizza per l’andamento spirituale. Nel 476 d.C. Odoacre depone il giovane imperatore Romolo Augusto e viene meno l’Impero di occidente; data assunta dagli storici come fine dell’antichità e inizio del medioevo.

Con la caduta dell’Impero Romano, in occidente l’istruzione subisce un calo, in quanto non ritenuta indispensabile. Pertanto l’istruzione resta nelle mani di monaci e sacerdoti. Una figura di spicco è San Benedetto da Norcia, fondatore del monastero di Montecassino. Nell’età dell’Umanesimo e del Rinascimento, essendo collegata all’affermazione della città-stato, si affermano le classi borghesi, le quali hanno bisogno di riscoprire la scolarizzazione. L’evoluzione continua con l’Illuminismo, nel cui periodo si esalta la ragione e cresce la voglia di cultura economica, soprattutto con Adam Smith e David Ricardo, i quali spingono l’ideologia in tutta Europa. L’Italia importa con tepore l’Illuminismo, ma avvia comunque le scuole statali nel Piemonte, in cui le scuole vengono gestite principalmente dai gesuiti.

Con l’avvento del Regno d’Italia, viene emanata la legge Casati nel 1859, che diventa una riforma scolastica, con l’articolazione dei livelli, senza escludere l’Università, la quale è destinata a preparare titoli per le carriere pubbliche. La scuola elementare per la prima volta si delinea come una formazione di massa, in cui il maestro assurge quasi a missionario.

Nel ventennio fascista, emerge la figura di Giovanni Gentile, ministro della Pubblica istruzione, il quale appronta una riforma nel 1923. Nella nuova normativa, si affermano due concetti: il primo che nessuno potesse insegnare senza laurea; il secondo che ogni esame avesse effetto legale davanti ad una Commissione statale. Inoltre gli istituti medi sono divisi in primo e secondo grado; sorgono l’istituto magistrale e il liceo scientifico; viene confermata la scuola materna ideata nel 1914; si riconoscono gli istituti parificati.

Nel secondo dopoguerra, la Repubblica detta le norme generali sulla istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi, prevedendo scuole provate senza oneri per lo Stato. Scatta l’obbligo e la gratuità per almeno otto anni, introducendo un sistema di evoluzione culturale. Il dibattito in materia è acceso, fra cattolici e laici, prevalendo il primato umanistico. Negli anni si annidano alcuni regressi visibili, come il latino opzionale nella scuola media unica, per rispondere ad alcune spinte popolari: scelta di arretramento e di impoverimento per una lingua la cui matrice si trova nel latino; altra scelta sostanziale riguarda la possibilità ai diplomati degli istituti superiori con corso quinquennale ad accedere a tutte le Facoltà. La società del benessere tende alla massificazione scolastica e universitaria, tendenza che unifica i ceti in una concreta dialettica.

Le violenze studentesche degli anni sessanta e settanta lacerano in parte il tessuto socio-scolastico, ottenendo il diritto degli studenti della secondaria superiore di riunirsi in assemblea; nei Distretti scolastici appaiono rappresentanti dei Comuni, delle forze sociali e degli studenti: forme democratiche farraginose e spesso incomprese da risultare inutili; anzi lo spirito degli organi collegiali viene snaturato dalle lottizzazioni partitiche e dallo scoramento culturale.

Nel 1989 la legge 168 afferma l’autonomia didattica, scientifica, organizzativa e contabile degli Atenei, proseguendo in quella politica della privatizzazione che  rende l’organizzazione dispersiva e disarticolata e che crea divisioni e normative diversificate. Continuando a giocare sulle parole e su presunti significati, la scuola materna diventa scuola dell’infanzia.

In tempi più recenti, rammentiamo la riforma formativa di Berlinguer, il quale accentua l’insegnamento della storia contemporanea, il che allontana da un equilibrato sviluppo della conoscenza storica e riverbera nell’insegnamento un inevitabile ripercussione ideologica. Tende pure a realizzare l’autonomia didattica e organizzativa. Una simile strategia monta una babele di regolamentazioni, differenziando i territori e imprimendo tanti centri decisionali. Viene scardinata la parità delle scuole, introdotto il concetto di competitività, recepito il senso dell’utile e del profitto, secondo un’influenza di chiara provenienza protestante e anglosassone. Il clima liberista favorisce il concetto di flessibilità e dissolve lo Stato sociale. Ad accrescere l’autonomia e la privatizzazione, nel 1998 si attribuisce ai capi di istituto la qualifica di “Dirigente scolastico”, con diverso status giuridico ed economico. Berlinguer rivede pure l’assetto universitario, istituendo una laurea triennale (di base) e una biennale e successiva (specialistica). Queste distinzioni lascia la bocca amara: a parte che questa norma istituisce corsi di serie A e di serie B, non tutte le Facoltà sono implicate (Medicina, Magistrale).

Segue in ordine storico, l’avvento del ministro Letizia Moratti, la quale aggiunge nuovi licei, lasciando la formazione professionale e tecnica alle Regioni; altro errore di divisione di divergenze della scuola, che avrebbe bisogno di un disegno univoco su tutto il territorio nazionale. Lascia intatto l’impianto del suo predecessore, con le incongruenze universitarie del triennio più il biennio.

Altro ministro della Pubblica istruzione, Mariastella Gelmini, stabilisce che la valutazione dei profitti è effettuata mediante l’attribuzione di un voto numerico espresso in decimi, considerandoli più comprensibili rispetto ad articolati giudizi e torna ad essere decisivo il voto in condotta, prendendo atto del clima violento vissuto in certo classi. Accanto a questa buona idea di razionalità stabilisce però la fine delle Facoltà tradizionali all’Università e l’affermazione dei Dipartimenti come centri di ricerca. Giochiamo ancora sulle parole senza apportare effettive modifiche costruttive.

Nella sequenza storica, viene nominato ministro della pubblica istruzione la Giannini, che si adopera per un’altra riforma senza grosse modificazioni, tranne il rafforzamento privatistico, in cui al dirigente viene conferito un grande potere di gestione.

Il settore scolastico merita particolare attenzione, sia per la formazione dei cittadini del futuro che per assicurare all’area un comportamento di razionalità e semplicità.

La scuola elementare va riaffidata al maestro unico, per consentire al bimbo di intrattenere un rapporto costruttivo con il maestro stesso. Tenendo presente l’ondata pletorica di immigrati, la formazione va meglio gestita: anziché le due ore settimanali per far apprendere la lingua, sarebbe più organico un corso preliminare di un anno convogliando i bimbi e i ragazzi che non conoscono il nostro idioma.

La scuola media superiore si conclude con un esame di stato, che non è più conforme ai tempi. Sarebbe opportuno l’abolizione dell’esame di stato perché l’esame di per sé costituisce un rischio, poiché il giudizio viene formulato in base al rapporto esaminatorio, comportando errori e quindi meglio sarebbe concludere il periodo sulla scorta del profitto e del rendimento. Si ridurrebbe pure l’onere economico delle commissioni esaminatrici.

La scuola è il simbolo della cultura, dell’educazione e della formazione. Il bullismo contraddice al ruolo della scuola, poiché coinvolge ragazzi, spesso minorenni. Colpire la dignità personale di coetanei all’interno di una istituzione pubblica aggrava la responsabilità tanto dei colpevoli, quanto di chi ha l’obbligo di educare e vigilare. Le manifestazioni di bullismo non rappresentano momenti isolati di ragazzacci, ma costituiscono lo specchio di un malessere più ampio che si consuma all’interno del simbolo dell’educazione e che fiorisce mentre andrebbe estirpato. Inoltre si auspica l’azzeramento delle forme di autonomie, per evitare discriminazioni territoriali e per ridurre le forme di burocrazia, articolando la scuola con un’architettura e uno scheletro nazionale e quindi con normative omogenee. Infine meglio introdurre scuole tecniche, previste da leggi statali e non affidamento alle Regioni, le quali agiscono in modo diversificato. Le scuole professionali stanno riducendo l’orario di lezioni (per scompensate istruzioni comunitarie) a scapito della formazione tecnica e di laboratorio, che era il fiore all’occhiello del nostro Paese.

L’irrazionalità investe soprattutto l’Università, secondo i seguenti punti:

Il percorso viene articolato in due periodi e non per tutte le Facoltà, creando confusione mentre la razionalità dei quattro anni con un solo titolo resta sempre una garanzia di chiarezza;

L’autonomia dell’Ateneo è visto in chiave privatistica e concorrenziale; meglio sarebbe un istituto che osservi regole eguali in tutta la Nazione, non solo per evitare difformità ma per rendere leggero lo strumento organizzativo;

L’avvento dei Dipartimenti non ha innovato in tema di organizzazione, ma ha creato soltanto confusione;

In alcune Facoltà è stato istituito il numero chiuso, forse troppo chiuso come in medicina: meno di diecimila iscrizioni in un anno, sapendo una componente non termina gli studi e chi termina spesso svolge altri lavori. La stampa denuncia scarsità di sanitari e si rischia di doverli importare dall’est europeo. Se proprio si vuol tenere il numero chiuso, va allargata l’entità al doppio o al triplo. Come concetto sarebbe ancor meglio lasciare ai giovani la possibilità di scegliere senza doverli sottoporre a censure.

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About Giuseppe Rocco

Esperto di commercio estero. Vice Segretario generale della Camera di commercio di Bologna sino al 31.1.2007; Docente esterno presso l’Università di Bologna, Istituto Economico della Facoltà di Scienze politiche, in qualità di cultore dal 1990 al 2006, di “Istituzioni Economiche Internazionali” e in aggiunta dal 2002 al 2006 di “Diritti umani”; Pubblicista iscritto all’Albo dei Giornalisti dal 1985; 450 articoli per 23 testate nazionali; in particolare consulente del Il Resto del Carlino, in materia di Commercio internazionale, dal 1991 al 1995; Saggista ed autore di 53 libri scientifici ed economici; Membro del Consiglio di Amministrazione del Centergross dal 1993 al 2007;Membro del Collegio dei periti doganali regionali E. Romagna, per dirimere controverse fra Dogana ed operatori economici dal 1996 al 2000, con specificità sull’Origine della merce.